Steve Jobs | John Moore |
Laurene Powell Jobs | Winona Martin |
Kōbun Chino Otogawa | Wei Wu |
Steve (“Woz”) Wozniak | Jonathan Burton |
Chrisann Brennan | Kresley Figueroa |
Paul Jobs | Justin Burgess |
Teacher | Michelle Mariposa |
Young Steve | Stone Stensrud |
Direttrice d'orchestra | Lidiya Yankovskaya |
Regia | Tomer Zvulun |
Scene e costumi | Jacob Climer |
Proiezioni | S. Katy Tucker |
Luci | Robert Wierzel |
Direttore del coro | Steven Gathman |
WNO Orchestra and Chorus |
Ci si può aspettare molte cose dalla vita, ma di certo non di andare a vedere un’opera lirica sulla biografia di Steve Jobs. Eppure è proprio ciò che ha proposto la Washington National Opera con The (R)evolution of Steve Jobs, un’opera in piena regola, con musica di Mason Bates e libretto di Mark Campbell. Andata in scena la prima volta alla Santa Fe Opera nel 2017, questo lavoro è incentrato sulla parabola biografica di Jobs: dal garage dove tutto è cominciato, passando dalla creazione dell’iPhone, fino alla sua scomparsa nel 2011. L’operazione, oltre a lasciarmi perplesso per il concept, non sembra nemmeno essere particolarmente rivelante o coinvolgente, e pare poggiare unicamente sul potere di attrazione del brand “Steve Jobs”.
La biografia del protagonista è raccontata con una serie di flashback e flashforward, come in un film. Si parte dal celebre momento del lancio dell’iPhone per poi vedere il giovane Jobs sognatore hippie che si fa di LSD e che hackera la rete telefonica per fare chiamate internazionali gratuite. In seguito, lo vediamo ossessionato dalla creazione di nuovi oggetti che devono essere sempre più semplici e perfetti. Questo lo porta a diventare un personaggio molto antipatico, ma ad umanizzarlo ci pensano la presenza della moglie, il cancro, la coscienza della propria caducità, e il funerale. Il tutto finisce con un sermone della moglie che si rivolge al pubblico dicendo che Steve Jobs sarà stato anche un uomo difficile, ma ha cambiato il mondo e tutti ormai hanno un iPhone. Aggiunge altresì l’avvertenza (come nelle réclames degli alcolici) di stare attenti a non passare la vita attaccati al cellulare.
La trama è prosaica quanto sembra, senza momenti drammatici di rilievo e senza contrasti che facciano procedere la vicenda, tanto che l’opera (che dura circa un’ora e quaranta) sembra interminabile. Nello sforzo di aggiungere un po’ di dramma alla vicenda gli autori hanno aggiunto situazioni che sfiorano il comico come quando Steve Jobs canta un’aria che compara le sue invenzioni agli strumenti musicali (“We play them, we are not played by them”).
La musica di Mason Bates è tipica dei compositori americani degli ultimi vent’anni, e si iscrive in un tonalismo avanzato unito ad un certo estro melodico, rimanendo tra la musica per film e quella da musical, con qualche incursione sperimentalista. Interessante era l’uso delle tastiere della Apple tra le percussioni. Rimangono però tutti gli orpelli dell’opera italiana, come il canto lirico, le arie, il coro e una grande orchestra ad amalgamare il tutto.
Nonostante la stranezza dell’operazione, questo lavoro si inserisce in una tradizione dell’opera americana che ha raccontato con sorprendente rapidità gli eventi della storia contemporanea. Il primo titolo che viene in mente è Nixon in China di John Adams, la cui prima rappresentazione è stata nel 1987, appena 15 anni dopo il famoso viaggio del presidente americano. A precederla, però, c’è l’opera X: The Life and Times of Malcolm X del compositore Anthony Davis, che nel 1985 raccontava la vita e l’uccisione del leader afroamericano, morto vent’anni prima (opera ripresa recentemente al Metropolitan con un certo successo). A differenza degli altri titoli, però, non sembra che quest’opera su Steve Jobs tenti sperimentazioni musicali (come nel Nixon di Adams) o riesca a suscitare alti valori e dilemmi morali come nel Malcom X di Davis. L’opera in questione sembra invece ricalcare le biopics di molti imprenditori americani, come The founder (2016) dedicato al fondatore di MacDonald e The Social Network (2010) dedicata a Mark Zuckerberg: cioè la storia di uomini che per creare grandi imperi aziendali non hanno guardato in faccia a nessuno, umanizzati al massimo da qualche figura femminile di contorno.
Jacob Climer, ha firmato i costumi e le scene, queste ultime costituite da un fondale di schermi televisivi e un ledwall, sui quali le immagini in continuo cambiamento permettevano di ricreare i diversi ambienti richiesti dal libretto. Questa soluzione si è rivelata particolarmente efficace nella scena del lancio dell’iPhone, con l’iconica sequenza di diapositive dietro al protagonista. Di fronte a questo sfondo si stagliava un alto praticabile dove si spostavano i vari cantanti, istruiti con una certa efficacia dal regista Tomer Zvulun. Quest’ultimo ha risolto i continui cambi di scena con eleganza ed ogni situazione si è mostrata chiaramente identificabile nonostante i frequenti flashback e flashforward. L’orchestra era invece diretta da una precisa Lidiya Yankovskaya, in pieno controllo della concertazione tra buca e palcoscenico. Il coro della Washington National Opera era poi adeguatamente preparato da Steven Gathman.
Per la parte vocale, John Moore ha interpretato il ruolo del protagonista con pieno coinvolgimento e dimostrando una buona resistenza, dato che era praticamente sempre in scena. Una grande prova l’ha data il basso Wei Wu, che interpretava la parte di Kōbun Chino Otogawa, la guida spirituale buddista di Jobs, che nell’opera gli appare diverse volte anche dall’aldilà. Questo era forse il personaggio più originale dell’opera, e Wu lo ha interpretato con la giusta dose di ironia, profondità e sereno distacco (non per nulla è stato il creatore del ruolo e lo ha cantato in molte riprese dell’opera). Il ruolo di Steve Wozniak (il socio di Jobs) era interpretato da un efficace Jonathan Burton, che ha alternato simpatia (all’inizio), irato disprezzo verso il protagonista (nel mezzo) e commozione (alla fine).
La fidanzata di Jobs, Chrisann Brennan, era interpretata con freschezza da Kresley Figueroa, mentre il padre del protagonista era il valente Justin Burgess, che con Michelle Mariposa (nel ruolo dell'insegnante) e Winona Martin (nel ruolo della moglie di Jobs), fanno parte del programma per giovani cantanti della WNO. Winona Martin, però, nonostante avesse una presenza scenica molto più dominante dei suoi giovani colleghi, era anche l’unica ad avere la voce amplificata. Questa scelta ha creato delle differenze tra i piani sonori dei vari cantanti che mi hanno lasciato alquanto perplesso, anche perché a lei era affidato il finale ultimo, dove si rivolge al pubblico ed enuncia la “morale della favola”. Il ruolo muto di Jobs-bambino era interpretato dal giovinetto Stone Stensrud.
Il pubblico ha tributato un caloroso applauso finale a tutti, con la solita standing ovation, ma durante l’opera alcuni finali d’aria, in cui era evidentemente previsto un applauso, sono stati accolti con una certa freddezza.
Durante l’ascolto di quest’opera non nascondo di aver provato un certo fastidio per questo genere di spettacoli che ergono gli imprenditori ad eroi d’opera, capaci di raggiungere i propri obiettivi grazie al loro genio e nonostante i mille ostacoli posti nel loro cammino. Steve Jobs ha avuto un seguito quasi fanatico tra gli yuppies degli anni ‘10, che lo hanno preso a riferimento per il modo di approcciare la vita e il lavoro. L’idolatria per gli imprenditori si è poi spostata verso altri personaggi ancora più discutibili, e le conseguenze le stiamo sentendo tutti sulla nostra pelle.
La recensione si riferisce alla recita del 4 maggio 2025
Francesco Zanibellato