Dopo 138 anni dalla sua composizione, il 3 febbraio u.s., in una serata storica per Washington D.C., è andata in scena la prima rappresentazione di Morgiane, ou le sultan d’Ispahan di Edmond Dédé, la prima opera scritta da un afroamericano. L’evento ha segnato anche la prima esecuzione integrale dell’opera, che il compositore non riuscì a far rappresentare con lui ancora in vita. A riportare alla luce questo lavoro sono state OperaCréole e Opera Lafayette, due compagnie con base rispettivamente a New Orleans e a Washington D.C. La première postuma si è svolta al Lincoln Theater in forma di concerto, con le forze artistiche delle due compagnie e un cast vocale interamente afroamericano, tra cui si è distinta Mary Elizabeth Williams.
La musica degli afroamericani è tradizionalmente associata al blues, al jazz e alle loro derivazioni, ma la storia di Edmond Dédé (1827-1901) ci riporta a un’epoca in cui questi generi erano ancora lontani dal nascere. Nato a New Orleans in una famiglia di uomini liberi da almeno sette generazioni, Dédé studiò musica con il padre e con Ludovico Gabici, un emigrato italiano. Grazie a una colletta della comunità locale, si trasferì a Parigi, dove frequentò come uditore il prestigioso Conservatoire de Musique, studiando composizione con Fromental Halévy e violino con Jean-Delphin Alard. Successivamente si spostò a Bordeaux, dove divennerépétiteur del Grand Théâtre, per il quale compose un balletto, La Sensitive, nel 1877. In seguito assunse la direzione dell’Alcazar, un café-concert molto in voga nella città francese.
Le sorti di Dédé da questo punto però sembrano meno propizie per il giovane compositore, che si allontanò progressivamente dagli ambienti musicali più prestigiosi. Morgiane, il grand opéra composto nel 1887, rappresentò probabilmente il suo tentativo di riaffermarsi in ambito colto. Forse proprio in questa prospettiva si trasferì nuovamente a Parigi, dove morì nel 1901.
Nonostante non sia mai stata rappresentata fino a oggi, Morgiane ha già alle spalle una storia avventurosa. Scritta su libretto di Louis Brunet, l’opera subì diverse revisioni da parte del compositore negli anni successivi. Dopo la sua morte, la partitura scomparve per decenni fino a riemergere in una collezione privata di spartiti francesi, successivamente acquisita e digitalizzata ad Harvard. A seguito della pubblicazione di un libro sulla sua figura, scritto dalla musicologa Sally McKee nel 2017, l’interesse per Dédé crebbe all’interno della comunità musicale americana. Il direttore Patrick Dupre Quigley e la produttrice di Opera Lafayette, Givonna Joseph, unirono quindi le forze per ricostruire una partitura eseguibile, un lavoro durato 18 mesi e reso difficile dalla necessità di decifrare le note, colmare lacune nel manoscritto e rendere l’opera coerente e performabile.
Il librettista Louis Brunet, all’epoca redattore di un giornale di Bordeaux, ambientò la vicenda nella Persia dei sultani, ispirandosi vagamente ai racconti de Le mille e una notte. La trama ruota attorno ad Amine, figlia di Morgiane e Hagi Hassan, promessa sposa di Ali, ma rapita dall’emissario del sultano Kourouschah. I suoi genitori e il fidanzato la inseguono fino a Ispahan, dove scoprono che è stata condotta nel palazzo del sovrano, intenzionato a sposarla. Fingendosi invitati alle nozze, i tre tentano di dissuaderlo, ma vengono imprigionati. Solo dopo essere stati condannati a morte, Morgaine rivela che Amine è la figlia di del sultano. Morgaine infatti è la sultana, scappata dalla corte molti anni prima. Dopo l’agnizione e il perdono generale, l’opera finisce in festa.
L’opera è, nelle intenzioni di Dédé, un grand opéra, con una struttura in quattro atti, diversi balletti e un frequente intervento dei cori nel corso dell’azione. Ci si potrebbe domandare cosa abbia spinto l’autore a scegliere proprio questo genere quando, alla fine degli anni ’80 dell’Ottocento, l’opera francese si stava spostando verso un’altra concezione del teatro musicale con le opere di Bizet e Massenet. Forse, nel tentativo di elevare il livello della propria arte, il compositore ha scelto proprio un genere ultra-consolidato, che richiede un grande dispendio di energie e che potesse permettergli di raggiungere le sue ambizioni in ambienti musicali tradizionali. A influire, però, potrebbe essere stata anche la sua formazione musicale, a diretto contatto con Fromental Halévy, il compositore de La Juive, esperto proprio nel genere grand opéra.
Dal punto di vista strettamente musicale, l’opera si inserisce perfettamente nella musica del suo tempo. Si sentono fortissimi gli influssi del già citato Halévy e di Giacomo Meyerbeer, quindi di compositori di una o due generazioni più anziani di Dédé. La linea vocale richiama poi la musica dei café concert, nei quali il musicista ha operato per gran parte della sua carriera. Ascoltando l’opera, non si direbbe che il compositore abbia radici diverse da quelle della Francia ottocentesca. L’unico elemento vagamente esotico si può sentire nei balletti, ma è difficile distinguere ciò che proviene dai ritmi creoli/caraibici americani (come affermano le companie d’opera locali) e ciò che rientra nel generico orientalismo dell’opera francese del tempo. Dédé, afroamericano in terra francese, potrebbe aver scelto questo soggetto, con la sua ambientazione mediorientale, proprio per esprimere l’alterità esistenziale e musicale che lo toccava da vicino.
Dédé sembra essere perfettamente a suo agio nell’usare le convenzioni della scrittura musicale del grand opéra. La parte di Amine è quella di un soprano di coloratura con un fondo lirico, simile a Juliette nel Roméo et Juliette di Gounod. La parte del tenore è acutissima, perfettamente aderente ai tenori contraltini dell’opera francese di metà Ottocento. Le parti del baritono e del basso sono invece nobili e liriche, ancora coerenti con i modelli d’Oltralpe, mentre l’unica parte più drammatica, ricalcata sulle vocalità femminili verdiane, è quella di Morgiane.
Dall’ascolto si potrebbe ipotizzare, al netto delle questioni razziali, che Dédé non sia riuscito a far rappresentare quest’opera soprattutto perché si trattava di un lavoro già passato di moda al momento della sua creazione, dato che i riferimenti artistici rimandavano ad almeno vent’anni prima. A non aiutare, poi, la mancanza di un ruolo da protagonista convincente, che avrebbe potuto dare risalto alle capacità di un cantante. Infatti, l’opera cambierà titolo tre volte, ogni volta cambiando protagonista: da Amine, al Sultan d’Ispahan, e poi, nell’ultima versione, Morgiane, ou le sultan d’Ispahan. Infine, una certa convenzionalità nella musica e nella trama, e la mancanza di grandi melodie ispirate hanno contribuito a chiudere le porte dei teatri al già maturo compositore.
Guidati dal direttore Patrick Dupre Quigley – al quale dobbiamo la ricostruzione dello spartito – le maestranze congiunte di OperaCréole e di Opera Lafayette hanno dato il loro meglio per resuscitare questo lavoro dimenticato, eseguito in forma di concerto. La compagnia vocale, composta da artisti afroamericani, ha visto spiccare soprattutto Mary Elizabeth Williams nel ruolo del titolo. Il soprano ha brillato per la capacità interpretativa, per la voce sicura in tutto il registro e per la resa drammatica del personaggio (tra l’altro, è la moglie del tenore italiano Lorenzo Decaro). Molto brava anche la Amine di Nicole Cabell, con una buona voce da soprano lirico e con tutte le agilità richieste dalla parte. Tra gli altri interpreti si trovavano Kenneth Kellogg nel ruolo del Sultano, Joshua Conyers nei panni del padre, Chauncey Packer come il fidanzato e Jonathan Woody come lo sgherro Beher.
La parabola di Dédé è interessante per capire le possibilità di un musicista nero nell’Ottocento. Infatti, una carriera da compositore e direttore d’orchestra sarebbe stata impossibile nella New Orleans del suo tempo. Dédé era nato in un periodo in cui il sud degli Stati Uniti era una società prevalentemente schiavista, pervasa dalle tensioni razziali, e dove la vita degli afroamericani (anche di quelli nati liberi) era soggetta a severe limitazioni della libertà personale. Le cose peggiorarono ulteriormente dopo la guerra civile, quando la liberazione dei neri risvegliò le paure della classe dominante locale, che reagì segregando ulteriormente gli afroamericani. In Francia, invece, l’assenza di leggi esplicite sull’argomento permise a Dédé di vivere della propria musica. È anzi sorprendente che, nonostante i pregiudizi e le barriere culturali presenti anche in Francia, sia riuscito a ottenere buone posizioni come musicista.
Un altro punto degno di nota sono gli interessi e le aspirazioni del compositore americano. Gli Stati Uniti ottocenteschi erano ancora colonie culturali europee, succubi delle innovazioni musicali del Vecchio Continente e incapaci di trovare una propria voce in campo musicale. La rivoluzione avverrà solo all’inizio del Novecento, con l’affermazione del Ragtime, del Blues e di quegli stili che verranno poi generalmente chiamati Jazz e che il mondo riconoscerà come il vernacolo musicale proprio degli Stati Uniti. Nonostante questa rivoluzione musicale parta proprio dalla musica degli afroamericani, Dédé sembra invece prendere come riferimento i modelli musicali europei e ignorare la musica della sua comunità. Infatti, emigrò in Francia e fece letteralmente carte false per poter entrare almeno come uditore nel Conservatorio parigino, dove lavorò con i più importanti compositori e musicisti francesi. Questo è totalmente coerente con la gerarchia sociale e artistica contemporanea a Dédé negli Stati Uniti, che vedeva nella tradizione europea l’unica espressione musicale in grado di garantire prestigio artistico.
Ma la storia di Dédé è interessante anche perché ci racconta come la cultura musicale europea si stesse dividendo tra una musica colta (quella sinfonica, dell’opera, del balletto, ecc.) e una più semplice e popolare (quella dei café concert, dei café-chantant, delle operette, dei valzer, ecc.). Dédé evidentemente ambiva alla prima categoria, come dimostrano i suoi studi al Conservatorio, il balletto scritto per Bordeaux e la composizione di un grand opéra. Tuttavia, la grande competitività – allora come oggi – della musica colta spinse il compositore verso un campo meno prestigioso, quello dei café concert, dove riuscì a ottenere incarichi relativamente importanti, come quello di direttore. La sua carriera, quindi, racconta la nascita di una musica popolare che poi prenderà il sopravvento (anche attraverso l’avvento del Jazz) sulla musica colta, relegando quest’ultima a cerchie sempre più ristrette della popolazione.
Ci auguriamo che quest’opera possa ottenere il giusto riconoscimento per l’importanza storica che rappresenta. Oltre all’esecuzione qui riportata, le due compagnie d’opera hanno proposto questo lavoro a New Orleans (in una versione ridotta) e lo faranno ancora a New York, nel Rose Theater (la sezione del Lincoln Center dedicata al Jazz), e nell’area di Washington D.C., dove verrà anche registrato e trasformato in CD. Questi sforzi si inseriscono nel doveroso filone di riscoperta dei compositori afroamericani di musica classica, troppo spesso messi da parte o considerati a priori come musicisti inferiori o capaci solo di scrivere Jazz. In questo senso, la Deutsche Grammophon ha recentemente proposto la prima e la terza sinfonia di Florence Price, eseguite da Yannick Nézet-Séguin e dalla Philadelphia Orchestra.
Infine, il pubblico del Lincoln Theater, cordiale e generoso con l’esecuzione, ha potuto godere di ben due bar forniti di tutti i liquori possibili (uno dei quali posizionato strategicamente in fondo alla platea) e di uno stand che vendeva popcorn. Più di uno spettatore (me compreso) non è riuscito a resistere alla tentazione (più unica che rara) di ascoltare l’opera sgranocchiando un po’ di popcorn o bevendo un cocktail dal bancone del bar.