Franz Joseph Haydn | Quartetto op.76 n.5 in re maggiore |
Béla Bartók | Quartetto n.4 in do maggiore sz.91 |
Ludwig van Beethoven | Quartetto op.59 n.1 in fa maggiore |
Quartetto Arod |
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Violino | Jordan Victoria |
Violino | Alexandre Vu |
Viola | Tanguy Parisot |
Violoncello | Samy Rachid |
Per caso o per fortuna, il programma della mia precedente serata alla Società dei concerti di Trieste era incentrato sui quartetti, e così è stato anche ieri sera.
Anche se i compositori erano diversi, credo che l’intento programmatico fosse sempre quello di indagare l’evoluzione stilistica del quartetto per archi nel corso dei secoli, con un excursus da Haydn a Bartók.
A interpretare le pagine musicali in questo caso è stato chiamato il Quartetto Arod, ensemble formatosi nel 2013, composto da giovani ma già vincitore di prestigiosi premi internazionali.
Già dall’attacco dell’Allegro iniziale si percepisce la temperie culturale del Settecento in tutto il suo splendore, confermata poi nei successivi movimenti e segnatamente nel fulmineo Menuetto che introduce un meditato Trio più riflessivo. È solo un’ombra, però, immediatamente spazzata dalla conclamata serenità del Finale del Quartetto op.76 n.5 in Re maggiore.
Il petricore frivolo, quasi arcadico, del primo brano è stato travolto già dall’attacco del famoso, e singolarissimo, Quartetto n.4 in do maggiore sz.91 di Béla Bartók. Siamo nel Novecento e si capisce subito dalla tensione innervata da una composizione che prosegue a strappi audaci, frammentaria e urticante, che non lascia quasi tempo alla riflessione. Nonostante sporadiche oasi di accennato lirismo, affidate al violino e al violoncello, la sensazione percepita è quella di essere uno straccio in una centrifuga, sballottati in un loop di contorsioni armoniche e cromie cangianti. Poi, dopo l’Allegretto pizzicato, sempre affascinante da ascoltare, è subito Stravinskij per vigore e quasi dolorosa intensità.
Qualsiasi composizione di Beethoven – nella fattispecie il primo Razumovsky - si riconosce per una caratteristica paradigmatica e cioè l’imponente architettura; che poi l’ispirazione sia russa o meno, cambia poco. È musica severa, di transizione tra Settecento e Ottocento, e anche se in questo caso affiorano qua e là tentazioni di un cerebrale umorismo la Sindrome di Stendhal è sempre in agguato dietro a ogni accordo.
Resta da dire del Quartetto Arod che forse, per temperamento e incisività, mi è sembrato più a proprio agio nel tormentato Bartók di quanto lo so sia stato in Beethoven e Haydn, ma nell’ambito di un’ottima prova complessiva. Sempre sorvegliato il controllo delle dinamiche, agogiche stringenti senza risultare arrembanti ed entusiasmo, tanto entusiasmo ed energia positiva che ha innescato un circuito virtuoso col buon pubblico presente alla serata che ha chiesto e ottenuto un “sognante” bis di Robert Schumann.
La recensione si riferisce al concerto del 10 febbraio 2020.
Paolo Bullo