Manon Lescaut | Lana Kos |
Il Cavaliere Renato Des Grieux | Roberto Aronica |
Lescaut | Fernando Cisneros |
Geronte di Ravoir | Matteo Peirone |
Edmondo | Paolo Nevi |
Un musico | Magdalena Urbanowicz |
Il Lampionaio/Maestro di Ballo | Nicola Pamio |
L'oste | Giuseppe Esposito |
Direttore | Gianna Fratta |
Regia e luci | Guy Montavon |
Scene | Hank Irwin Kittel |
Costumi | Kristopher Kempf |
Direttore del coro | Paolo Longo |
Orchestra e Coro del Teatro Giuseppe Verdi di Trieste |
Dopo la sospensione per sciopero del vernissage, la pomeridiana di ieri è stata la prima occasione utile per ascoltare e vedere Manon Lescaut di Puccini, che ha aperto la stagione del Teatro Verdi di Trieste da cui mancava dal 2007.
C’era molta curiosità nell’aria perché da qualche tempo giravano voci su di una regia, nella migliore delle ipotesi, stravagante.
L’allestimento, proveniente da Montecarlo dove ottenne a suo tempo un successo clamoroso (con Anna Netrebko nei panni della protagonista), è il classico esempio di teatro di regia riuscito male proprio nella concezione drammaturgica.
Voglio dire che, piaccia o meno la trasposizione temporale, i caratteri dei personaggi sono perfettamente riconoscibili e coerenti con il libretto sino al terzo atto compreso, quando il regista Guy Montavon si inventa una specie di MacGuffin teatrale che trasforma a proprio uso e consumo Geronte – il personaggio più realistico e attuale dell’opera, ché di vecchi potentati che si attorniano di giovani ragazze la cronaca e la storia è piena – in un killer psicopatico. A scatenare la follia è il fatto che Des Grieux distrugge una sua presunta opera d’arte e cioè libera la povera Manon che nel secondo atto era stata trasformata in una specie di statua vivente, con un procedimento che richiamava qualcosa di perfidamente trasversale tra la Body art e il Body painting in salsa new age.
Per questo motivo, il santone Geronte trasforma la compagnia di strampalati che lo segue come una setta in una scombinata giuria popolare che decide di condannare a morte Manon, la quale non vedrà mai alcuna nave e tanto meno deserti ma solo una tetra prigione adiacente a una stanza dalla quale Des Grieux osserva impotente il suo martirio.
Ecco, tutta questa parte che ho descritto affannosamente è insensata perché non c’entra nulla col livre abominable di Prévost né, tantomeno, con la Manon Lescaut di Puccini.
Spiace sottolinearlo perché sino a quel momento regia e messinscena erano singolari ma tutt’altro che sgradevoli: scenografie sfarzose e ben realizzate, luci splendide, controscene curate e approfondite le interazioni tra i personaggi. Un’altra criticità dell’allestimento sono le due lunghe pause per i cambi scena che, unite all’intervallo, rendono la serata estenuante e, soprattutto, spezzano in modo irreparabile la tensione emotiva della narrazione teatrale e musicale. Il pubblico si distrae in queste circostanze e infatti a un certo punto una inviperita Gianna Fratta ha fulminato con lo sguardo un paio di signore in prima fila che non volevano saperne di farle cominciare l’Intermezzo.
Gianna Fratta, appunto, la quale ha dato un’interpretazione al calor bianco della partitura pucciniana, sottolineandone la sensualità e la crudezza che grondano da ogni nota. Non è, appunto, la Manon di Puccini un’opera da sdilinquimenti e smancerie – lo è la Manon di Massenet - bensì una storia di amore, lacrime e dolore. Emozioni violente che si sono espresse anche con qualche decibel di troppo, soprattutto negli interventi del Coro, peraltro in ottima forma. L’inizio del secondo atto, con quella atmosfera fintamente raffinata, in cui gli echi della musica settecentesca sono artatamente involgariti sino al pacchiano, mi è sembrato un momento di grande musica.
L’Orchestra del Verdi, che ha il sound pucciniano nel DNA, si è espressa al meglio e mi piace sottolineare la bellissima prestazione dei legni, senza ovviamente voler togliere nulla alle altre sezioni.
La compagnia di canto mi è parsa, nel complesso, modesta dal punto di vista vocale e ottima da quello attoriale. Unica eccezione Lana Kos, che di Manon Lescaut forse non ha il peso vocale in senso stretto, ma sopperisce con la tecnica alle parziali mende di volume. La voce è gradevole, ben proiettata negli acuti che passano la densa orchestra pucciniana e il fraseggio attento e partecipe che esalta quel canto di conversazione che è il marchio di fabbrica di Puccini. Inoltre l’interprete è accorata, vivace, attenta: la sua Manon è decisamente di buon livello e ha conquistato il pubblico triestino che l’ha premiata con un trionfo.
Roberto Aronica è stato un Des Grieux credibile scenicamente ma altalenante nel rendimento vocale, pur senza che ci siano inconvenienti particolari. Dopo un inizio piuttosto contratto, il tenore si è rinfrancato e nel lungo duetto del secondo atto si è espresso al meglio. È rimasta però una sensazione di incompiutezza, perché al suo cavaliere è mancata quella passionalità rovente che il personaggio pretenderebbe.
Viscido e opportunista al punto giusto il Lescaut di Fernando Cisneros, che vanta una voce di buon volume ma gestita in modo un po’ troppo grossier per quanto il personaggio non sia proprio un uomo da raffinatezze. Impeccabile, invece, la sua prestazione attoriale.
Matteo Peirone ha tratteggiato un Geronte in linea con le direttive della regia, ma spesso la voce non ha passato l’orchestra, almeno dalla mia posizione, circostanza che vale anche per il flebile Edmondo di Paolo Nevi. Brava Magdalena Urbanowicz nei panni del musico e di routine gli interventi di Nicola Pamio e Giuseppe Esposito che hanno contribuito alla tutto sommato buona riuscita della recita.
Il pubblico, numeroso, ha apprezzato con moderazione la serata, applaudendo tutta la compagnia artistica e riservando grandi applausi per Lana Kos e Gianna Fratta.
I responsabili della regia non si sono presentati al proscenio, probabilmente perché dopo lo sciopero la prima ufficiale, quella con i carabinieri, le autorità, l’inno e i critici seri è stata spostata a mercoledì 8 novembre.
La recensione si riferisce alla recita del 4 novembre 2023.
Paolo Bullo