“Chi vuol vedere la bella romagnola, vada a Bagnacavallo, a Lugo e a Cotignola”. Questo detto proverbiale assai noto si addice perfettamente alla famosa cantante romagnola Gea Della Garisenda che è l’esempio eclatante della femminilità, come traspare dalle splendide immagini che ci riportano ai primi anni del Novecento. La sua bellezza, squisitamente mediterranea, era di uno splendore incomparabile ed eloquente, perché aveva la freschezza e l’incarnato delle rose color albicocca che prediligeva. Era una donna affascinante, dai grandi occhi profondi ed eloquenti, qualcuno addirittura li definì “assassini”, dotata di una flessuosa eleganza, ma soprattutto di una voce incantevole.
Gea Della Garisenda (nome d’arte di Alessandra Drudi) era nata il 24 settembre 1878 a Cotignola, un tranquillo paese immerso nella ridente campagna romagnola in provincia di Ravenna. Per le modeste condizioni economiche della sua famiglia fu affidata alle cure delle suore del Collegio “Don Morelli” di Lugo, poi frequentò il Liceo Musicale di Bologna grazie al denaro raccolto con una pubblica sottoscrizione promossa dal sindaco di Cotignola. Appena conseguito brillantemente il diploma al Liceo bolognese, il 2 settembre 1899 debuttò come Mimì al Rossini di Lugo ne La Bohème di Puccini a fianco del grande baritono Riccardo Stracciari e successivamente come Margherita nel Faust di Gounod al Goldoni di Bagnacavallo (28 settembre 1899) conseguendo esiti del tutto soddisfacenti. Tre mesi dopo la sua Nedda coinvolgeva nei Pagliacci di Leoncavallo al Duse di Bologna il celebre baritono Titta Ruffo. In seguito il giovane soprano conseguì altri autentici successi, ma dovette riconoscere che la lirica purtroppo non era molto redditizia e che non era facile essere scritturati a causa dell’elevato numero di validi artisti disponibili (“640 soprani, 250 fra mezzosoprani e contralti, 470 tenori, 310 baritoni, 200 bassi, 30 bassi comici “), come figura nel censimento pubblicato da “Il Teatro Illustrato” nell’aprile 1910.
La disagiata situazione finanziaria, determinata pure dal marito Pier Giovanni Dragoni, (sposato a ventiquattro anni il 15 febbraio 1902), che purtroppo non era abile nel gestire le finanze, la spinse perciò a lasciare l’opera per l’operetta, che allora era in voga ed entusiasmava il pubblico, ma fu una scelta difficile e molto ponderata. Un conoscente, l’avv. Franco Fano, impresario artistico di Luigi Zerboni, l’aiutò presentandola alla “Società Suvini-Zerboni”, che era proprietaria a Milano di numerosi teatri e che proprio pochi mesi prima, siamo nel 1907, aveva costituito l’importante compagnia di operette “Città di Milano”. L’audizione andò benissimo, ma Sandrina esitava a fare il gran passo; allora pose come condizione che le fosse assegnato un nome d’arte per poter salvare il suo futuro di cantante lirica nell’eventualità di un fiasco operettistico.
Quando esordì il 28 giugno 1907 ne La Mascotte di Audran al Teatro Dal Verme di Milano, fu un trionfo, come riportarono le entusiastiche recensioni. La stimata rivista teatrale “Il Mondo Artistico” affermò infatti che la cantante
aveva abbracciato un genere più consono al suo temperamento, che è caldo, esuberante ed estremamente vitale e che era riuscita a creare con il suo gusto lirico prezioso personaggi d’operetta che non hanno certo nulla da invidiare, per difficoltà vocali e per esigenze di gioco scenico, alle più ardue incarnazioni dell’opera lirica.
La Mascotte le portò veramente fortuna: anche nella serata in suo onore, tenutasi al Teatro Costanzi di Roma il 24 ottobre 1908 conseguì le più ambite soddisfazioni, come si evince dalla recensione pubblicata dal “Giornale d’Italia”: “Ella ha trionfalmente conquistato lo spontaneo favore del pubblico con la sua efficacia di artista e soprattutto col suo raro valore di cantante”. Il successo andò crescendo di giorno in giorno e le consentì di passare da una compagnia artistica ad un'altra, finché non ne costituì una propria, la “Compagnia Gea della Garisenda” che diresse con tale capacità da essere qualificata “una delle migliori d’Italia”.
Illustri personaggi di quel tempo quali Matilde Serao, Salvatore Di Giacomo, Enrico Pascarella, Trilussa, tanto per citarne alcuni, le attestarono la loro stima dedicandole versi o note musicali, importanti autografi che rintracciai nel corso della mia ricerca che poi sfociò nella monografia artistica Gea Della Garisenda, regina dell’operetta (Faenza, Edit, 1999).
Soprattutto, però, quest’affascinante cantante legò il suo nome alla famosa canzone patriottica “Tripoli, bel suol d’amore”, composta appositamente per lei da Colombino Arona su parole di Giovanni Corvetto e lanciata una ventina di giorni prima della spedizione di Libia; la rese così popolare da conferirle quasi un alone mitico. Quando la sera dell’8 settembre 1911, in un clima già surriscaldato, nell’intervallo tra il primo e il secondo atto della rivista Monopoleone di Forzano, Gea apparve sulla scena del Teatro Balbo di Torino, fasciata dalla bandiera tricolore, successe il finimondo. Il pubblico non cessava di applaudire e cantava l’inno stampato su foglietti volanti.
Nella luce abbagliante dei riflettori a piena carica, appare sulla scena una formosa e giovine donna che pare creata apposta per impersonare i caratteri della maestosa bellezza italiana: chioma nera, occhi ridenti, carnagione di rosa affumicata, perfetta di proporzioni con una punta di salutare robustezza popolana. È Alessandrina Drudi da Lugo di Romagna, in arte Gea della Garisenda. La bandiera dei tre colori la fascia tutta mettendone viemmeglio in evidenza le forme statuarie, lasciando in dubbio se ella indossi sotto i tre colori qualc’altro velo o capo di vestiario. Un mormorio corre per la platea e l’entusiasmo sta per traboccare in grida, quando un braccio di marmo caldo par che gitti in aria con un gesto birichino di cara fierezza le prime parole ch’escono trillando da quella morbida gola di colomba, di una canzone che da quel momento correrà trionfalmente lungo tutta la penisola: Tripoli, bel suol d’amor (Antonio Baldini in “Corriere Lombardo”, 29 settembre 1945).
Il 1911 fu un anno molto determinante per Gea, perché nel corso delle sue rappresentazioni teatrali conobbe ad Alessandria Teresio Borsalino, “l’industriale dei cappelli”, di undici anni più anziano di lei, che la conquistò anche con le sue maniere cortesi e gentili. Fu subito un incontro felice che in seguito indusse Gea a rifiutare l’allettante proposta del maestro Ruggero Leoncavallo, che la voleva protagonista di una sua nuova opera e che l’invitava a ritornare alla lirica e a fare con lui una gran tournée artistica in Italia, come si evince da una lunga lettera inviatale il 10 settembre 1913. Anche negli anni a venire l’Artista ridusse gradualmente le sue apparizioni in palcoscenico concedendosi periodi più lunghi di riposo, soprattutto nella stagione estiva per non suscitare la gelosia di Teresio. Le sue interpretazioni sulla scena saranno però ancora molto gratificanti: felicissima quella con la Compagnia Mauro N.2 (1919), successivamente con la Compagnia Lombardo N.3 (diretta da Luigi Maresca) e con quella di Ivan Darclée (1920).
Nel 1916 Gea aveva pure participato all’attività cinematografica come interprete del film di Mario Ceccatelli “La Vergine innamorata” che, quando fu pronto per la proiezione, il 1° gennaio 1918, uscì col titolo Amore che tutto vince.
Tuttavia nel 1922, ancora nel pieno del successo, decise di abbandonare definitivamente le scene e si ritirò cantando la celebratissima Vedova allegra all’Apollo di Bologna. Poté così coltivare gli affetti privati: la figlia Piera, nata dal primo matrimonio, Teresio e dal 1924 l'adorato nipotino Alessandro Savazzi.
Nel 1925, su suggerimento di Teresio, acquistò “Villa Amalia” in località Villa Verucchio (RN), dalla cui torretta, nelle giornate serene, si può ammirare “l’azzurra vision di San Marino” e il “tremolare della marina”.
Qui condusse una vita serena nella quiete della campagna, da cui si allontanava solamente per trascorrere le vacanze estive nella vicina Rimini, dove possedeva uno chalet in stile svizzero, o per raggiungere l’appartamento di Milano, di sua proprietà, o la Scala, essendo abbonata a un palco; Teresio invece doveva trattenersi periodicamente ad Alessandria per dirigere l'azienda e la poteva raggiungere soltanto nel week end. Con lui fu veramente felice, ma riuscì a regolarizzare l’unione soltanto il 3 settembre 1933, dopo la morte del primo marito dal quale era separata da vario tempo. Il loro amore durò fino al 1939, anno in cui il “senatore dei cappelli” (così era affettuosamente chiamato da Sandra) morì di broncopolmonite come il primo marito, per una strana coincidenza.
Gea continuò a vivere a Villa Amalia, dove con munifica ospitalità accoglieva parenti ed amici. Tra questi ricordiamo, in particolare, il grande cartellonista triestino Marcello Dudovich che aveva conosciuto a Milano nel lontano 1911 quando egli vinse il concorso per il manifesto indetto dalla prestigiosa Ditta Borsalino. Divennero grandi amici, un’amicizia durata cinquant’anni; dapprima si incontravano a Milano, dove “Dudo” e Gea risiedevano abitualmente e frequentavano gli stessi salotti “buoni” nelle case di finanzieri e di industriali, lui come famoso artista, lei come ex stella dello spettacolo. In seguito, negli anni Trenta, la munifica Gea lo accolse insieme alla moglie nella sua casa di Riccione; nella primavera-estate 1946 lo invitò a Villa Amalia, col compito di affrescarne alcune stanze. Nella sala delle bandiere Dudo ritrasse con divertito candore donne e cavalieri sullo sfondo dei castelli della Val Marecchia, una fuga di bandiere e di armi antiche. Compaiono nell’affresco del salotto anche i familiari (Rosanna, nipote di Gea) e le cose care (Pierrette, la scimmia mascotte dei Borsalino, che viveva come “una di loro”).
Sandra manifestò il suo temperamento deciso anche quando amministrò inizialmente da sola, poi, con l’aiuto del genero Vigilio Savazzi, la sua proprietà, quella che fu la tenuta dei conti Pergami-Belluzzi, che contava ventinove fattorie (nel 1949) e coordinò pure una fitta schiera di contadini. Quando talora si occupava con grande energia di agricoltura, non disdegnava di seguire di persona qualche lavoro agreste. I contadini l’amavano e la rispettavano e talora erano accolti nel salotto della sua casa dove improvvisava “uno spettacolino” per loro; la domenica, durante la messa officiata nella cappellina privata di Villa Amalia, cantava insieme alle figlie di mezzadri le “laudi” della Vergine, che aveva con passione loro insegnato.
A dir la verità, si sentiva sempre un’artista e fu incapace di abbandonare del tutto i panni della cantante di classe e di chiudere nel cassetto i fantasmi di una carriera brillante. Proprio per quest’innata vocazione a cantare e a recitare, sostenuta da un’esuberante vitalità, non esitò ad esibirsi ancora, nonostante avesse superato la settantina. Nel 1952, nel corso dei primi esperimenti televisivi, Sandra apparve anche sui teleschermi insieme ad alcuni cantanti della Casa di Riposo per artisti “G. Verdi” di Milano; in quella occasione l’Artista tornò a cantare Tripoli bel suol d’amore con lo stesso entusiasmo del 1911.
Ormai settantanovenne, nel 1957, sempre sostenuta da un’eccezionale energia, partecipò alla trasmissione radiofonica “La famiglia dell’anno”, consistente in una gara tra le “Famiglie-tipo regionali”. Gea rappresentò la categoria delle “nonne” dell’Emilia Romagna e vinse, dopo aver superato varie selezioni, l’ambito premio “Il caminetto d’oro”.
Nel febbraio del 1958 fu però colpita da una broncopolmonite doppia che indebolì la sua forte fibra e le procurò una così grande stanchezza da desiderare la morte per ricongiungersi al suo Teresio: “Io aspetto solo di morire per poter tornare con lui, so che è lassù che mi attende a braccia aperte”. Si spense il 7 ottobre 1961 nella sua casa di Villa Verucchio, all’età di ottantatré anni. La salma fu poi traslata ad Alessandria nella tomba della famiglia Borsalino dove ora riposa accanto a Teresio.
Nel 1999, proprio in concomitanza con la pubblicazione del mio libro, Gea Della Garisenda, regina dell’operetta, uscì un raro e prezioso Cd; ad aprirlo è la leggendaria canzone A Tripoli dove l’entusiasmo dell’artista non esita a raddoppiare la p cantando A Trippoli e a proseguirlo son brani vari tra l’altro dal Conte di Lussemburgo, da Eva e dalla Vedova allegra. Furono riprodotti dai vecchi originali dischi Pathè di 35 centimetri di diametro, incisi dal 1907 al 1912 e posseduti dal “Museo del Disco d’Epoca” sito a Sogliano al Rubicone (FC), ma l’incisione dell’epoca non riesce a rendere perfettamente quella squillante voce.
Come scrisse Claudia Pastorino a p. 139 nella chiusa del mio volume Gea Della Garisenda regina dell'operetta
la voce di Gea della Garisenda si piega con naturalezza alla linea melodica e scorrevole di questo genere frizzante, conferendo ad esso dignità e padronanza vocale all’altezza della “signora in lungo”, ossia la lirica. In Eva e La vedova allegra, Gea ci restituisce un fascino che magari in altre voci coeve si annida nella polvere nostalgica dei bei tempi che furono, mentre qui proviene da un temperamento muliebre dell’artista che sa dare alla voce dosaggio di fiati, tenuta del suono, fraseggio vario e mai monotono, calore d’interprete, un canto non stucchevole.
Inoltre, per dirla con il musicologo bolognese Piero Mioli, “con voce chiara, brillante di soprano lirico-leggero, con accento fresco, squillante, comunicativo, a suo modo inimitabile; e senza che vengano mai meno il buon gusto e il buon canto, come dimostrano i diversi passi cantabili eseguiti con tanta intensità espressiva quanta cura -di legato- (“Rassegna Musicale italiana”, gennaio-febbraio 2001).
Nel 1926, quando Gea interruppe definitivamente la sua carriera, il teatro d’operette stava ormai avvertendo i primi segni di stanchezza, ma ella insieme ad altri validi artisti era riuscita a dare credibilità a questo genere e a contribuire in gran parte alla sua fortuna. Era stata una brillante interprete proprio in quegli anni in cui l’operetta italiana aveva conosciuto il suo periodo migliore. Il suo brio indiavolato, la sua birichineria, la sua armoniosa e squillante voce, il magico fuoco dei suoi occhi entreranno d’ora in poi a far parte dei bei ricordi legati a quel favoloso periodo liberty che il libro riproduce: ci immerge invero in un mondo dimenticato che rivive con i suoi personaggi, i suoi colori e i suoi suoni diventando un vivo ritratto di storia e di costume.
Roberta Paganelli