Testi a cura di | Massimo Cacciari |
Direttore | Marco Angius |
Live electronics | Centro di Sonologia Computazionale - DEI dell'Università di Padova, Alvise Vidolin, Nicola Bernardini, Luca Richelli |
Soprano | Livia Rado |
Soprano | Rosaria Angotti |
Contralto | Chiara Osella |
Contralto | Katarzyna Otczyk |
Tenore | Marco Rencinai |
Voci recitanti | Sofia Pzdianova, Jacopo Giacomoni |
Flauti | Roberto Fabbriciani |
Clarinetti | Roberta Gottardi |
Tuba, trombone Contralto, eufonio | Giancarlo Schiaffini |
Viola | Carlo Lazari |
Violoncello | Michele Marco Rossi |
Contrabbasso | Emiliano Amadori |
Secondo direttore | Filippo Perocco |
Maestro del coro | Cristiano Dell'Oste |
Allestimento | Antonello Pocetti, Antonino Viola |
Luci | Tommaso Zappon |
Coro del Friuli Venezia Giulia | |
OPV - Orchestra di Padova e del Veneto | |
Produzione La Biennale di Venezia in collaborazione con Fondazione Archivio Luigi Nono e TBA21 - Academy/Ocean Space |
Nei giorni in cui Luigi Nono avrebbe compiuto cent’anni, e il suo Prometeo quaranta, si torna a Venezia, alla Biennale, e più precisamente nella chiesa di San Lorenzo il cui spazio esatto fece nascere la necessità di quest’opera. Esatto perché la pianta della chiesa è pressoché quadrata e il volume cubico e, benché priva di anse e rientranze, o forse proprio per questo, il suono corre come materia. Il suono è lo scopo principale di questo lavoro, il contenitore e l’espressione della tragedia che prende l’avvio dal mito (Prometeo) cui si aggiungono frammenti che pongono quesiti cui tocca a noi cercare risposte, se saremo così coraggiosi da estrarle dalla materia sonora. Da cui il sottotitolo: tragedia dell’ascolto, un luogo in cui si taglia ogni altro ausilio alla comprensione che non siano il suono e il suo silenzio. Le parole, scelte da Massimo Cacciari, seguono un preciso progetto che avvicina al mito frammenti di altri. Scompaiono nella loro natura di pensiero scritto e detto e si ricompongono in una diversa intellegibilità demandata al suono e a chi ascolta.
Nel 1984 la chiesa di San Lorenzo, sconsacrata da tempo, fu attrezzata con un contenitore di legno progettato da Renzo Piano come chiglia di una barca che ospitava il pubblico sul fondo e, sulle fiancate, i musicisti collocati a diverse altezze. Questa struttura venne utilizzata prima a Venezia e poi a Milano, dove fu montata negli stabilimenti dell’Ansaldo. Ora non c’è più, o forse c’è ma è inamovibile, ed è stata sostituita da impalcature di tubi Dalmine disposti a cerchio con passerelle a vari livelli dal suolo per ospitare cantanti e strumentisti. Al centro una piattaforma per i live electronics, mentre il direttore occupa una pedana rialzata a circa tre metri così da offrire un punto di vista che copra tutto l’organico.
La chiesa è divisa in due da un magnifico altare che separava i fedeli dalle monache e che anche ora, come ai tempi di Renzo Piano, divide il pubblico in due metà, purtroppo impermeabili. Se Nono sentì la suggestione dello spazio e seppe sfruttarla al massimo, come ascoltatore ho avvertito l’assenza della sua interezza, con l’impressione costante di una mancanza. Avrei preferito restare in piedi e potermi muovere in silenzio seguendo un mio vagabondaggio, come del resto chiedeva il compositore, ma mi rendo conto che è una scelta impraticabile. O forse occorre spegnere l’impulso a controllare tutto ciò che accade e mettersi in relazione con il suono in sé uscendo dai canali sicuri del tempo e della sua divisione, o dal tentativo inutile di aggrapparsi alle parole. Serve un apprendistato da ascoltatore per entrare in un’opera letteralmente inaudita che chiede di abbandonare uno alla volta gli strumenti della consueta attenzione per cercare un ingresso, un contatto. Ad esempio la voce umana in una versione contemporanea dei cori battenti rinascimentali, o nel supremo Interludio Primo, seguito da Tre Voci a in cui lo spazio si riempie del suono del respiro, e poi di storie ignote, o che devono ancora avvenire. Infine non serve più riflettere, quando il sentimento soppianta la ragione.
Luigi Nono con Prometeo ci ha lasciato molto di più di un’opera. Nella sua partitura ci sono tratti del nostro futuro che possiamo comprendere solo con quarant’anni di più sulle spalle. Tra questi il ruolo della tecnologia e delle possibilità offerte della sua parte positiva che Nono non finì mai di indagare. Il senso dell’opera in sé, della sua fruizione, la fine dell’egemonia del demiurgo, il valore della ricerca continua.
A Venezia sono stati molti quelli che hanno collaborato all’esito eccezionale di questo avvenimento, una fila di musicisti in nero talmente lunga che ha impiegato qualche minuto a salire sui ponteggi. Alcuni c’erano anche quarant’anni fa, come il flautista Roberto Fabbriciani, gli ottoni di Giancarlo Schiaffini e Alvise Vidolin ai live electronics. Marco Angius non solo ha diretto con competenza l’Orchestra di Padova e del Veneto, ma ha fornito anche delle considerazioni di grande interesse sul volume edito dalla Biennale di Venezia, eccellente per contributi e documentazione. Cristiano Dell’Oste ha diretto il Coro del Friuli Venezia Giulia mettendo in rilievo lo spessore della voce umana, insieme ai solisti che citiamo: i soprani Livia Rado e Rosaria Angotti, i contralti Chiara Osella e Katarzyna Otczyk, il tenore Jacopo Giacomoni.
Alla fine molti applausi convinti, come si usa dire.
La recensione si riferisce alla rappresentazione del 28 gennaio 2024.
Daniela Goldoni