Maria | Francesca Dotto |
Il pellegrino L'abate Zosimo |
Simone Alberghini |
Il marinaio Il lebbroso |
Vincenzo Costanzo |
Un compagno | Michele Galbiati |
Un altro compagno Il povero |
Luigi Morassi |
La cieca La voce dell'Angelo |
Ilaria Vanacore |
Una voce dal mare | William Corrò |
Danzatrice | Maria Novella Della Martira |
Concertatore e direttore | Manlio Benzi |
Regia, scene e costumi | Pier Luigi Pizzi |
Light designer | Fabio Barettin |
Maestro del coro | Alfonso Caiani |
Movimenti coreografici | Marco Berriel |
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice |
Ottorino Respighi fu figlio e nipote d’arte. Nacque a Bologna da famiglia originaria di Cortemaggiore, nel Piacentino, ed ebbe un’educazione musicale di tutto rispetto, culminata nei cinque mesi di studio con Rimskij-Korsakov durante una stagione per la quale era stato ingaggiato, poco piú che ventenne, come prima viola dal Teatro Mariinskij di Petroburgo. Seppe trarne ottimo profitto e la sua maestria d’orchestratore è divenuta proverbiale.
Forse è ancora oggi il piú eseguito compositore “colto” italiano successivo a Puccini; di certo lo è stato a lungo prima e dopo la scomparsa, avvenuta a soli cinquantasei anni nell’aprile 1936. La sua fama resta legata principalmente ai poemi sinfonici noti come Trilogia romana, dedicati a Fontane, Pini e Feste della città a cavallo tra Otto e Novecento, raccontata cosí bene dal D’Annunzio. Sin dal 1944, Massimo Mila osservò che il primo movente d’un certo disinteresse critico nei confronti del musicista bolognese era con buona probabilità la diffusa gelosia per il suo vasto successo. Interessato fin da giovane alla musica “antica”, Respighi fu il primo a trascrivere per l’uso contemporaneo il Lamento d’Arianna di Monteverdi. Brillante, mondano, poliglotta, ebbe rapporti d’amicizia con i piú disparati personaggi, dal famoso direttore Arthur Nikisch, che nel 1908 convinse a dirigere il suddetto Lamento, al proteiforme Anatolij Lunačarskij, conosciuto quando, nello stesso periodo, era venuto a Bologna per studiare modelli scolastici di supporto alla futura rivoluzione in Russia.
Cronologicamente, si può comprendere Respighi nella cosiddetta “generazione dell’Ottanta”, con riferimento all’anno del secolo decimonono intorno al quale nacquero anche Pizzetti, Malipiero e Casella. L’etichetta comune non deve nascondere, però, che i quattro furono ben diversi per origine, indole, studi, predilezioni, successo. Al teatro s’interessò sin dagli esordi, e già nel 1905 fu rappresentato il suo primo titolo, Re Enzo, sulla bella vita d’un figlio naturale di Federico II di Svevia catturato dai Bolognesi in battaglia, ma poi, a quanto sembra, prigioniero soprattutto delle loro mogli. Due riprese, venti anni fa al Comunale della città felsínea (qui la nostra recensione) e otto anni fa a Jesi (qui la nostra recensione).
L’ambizioso tentativo di grand opéra con Marie Victoire rimase ineseguito per novant’anni, ed ebbe la prima rappresentazione solo nel 2004 a Roma (qui la nostra recensione), dove qualche anno prima era ricomparsa anche La Fiamma, il lavoro teatrale piú noto e rappresentato di Respighi.
A partire da Belfagor, “commedia lirica” con il diavolo in gita tra di noi per documentarsi su fasti e nefasti del matrimonio, il letterato romano Claudio Guastalla gli forní i testi per cinque opere e un balletto, fino all’incompiuta Lucrezia. Tra la Campana sommersa del 1927, riesumata a Cagliari per il settantesimo anniversario della morte del musicista (qui la nostra recensione), e la Fiamma, del 1934, fu la volta di Maria Egiziaca, sottotitolata “Mistero” e sotto-sottotitolata “Trittico per concerto”. Non sarebbe propriamente un’opera, quindi, ma il libretto contiene precise indicazioni sceniche e alla prima esecuzione assoluta in forma d’oratorio, alla Carnegie Hall nel marzo del 1932, con l’autore sul podio, i cantanti comparvero abbigliati alla “neomedievale”. Pochi mesi dopo, il 10 settembre, il lavoro ricevette forma scenica al Teatro Goldoni di Venezia ed ebbe poi svariate riprese in Italia e all’estero.
Il libretto, diviso in tre “episodi”, deriva da un’antico racconto accolto tra Due e Trecento prima nella Legenda aurea di Jacopo da Varagine e poi, in lingua “volgare” da Domenico Cavalca nelle sue Vite dei santi Padri, citate come legame narrativo tra gli episodi. Il romanzo Thaïs d’Anatole France, pubblicato nel 1890 e ben presto fonte dell’omonima opera di Massenet, se ne può considerare una variante improntata alla moderna dialettica psicologica, quando la figura d’una santa detta Maria egiziaca era già ben insediata nella cultura europea, dalla pittura barocca a Goethe, e da questo a Schumann e in, séguito, a Mahler (sembra invece ormai acclarato che un celebre dipinto del Tintoretto non sia riferibile al medesimo personaggio)
Nel porto d’Alessandria, un inspiegabile impulso spinge Maria su una nave diretta in Palestina («Non so…. Ho udito una voce chiamare….»). La donna è una prostituta «giovane e bella molto e amorosa», piú portata a provocare e soddisfar desideri propri e altrui che abile nel guadagno («Avvampi, sol ch’io ti tocchi» esclama sicura di sé). Un Pellegrino cerca d’impedirne l’imbarco con vane parole rivolte ai marinai («La pecora marcia vi porta la scabbia!»), ma lei ottiene quel che vuole promettendo sé stessa durante la traversata. Un primo interludio orchestrale “racconta” il viaggio.
Giunti a destinazione, Maria vuole conoscere i «misteri» che si celebrano nel “Tempio”, ma l’ingresso le è impedito dal Pellegrino, che ora gliene dice anche di peggio e le volge le spalle per tornare alle sue devozioni. La donna lo schernisce, ma la potenza divina, che si mostra in un «Angelo raggiante», la induce a desiderare e chiedere il “perdono”. L’Angelo le indica, con dolcezza, un luogo di romitaggio ed espiazione. Un secondo interludio orchestrale “racconta” il lunghissimo tratto di vita trascorso dalla donna in dura solitudine, ma (ci assicura il Cavalca) ancora “tentata di cogitazioni carnali” per ben diciassett’anni.
Nell’ultimo episodio Maria si spegne, assistita “nel transito” da Zosimo, un “santo monaco” che, sebbene sia cantato dallo stesso interprete del minaccioso Pellegrino, non ne condivide la furia. Le voci giungono a intrecciarsi e un coro di lodi al Signore chiude la partitura.
Non mi è facile immaginare per quali ragioni e con quale intenzione il compositore sia stato attratto da una storia cosí “edificante”. Sia la Campana sommersa, sia la Fiamma, sia Lucrezia hanno infatti esito cupamente tragico, e anche in Belfagor il lieto fine richiede una sorta di deus ex machina che ne risolva l’incredibilità. I versi del Guastalla colpiscono per la tremenda e malintesa ricercatezza, che a volte sfocia nel grottesco, accostando pensieri spesso tra i piú pedestri con forme e parole ricercate come trarresson, sârrò, galloria, guidalesco, gaggio... Alberto Arbasino, “controrecensore” dopo la riesumazione romana dell’«orrenda Fiamma» a beffa degli sperticati elogi di Paolo Isotta, ricordò che della cattiva qualità dei libretti «la colpa è soprattutto dei compositori: perché, altrimenti, Illica funziona solo se messo al lavoro da Puccini, mentre con gli altri no?» (aggiungo che lo stesso si potrebbe dire su Piave e persino Da Ponte).
La vicenda e la parola scenica di Maria Egiziaca, cosí come predisposte dal libretto, sono poverissime e non lasciano spazio neppure a liquorose consolazioni come la celebre Méditation de Thaïs: nel primo episodio e nella prima metà del secondo, quando c’è un barlume d’azione, gli antagonisti sono manichini sospinti da una reciproca furia distruttrice. Le sane considerazioni dei marinai, unici personaggi convincenti insieme alla Maria gioiosa “peccatrice”, hanno un sapore di totale estraneità al mondo emotivo degli autori, e le figure d’una Cieca, d’un Lebbroso e d’un Povero non escono dal bozzettismo. Senza dubbio si può ritrovare, con il Franco Abbiati delle vecchie edizioni, il «sublime» nell’invocazione del perdono e anche nelle pagine conclusive dell’opera, ma esso non sembra in rapporto con quel che precede. Il giovanissimo Fedele d’Amico, recensendo l’esecuzione oratoriale romana successiva di quaranta giorni alla prima newyorkese, osservò che «un canto veramente plastico e incisivo non s’è mai ascoltato».
Ricordare questo non intende negare, né lo potrebbe, la straordinaria maestria compositiva di Respighi, la sua inesauribile fantasia timbrica, la varietà con la quale usa gli antichi modi ecclesiastici per rinnovare la tradizionale contrapposizione di “maggiore” e “minore” (detti un tempo “ionico” ed “eolico”). E neppure mi sfugge la soddisfazione che può dare ai musicisti lo studio e la realizzazione d’una partitura scritta cosí abilmente. Ma devo dire, forse a mio discredito, che nella musica di Maria non sono riuscito a cogliere alcun reale conflitto, alcuna evoluzione psicologica, e di conseguenza il suo personaggio appare come una sorta di Giano bifronte, senza rapporto tra le due facce. Emerge, nella grande scena che porta dalla sacrosanta invettiva contro il Pellegrino all’invocazione del perdono, un fuggevole inciso orchestrale che mi ha ricordato un passo del Requiem tedesco di Brahms, e questo, dopo e prima di un’abile e accattivante esibizione di virtuosismo vocale, sembra dover essere sufficiente per risolvere lo snodo della vicenda. Taccio della sgradevole figura del Pellegrino, meritevole, lui sí, di dannazione eterna già solo per la sua totale estraneità al concetto di pietà divina: parente prossimo (non parlo, sia chiaro, di caratterizzazione musicale, teatrale o poetica, ma solo d’ideologia) del Grande Inquisitore e di Ramfis, o del «pastor di Cosenza» di dantesca memoria. E mi sembrano perfettamente applicabili anche a Maria Egiziaca le parole di Zurletti dopo la Fiamma romana del 1997, quando rimarcò «lo scarto qualitativo tra testo e musica, tale da rendere impossibile l'unitarietà d'impianto»: già notato sessantacinque anni prima nell’Egiziaca dal fulminante “ragazzino all’Augusteo”, in una sequenza d’abilissimi distinguo molto rispettosi dell’ormai illustre maestro (un distinto saggio di Jacopo Pellegrini nel programma di sala percorre con documentata sensibilità la “fortuna” di questo titolo respighiano).
In un’intervista rilasciata al «Giornale della musica» durante la preparazione dello spettacolo per il Teatro Malibran, lo scenografo, costumista e regista Pier Luigi Pizzi (il nome piú illustre tra gl’interpreti in locandina, non per demerito altrui ma per luce propria) ha dichiarato d’avere avuto non poche perplessità quando gli fu proposto d’allestire il titolo, a causa proprio dei difetti del libretto. Solo ripetuti ascolti dell’opera (ne esistono in commercio due registrazioni, una dal Festival Respighi del 1980 ad Assisi, l’altra una decina d’anni dopo in istudio a Budapest, diretta dal benemerito Lamberto Gardelli) lo convinsero che l’impresa sarebbe stata possibile: «Ho cercato di alleggerire la scrittura da tanti vocaboli desueti, talvolta incomprensibili, rendendoli “parlabili”. Ho dovuto trovare delle risorse visive per rimpolpare la scheletrica drammaturgia … La musica protagonista assoluta, certamente coinvolgente, lascia larghi spazi all’immaginazione, per inventare azioni, che il libretto non suggerisce».
Gli autori richiedono cinque interpreti: i due Compagni (marinai giovani) sono affidati da Respighi alle stesse voci femminili che, negli episodi successivi, cantano rispettivamente la Cieca e l’Angelo (un soprano) e il Povero (un mezzosoprano). Continua Pizzi: «Su mia richiesta, col Maestro Benzi abbiamo un po’ aggiustato il cast. Per una irrinunciabile credibilità … nella forma scenica quei due ruoli saranno sostenuti da tenori, a rendere più logico il rapporto con Maria». E su questa osserva: «La sua prorompente fisicità ne ha fatto una prostituta, sui generis, perché talvolta non si faceva nemmeno pagare. Maria è una creatura innocente, mossa dal naturale bisogno di comunicare, di trasmettere la propria energia attraverso il sesso. Nel suo percorso esistenziale il suo incontro con la Croce, si risolve in un atto sessuale. C'è in lei una passione carica di erotismo, condizione che, appartiene ad altre sante, come Teresa d'Avila. Anche nel suo commiato dalla vita, abbandonandosi fra le braccia dell’eremita Zosimo c'è una forma di erotismo spirituale, nell’offerta del proprio corpo, consunto da quarant'anni di digiuni nel deserto». Fatti, mi sembra, plausibili da gran tempo, e ben noti a Gian Lorenzo Bernini, che nella chiesa romana di Santa Maria della Vittoria fece aggiungere sui lati della cappella Contarini, sede di una delle sue piú celebri sculture, due palchi dai quali i busti degli offerenti assistono, da perfetti voyeur, alla celebre estasi della santa.
Va detto subito chiaro e netto che Pizzi, al quale presumo si debbano anche i video, non “assegnati” in locandina, ha realizzato in modo indimenticabile il suo approccio al lavoro di Respighi. Il primo episodio e l’interludio che porta al secondo, con un fondale di mare in tempesta, sono stati risolti con una pregnante efficacia d’immagini e con una cura della gestualità e mimica facciale della protagonista che lasciano ammirati. Il teatro del grande ed espertissimo artista si rivela ancora, pochi mesi dopo la Poppea varata a Cremona e trionfante fino a Ravenna, una forma di perfetto equilibrio tra naturalezza e allusione. L’arte di svelare la consapevolezza con la quale una femmina sa esercitare il proprio fascino, di visualizzare la convergenza di fisicità e pensiero hanno trovato questa volta l’interprete ideale in Francesca Dotto, capace d’unire disinvoltura scenica e interpretazione musicale. Il soprano di Treviso domina con sicurezza la difficile parte, trascorrendo dal sarcasmo contro il Pellegrino allo smarrimento davanti all’ipotesi d’un «Iddio … più forte dell’Amore e della Morte».
Come ho già detto, dopo il primo episodio la vicenda drammatica si riduce al nulla e Pizzi risolve il problema di mantenere vivo, per quanto possibile, l’interesse dello spettatore rendendo ben visibile il nucleo della propria visione di quest'opera anche tramite una controfigura danzante alla quale dà vita la brava Maria Novella Della Martira: per la donna di piacere fuggire il mondo non significa negare la propria carnalità. La “conversione” è abilmente annunziata dal simbolo centrale del Cristianesimo, che Maria abbraccia e con il quale s’identifica, ma nel finale il moltiplicarsi di esso e l’affastellarsi delle sue immagini, quasi a sbarramento dello spazio, m’è sembrato voler ricordare anche il valore “politico” talvolta coercitivo che ha poi assunto nella storia dell’umanità. Durante il secondo interludio, visioni apocalittiche avevano spostato la parte “penitenziale” della vicenda al di fuori del tempo e dello spazio conosciuti. Il light designer Fabio Barettin ha saputo sottolineare i diversi tableaux creati dalla fantasia visuale del regista-scenografo-costumista conferendo a essi timbri cromatici molto efficaci e dando risalto con abilità e gusto alla silhouette di Maria liberatasi dalle vesti prima d'addentrarsi nel deserto alla ricerca d'una nuova identità nella solitudine.
Il Pellegrino antagonista e il Monaco consolatore sono stati cantati da Simone Alberghini, che ha consapevolmente orientato il proprio mezzo vocale alla differenziazione dei due ruoli, convincendo spesso anche nell’invettiva. Il Marinaio ha avuto la voce potente di Vincenzo Costanzo, poi molto ben controllata nelle poche, dolenti frasi del Lebbroso all’inizio del secondo episodio. Non si deve però nascondere che la monolitica stentoreità con la quale Respighi fa aprire l’opera al suo personaggio riesce persino fastidiosa al confronto della poetica e, questa sí, davvero misteriosa nostalgia di ben diverso canto del marinaio che apre una nota Handlung in drei Aufzügen: una coincidenza che Respighi avrebbe potuto vantaggiosamente evitare.
Le due voci tenorili alle quali Pizzi ha preferito fare affidare i due compagni del Marinaio in sostituzione del soprano e mezzosoprano della partitura sono state rispettivamente quelle correttissime di Michele Galbiati e Luigi Morassi. Quest’ultimo, di cui ricordo la splendida realizzazione di Lucano nella recente Poppea che ho detto, ha cantato poi anche il Povero. La Cieca e l’Angelo hanno avuto la voce di Ilaria Vanacore, ben differenziata nei due ruoli. William Corrò ha cantato la frase della Voce dal mare.
Nel secondo e terzo episodio, il Coro del Teatro La Fenice, preparato e diretto da Alfonso Caiani, è stato impegnato in brevi interventi fuori scena, comunque essenziali nel sostenere la scarna vicenda, dimostrandosi sempre impeccabile per intonazione ed espressione. Piú ampio il suo ruolo nel finale del mistero, quando ha cantato laudi dall’alto del teatro, come si conviene a un coro di Angeli. In buca, cinque legni, cinque ottoni e un clavicembalo completano l’orchestra al fianco degli archi in formazione ridotta. Spesso con gusto cameristico, gli strumentisti scelti per l’occasione hanno confermato l’ottima precisione, la flessibilità e il calore che distinguono ormai da anni l’Orchestra del Teatro La Fenice.
Ha diretto il maestro Manlio Benzi, a mio parere un artista per il quale la vastità e varietà del repertorio non indica eclettismo, ma vivace curiosità intellettuale. Ottimo nell’equilibrio di buca e palcoscenico, ha posto in grande risalto la ricchezza timbrica della partitura, da lui stesso definita “succulenta”, e ha saputo spesso supplire, non meno di Pier Luigi Pizzi, a quelle che mi riesce difficile non considerare debolezze intrinseche del lavoro di Respighi e Guastalla. È stato peraltro evidente che già dopo la fine del primo interludio, quello del’orgiastico viaggio per mare, e soprattutto esaurita la grande scena solistica della “conversione”, l’interesse di Maria Egiziaca rimane legato alla qualità dell’esecuzione musicale e dello spettacolo. Da un certo momento in poi, sono stato attratto quasi solo dalla bravura degl’interpreti. In questo senso sono uscito da teatro pensando tra me e me come sarebbe bello sentire il maestro Benzi dirigere Francesca Dotto in un Wozzeck portato sulla scena da Pier Luigi Pizzi.
La recensione si riferisce alla "prima" dell'8 marzo 2024
Vittorio Mascherpa