Poppea | Caitlin Wood |
Ottone | Daniel Moody |
Nerone | Aryssa Leigh Burrs |
Seneca | Peter Walker |
Ottavia | Maribeth Diggle |
Lucano/Familiare/Giove | Allan Palacios Chan |
Drusilla/Virtù | Dawna Rae-Warren |
Mercurio/Familiare/Nutrice | Rob McGinness |
Amore/Valletto | Elijah McCormack |
Damigella/Fortuna/Venere | Judy Yannini |
Arnalda/Familiare | Hunter Shaner |
Danzatori | Yasseen Hassan, Tenesha Hunter, Chitra Subramanian |
Regia | Timothy Nelson |
Coreografia | Hari Krishnan |
Compositori delle musiche aggiunte | Ami Dang and Rajna Swaminathan |
Costumi | Deb Sivigny |
Scene | Kathryn Kawecki |
Luci | Paul Callahan |
The INnovātiō Orchestra |
Negli Stati Uniti, accanto alle grandi istituzioni operistiche, esistono molte piccole realtà underground che puntano soprattutto a proporre spettacoli d’opera innovativi e sorprendenti. Così, mentre le grandi (e rare) “Opera House” sono sempre più in difficoltà nel mantenersi rilevanti per la buona società cittadina, queste compagnie indipendenti hanno coltivato un pubblico di appassionati con produzioni ad alto tasso di originalità. Ed è proprio questa originalità che le rende interessanti e attraenti nel panorama operistico americano sempre più appiattito artisticamente e finanziariamente in affanno.
In questa prospettiva, la compagnia In-Series di Washington DC ha proposto una produzione de L’incoronazione di Poppea di Monteverdi, ribattezzata per l’occasione semplicemente Poppea. Si tratta di un vero spettacolo underground, dato che è stato proposto all'interno del Dupont Underground, un tunnel costruito negli anni ‘40 del secolo scorso sotto una rotonda stradale per il passaggio dei tram. Il tunnel, largo quanto una strada a due corsie, ora è stato trasformato in uno spazio per l’arte e la musica e ospita diverse mostre contemporanee e concerti.
È stato molto emozionante assistere per la prima volta a uno spettacolo operistico sotto terra, in un tunnel dotato di un'acustica particolare con il palcoscenico disposto trasversalmente al centro della “via”, l’orchestra alle spalle e le quinte in fondo. In questo modo il suono dei cantanti e dell’orchestra veniva proiettato verso il pubblico, senza essere assorbito, ma anzi amplificato naturalmente, perdendosi in fondo al tunnel, con un leggero e affascinante effetto “eco” dietro agli spettatori (peccato che in quest’opera barocca mancasse proprio il topos della ninfa Eco che risponde al pianto).
L’opera era tradotta e cantata in inglese, come in tutti gli spettacoli di questa compagnia, il che va in controtendenza con la prassi ormai consolidata. Questo ha naturalmente compromesso il senso di molti madrigalismi e di alcuni versi che funzionavano solo in italiano (per esempio, c’è troppa differenza di accenti tra i versi “Io per me morir non vo’” rispetto a “I do not wish to die”). Va detto però che questa era una produzione volutamente distante dalla filologia e che, nonostante tutto, il testo ha funzionato lo stesso, complice il taglio di alcune scene.
L’atteggiamento diametralmente opposto alla filologia è confermato dagli inserimenti di musiche composte da Ami Dang e Rajna Swaminathan, compositori contemporanei dalle sonorità indiane. Questi interventi erano accompagnati da alcuni strumenti dell’Asia sud-orientale (tra cui il sitar) e da balli contemporanei coreografati da Hari Krishnan, vagamente imparentati con la danza indiana Bharatanatyam. In complesso, nonostante alcune suggestioni sonore, le incursioni di musica e danza del subcontinente indiano, accostate all'opera monteverdiana, davano l'impressione di provenire da mondi troppo distante dalle sonorità post-rinascimentali.
L’elemento indiano era anche rafforzato dalle scene e costumi, firmati da Deb Sivigny, Kathryn Kawecki e Paul Callahan. Gli ambienti del piccolo palco erano infatti decorati con stringhe di fiori di calendula (i Genda phool, dal grande significato sacro per la cultura indiana) e con i costumi ispirati alla tradizione dell’Asia meridionale. Il personaggio di Seneca, poi, era raffigurato come un santone indiano, mentre Nerone sembrava un principe orientale vestito con una regale tunica bianca. Questa ambientazione però non aggiungeva molto all’azione; anzi, cozzava con il libretto, che a questo punto avrebbe potuto essere modificato per una maggiore coerenza con l’allestimento (considerando anche il pesante impatto della traduzione inglese sul testo cantato).
La regia, firmata dal direttore artistico della compagnia Timothy Nelson, ha reso vivacemente la vicenda, usando tutto lo spazio a disposizione, inclusi i corridoi tra il pubblico. L’idea registica mi è sembrata quella di voler sottolineare la pazzia di Nerone, al punto da fargli uccidere Lucano e, soprattutto, Poppea, quest’ultima assassinata proprio sul finale ultimo, dopo il bellissimo duetto d’amore che chiude l’opera. In questo mi sembra che si sia passato il segno tra l’originale e “il troppo”, dato che questa scelta è avulsa dall’ambientazione indiana ed è in contraddizione con la premessa dell’opera, cioè che l’amore vince sulla virtù e sulla fortuna, concetto esposto chiaramente nel prologo e ulteriormente ribadito dallo sbeffeggiamento e uccisione del filosofo Seneca.
L’ensemble barocco composto da otto strumentisti ha accompagnato l’azione in modo sobrio, con un’orchestrazione dell’opera senza particolari innovazioni rispetto alla prassi esecutiva dell’Early Music.
I cantanti se la sono cavata, chi meglio chi peggio, con delle linee vocali dai melismi quasi completamente aboliti e con un’eleganza di fraseggio non più che accettabile per questo repertorio. Tra tutti ha sicuramente brillato l’Ottavia di Maribeth Diggle, che ha offerto un’interpretazione diametralmente opposta dallo stile degli specialisti barocchi: era infatti estremamente drammatica, con cenni quasi espressionistici, più vicini al teatro di parola che alla linea rinascimentale. Ma nonostante tutto, questa cantante ha lasciato il segno più di tutti, con una resa assolutamente efficace dell’imperatrice tradita e ripudiata. Ancora una volta si conferma che il carisma dell’artista vince su ogni “regola” tecnica.
Fresche e convincenti le voci di Aryssa Leigh Burrs come Nerone e di Caitlin Wood come Poppea, quest’ultima ha addirittura cantato a testa in giù mentre si trovava a letto con Nerone. Il controtenore Daniel Moody ha reso un Ottone in preda ai tormenti anche se con una voce più opaca rispetto ai suoi colleghi. Perfettamente a suo agio erano Rob McGinness (nelle multiple vesti di Mercurio/Familiare/Nutrice) ed Elijah McCormack, che ha portato una ventata di allegria nella parte di Amore e del valletto. Bene anche il contraltista Hunter Shaner come familiare/Arnalta (anche se forse era troppo giovanile per quest’ultima parte) e Allan Palacios Chan come Lucano/familiare/Giove. Completavano il nutrito cast anche la convincente prova di Dawna Rae-Warren come Drusilla/Virtù, e le interpretazioni un po’ forzate per questo repertorio di Judy Yannini come Damigella/Fortuna/Venere e Peter Walker come Seneca.
L’opera è stata vivacemente applaudita dal pubblico, al quale era stato chiesto (invano) di vestirsi in bianco per la festività indiana Holi (la festa dei colori). Va detto però che sembrava che Monteverdi si ribellasse agli interventi indiani, alla regia revisionista e alla lingua inglese, mantenendo inattaccabile tutta la freschezza e l’immaginazione di un mondo greco-romano classico, mitico, apollineo, esaltato dagli ultimi bagliori della musica rinascimentale e dalla nuova alba della musica barocca veneziana. Insomma, nonostante il tunnel a Washington, l’allestimento indiano, e i balli Bharatanatyam, l’opera trasudava ancora di laguna veneta.
La recensione si riferisce alla recita del 14 marzo
Francesco Zanibellato