Nell'anno dedicato alla commemorazione di Giacomo Puccini per il centenario della sua scomparsa, si offre un quadro meno noto, ma sempre molto interessante, della sua ricca ed originale personalità prendendo in particolare considerazione il celebre compositore lucchese lontano dagli affollati teatri e dalle rumorose città. Egli infatti non vedeva l'ora di potersi rifugiare nella Maremma etrusca in cerca di pace e di silenzio per dare libero sfogo alla sua grande passione per la caccia, come attesta la lettera, inviata nel dicembre 1899 da Torre del Lago a Don Pietro Panichelli:
Caro Pretino, la ringrazio dei figurini svizzeri e della sua gentile letterina. Speriamo che Tosca vada bene e che faccia onore al suo autore [...] Io dopo le sacramentali tre recite (se non mi fischiano alla prima) mi rendo latitante nei boschi che furono asilo sicuro per tanto tempo a Tiburzi (famigerato brigante maremmano, NdR) e compagni. Là alle beccacce sfogherò l'ira venatoria e mi rifarò dei patemi provati in trenta o trentacinque giorni di prove. Lì nel verde, nell'agreste, nel selvaggio della tanto splendida maremma, ospite di simpatiche persone, passerò credo i più bei giorni della mia esistenza. Ma siete matti?! Essere a caccia dove certamente ce n'è, e dopo un successo! È il momento vero dell'animo tranquillo! Ne voglio profittare e mi ci tufferò. Altro che banchetti, ricevimenti, visite ufficiali! (E. Gara,Carteggi pucciniani, a c., vol. I, Milano, Ricordi, 1958, p. 184).
Infatti per Puccini era fondamentale la pace, che ritrovava nei silenzi delle selve selvagge di Capalbio, paesino in provincia di Grosseto, oppure nella quiete dei suoi laghi, ad esempio, nella palude di Burano, allora popolati da tanta selvaggina, dove poteva liberamente dare sfogo alla passione venatoria coll'amato fucile; pare che il primo gli fosse stato donato dal Marchese Carlo Ginori Lisci. Il desiderio di solitudine e il costante interesse per la caccia trovano particolare conferma nelle piacevoli lettere indirizzate da Puccini all'amico Giovacchino Mazzini, vecchio frequentatore del Club La Bohème di Torre del Lago: “Pur trovandomi a Parigi, rimpiango la Buffalinetta (luogo di caccia, località in Banditissima, NdR) a tutto il mondo” (M. Puccioni,Cacce e cacciatori di Toscana: ricordi e confessioni, Firenze, Vallecchi, 1934, pp.144-145). Invero era solito dire che lo strumento più amato, dopo il pianoforte, fosse il fucile.
Proseguendo nell'amena lettura del volume dell'avv. Mario Puccioni, si apprende che il compositore lucchese andava in estasi davanti ad un tramonto e al sorgere del sole, ma non amava in generale gli artisti e le mostre. Infatti dopo i trionfi della Tosca al Costanzi di Roma (14 gennaio 1900), stanco di girovagare, ricordava frequentemente con acuta nostalgia le trascorse battute di caccia col fermo proposito di ritornare al più presto in macchia; inoltre scriveva agli amici e ai parenti per essere aggiornato sulla situazione venatoria, come nella seguente lettera inviata da Torino nel febbraio del 1900 all’amico Giovacchino Mazzini:
Caro Mazzini, sento delle ecatombe cinghialesche [...] Noi andremo in scena martedì (si riferisce a Tosca, NdR).Tutto promette bene, vedremo. A Roma hanno incassato complessivamente lire 160.000... Oh quanto v’invidio o fannulloni! e pensare che per me durerà ancora questa storia di girovagare! Ho Milano subito, e poi un brevissimo respiro, indi un’infinità di città e cittaduzze vogliono questo clistere della Tosca, compreso Firenze in Maggio. E Londra subito dopo. Fui a Torre pochi giorni ... In tre ore uccisi tre beccacce e poi fui da Ginori (Il Marchese Carlo Ginori Lischi, NdR) dove non trovai che 4 folaghe, un beccaccino e una tinca in un bertibello (arnese da pesca, NdR)... Ripensando al Lago, laghetto (il lago di Burano, NdR), di' a Marco (Collacchioni, nipote del senatore Giambattista Collacchioni, che era nato a Sansepolcro, Arezzo, nel 1814, NdR) che si decida a mettere delle botti e far venire dei barchini. È un vero peccato trascurare quel paradiso terrestre vero. Di' alla signora Maria, carissima, una serie di litanie laudatorie a mio nome (Puccioni cit., pgg.148-149).
In queste amabili pagine ricorre spesso infatti il ricordo degl'indimenticabili amici Marco e Donna Maria Collacchioni coi quali, per molti anni, durante l'inverno il Maestro trascorse giornate di caccia o di diporto ammirando le bellezze della Maremma. A Mingarino di Capalbio si trovava infatti la riserva di caccia appartenente alla nobile famiglia Collacchioni, proprietari di un immenso latifondo e del lago di Burano (G. Magri, L'uomo Puccini, Milano, Mursia, 1992).
Il compositore lucchese fu invitato per la prima volta a Capalbio nel dicembre 1896 dall'ospitale Maria De Piccolellis Collacchioni che organizzava numerosi raduni venatori per allargare la cerchia delle sue importanti amicizie. Il trentottenne maestro Puccini, già famoso per Le Villi, Edgar, Manon Lescaut e La bohème che era andata in scena il 1° febbraio di quell’anno a Torino, arrivò in treno da Milano ad Orbetello dove lo attendevano Giuseppe Malenchini e Marco Collacchioni per condurlo a Capalbio. Molto viva ed efficace la presentazione di Mario Fedrigo, appassionato cacciatore di valle ed amante della musica lirica, che riporto di seguito e che riproduce l'ambiente del tempo e i frenetici preparativi per l'imminente caccia.
La mania venatoria del Maestro era giunta alla nobildonna da Malenchini e Giovacchino Mazzini, ospiti fissi a Capalbio, che frequentavano anche la riserva di Migliarino, denominata per antonomasia la banditissima, insieme a Puccini. I Collacchioni abitavano nel castello in cima al paese. Quel giorno la casa era piena di ospiti, tutti cacciatori, perché la mattina c’era stata una grande battuta al cinghiale e l’indomani ce ne sarebbe stata un’altra ancora più importante per l’imponente dispiegamento di uomini, cani, cavalli e cibi vari. Un’organizzazione capillare per una grandiosa battuta di caccia. Sveglia all’alba. Al centro della serata c’era Puccini che, dietro le insistenze del Malenchini, raccontò le alterne vicende di Bohème, la sua creatura più recente. Ne parlò in modo semplice, attenendosi ai fatti senza enfatizzarli, e questo piacque ai numerosi ospiti; così come piacque un elegantissimo gilè di cuoio che il maestro sfoggiava per l’occasione. Le ore passavano veloci e, in previsione della battuta del giorno dopo, che imponeva riposo e riflessi pronti, donna Maria invitò tutti a ritirarsi nelle rispettive stanze. Com’era consuetudine in occasione delle grandi battute, alle prime luci dell’alba il canaio attraversò il paese per avvertire tutti i capalbiesi in quanto, per un diritto secolare, l’intera popolazione poteva partecipare alla caccia. Verso le otto, chi a piedi, chi a dorso d’asino, con diverse decine di cani, mossero verso “il rialto”, il luogo del raduno. I Collacchioni, con i loro ospiti, lasciarono il castello a cavallo (M. Fedrigo, Puccini per amico, Costa, 2007, p. 23).
Una sera del 1897 il maestro, mentre era ospite dei Collacchioni a Capalbio, dietro le insistenti premure di Beppe Malenchini, si mise alla tastiera del vecchio pianoforte, ma poi si rifiutò di suonarlo adducendo la motivazione che era troppo antiquato. Puccioni ricorda a p. 66 che la sera dopo trovasse nella sala del palazzo il pianoforte di Ferruccio Rosatelli, che era stato ivi trasportato. Postosi di mala voglia al piano, dopo aver ricevuto tante sollecitazioni, Puccini “a poco per volta suonò tutta la Tosca e accompagnava la musica col canto, intonatissimo, a mezza voce. E così quella sera e le successive ci deliziò con le sue opere, delle quali ci fece apprezzare tutta l'intima, insuperabile bellezza”. Nel 1956 un pianoforte Steinway&Sons D274 fu donato al Comune di Sansepolcro dalla Contessa Bianca Collacchioni Cavazza. La nobildonna era quella bimba che nella lettera del febbraio 1900 Puccini aveva ricordato con questi affettuosi termini: "Alla bella Mimmina tanti baci" (Puccioni cit., p. 150) e che nel palazzo Collacchioni aveva assistito alle serate in cui il compositore suonava il pianoforte per allietare gli astanti.
Col passar del tempo, infatti, l'amicizia con i Collacchioni si intensificò e divenne più intima e confidenziale come rivelano la frequente corrispondenza e l'invio di saluti tramite i comuni amici. Ad esempio, il 15 settembre 1920 Puccini confida a Giovacchino Mazzini: “Mi ha scritto la sig.Maria Collacchioni: ha ricevuto il ritratto, mi dice di andare a farle una visita lassù (a Castelnuovo, NdR.)“. I rapporti ospitali furono cordialmente intrattenuti e coltivati in seguito anche dalla figlia di Maria, la contessa Bianca Collacchioni Cavazza, come si evince dalle altre lettere rintracciate.
Si avverte la grande confidenza che si era instaurata pure consultando il 2° volume dell'Epistolario ( a c. di G. Biagi Ravenni e D. Schickling, Firenze, Leo S. Olschki, 2018) in cui a p.147 il Maestro rivela il suo rammarico per non aver ancora scritto al Comitato del Borgo e per non aver risposto a Marco Collacchioni: "Ma al Borgo (Sansepolcro, NdR.) non posso andare assolutamente. Figurati che non ho ancora fatto nulla del 3° atto" (di Tosca, NdR). Molto probabilmente Marco aveva invitato Puccini a presenziare al debutto del soprano forlivese Maria Farneti, carissima allieva del compositore Pietro Mascagni. L'affascinante cantante esordì al Teatro Dante di Sansepolcro il 26 agosto 1899, ma anche se le recite si protrassero per numerose serate, il compositore si limitò ad inviare il 23 settembre 1899 un suo ritratto dove appose questa gratificante dedica (“L'Eco di Urbino”, 8 ottobre 1899):
Alla distinta Signorina Maria Farneti (la geniale Mimì di S. Sepolcro)
augurandole la più brillante carriera
Giacomo Puccini. Tor del Lago 23 settembre 1899
(Rallegramenti ed auguri)
La ''Provincia di Arezzo'' ricorse a termini elogiativi per la splendida, indimenticabile serata tenuta in onore della primadonna Maria Farneti che ricevette, oltre ai fragorosi ed unanimi applausi, “preziosi doni e tra questi un magnifico servizio per toilette dalla nobil donna Maria Collacchioni-Piccolellis, un elegantissimo cammeo della nobil donna Marianna Collacchioni-Giovagnoli, uno splendido braccialetto del Comitato, un orologio d'oro con catenella di alcuni ammiratori e, poi, canestri di mazzi di fiori a profusione”.
Nelle lettere, vergate da Puccini con la consueta grafia nervosa e frettolosa, sono frequenti anche i riferimenti ai cani da caccia. Ricorrendo a simpatici appellativi, come era suo costume, scrive infatti nel febbraio del 1898 a Giovacchino Mazzini (Puccioni cit., 144-145):
Sbafone carissimo,... sappimi dire qualche cosa di Scarpia (un cane da penna che intendeva acquistare, NdR) perché se veramente vien bene, non mi provvedo, ma se venisse un tivo lava (lavativo, NdR) provvedo qui, e bisogna che me ne occupi per tempo; dunque cerca di sapere la verità vera dal Lilli e magari, se tu puoi, vacci e provalo - punta sostenuta e se ha naso. Se no, ci faccio delle salsicce che regalo al Sor Eugenio (il marchese Ottolini, NdR).
Solitamente per procurarsi “abili” cani si rivolgeva a Don Meco (alias monsignor Domenico Mercati, canonico della cattedrale di San Sepolcro), come confida il 15 settembre 1920 a p. 156 del volume di Puccioni citato: “Ho preso un nuovo portentoso cane da Don Meco. Lo avrò a metà ottobre al mio ritorno dallo schifoso torbaceo Torre del Lago”. Il Maestro andava a caccia anche con un cane da ferma, un setter inglese, la Lea, che amava moltissimo e quando morì, affranto, scrisse ad una nipote: “...mi morì la cagna prediletta, la Lea e per poco non piansi”.
Altre occasioni venatorie gli furono offerte generosamente dal patrizio fiorentino Conte Giuseppe Della Gherardesca, proprietario di una vasta tenuta in Maremma, che invitava il Maestro, già famoso, nel Castello di Bolgheri. Nel novembre del 1905 Puccini comunica al suo amico prete, Don Pietro Panichelli: “Ti scriverò in seguito, ma oggi ho fretta dovendo partire subito per Castagneto Marittimo, cortesemente invitato dai conti Della Gherardesca al loro Castello di Bolgheri per alcune partite di caccia” (E. Gara cit., vol. p. 302 e M. Sessa, Andrò nelle Maremme: Puccini a caccia tra Bolgheri e Capalbio: nelle lettere inedite a Giuseppe della Gherardesca e Piero Antinori, 1903 -1924, Lucca, Pacini-Fazzi ed., 2019).
Purtroppo, con il passar degli anni gli impegni di Puccini divennero sempre più numerosi e non gli lasciarono abbastanza spazio per la caccia; questa situazione lo intristiva assai e lo rendeva molto depresso. Nel dicembre del 1913 scrisse infatti da Milano al caro amico Giovacchino Mazzini: “Io, dopo Natale o tra pochi giorni andrò a Torre dove mi fermerò in attesa di venire a Capalbio. Qui sto veramente male; dal giorno dell’arrivo a oggi mai sono stato in buona forma. Mi chiamano d’urgenza e frequenza a Trieste per Fanciulla (La Fanciulla del West, NdR) ... Io qui sto male; il clima benché soleggiato di Milano non mi fa bene. Dopo le feste io scappo...”
Puccini amava moltissimo ”quella strana ed affascinante Maremma” che gli restò sempre nel cuore per i ricordi legati alla caccia e all'affascinante ambiente naturale. Egli stesso in una lettera dell'autunno 1915 confidò al librettista di Rondine, Tabarro eTurandot, Giuseppe Adami: “Paese selvaggio, primitivo, lontano lontano dal mondo, dove si riposa veramente lo spirito e si rinforza il corpo... Mi sono divertito tanto a caccia di beccacce e per quei boschi briganteschi”.
Roberta Paganelli