Soprano | Irene Celle |
Mezzosoprano | Annalisa Stoppa |
Tenore | Stefano Colucci |
Basso | Massimo Dal Checco |
Direttore | Paolo Olmi |
Maestri dei cori | Bogdan Plish, Lorenzo Donati |
Young Misicians European Orchestra | |
LC Choir Kiev | |
Coro della Cattedrale di Siena “Guido Chigi Saracini” |
Non si parla mai a sufficienza della produzione rossiniana al di fuori dei confini operistici, quindi ogni occasione per affrontare l’argomento è più che benvenuta. Dopo il Guillaume Tell del 1829 la penna del pesarese non conobbe requie, semplicemente si spostò sugli orizzonti della musica da camera e della musica sacra, la prima rappresentata dai circa centocinquanta numeri dei Péchés de vieillesse, distribuiti fra pezzi per voce e per pianoforte solo, e la seconda dallo Stabat mater; esiste però una curiosa intersezione di questi due emisferi della (lunghissima) età della pensione di Gioachino Rossini ed è la Petite Messe Solennelle. Si tratta di una curiosa “messa da camera”, dove un coro di «cantori di tre sessi» – voci femminili, maschili e castrati – è accompagnato da due pianoforti e un harmonium; un lavoro pieno di quell’ironia tipicamente rossiniana in cui è difficile riconoscere il confine tra lo scherzo, la serietà e la malinconia: è il caso, ad esempio, dell’indicazione «Allegro cristiano» in capo al Credo o lo stesso ossimorico titolo di «piccola messa solenne». Il legame fra la Messe e i Péchés è senz’altro suggerito dall’allure cameristico dell’organico, ma è esplicitato da una nota del compositore stesso in cui definisce l’opera «ultimo dei miei Peccati di vecchiaia».
Quella proposta per l’odierno Concerto di Pasqua al Teatro Alighieri di Ravenna non è la versione originale del 1863 ma l’orchestrazione del 1867, precedente di appena un anno la morte di Rossini; fra le due, questa seconda è sicuramente la più seducente, quella di maggior impatto e che fa più presa sull’ascoltatore, tuttavia un organico tanto convenzionale la rende una delle tipiche grandi messe da concerto del secolo romantico, seppur di elevatissima fattura: la vera modernità del titolo è nella stesura originale, in cui ci si distanzia notevolmente da quella che poteva essere l’entità musicale di una composizione sacra (per non dire composizione tout court) nella seconda metà dell’Ottocento.
La bella direzione di Paolo Olmi non solo individua tempi ben adeguati al canto e alla nitidezza del risultato percettivo, ma si premura di salvaguardare quelle schegge di modernità rimaste nella partitura, ad esempio quell’hapax del "Christe" tra i due "Kyrie" e l’atteggiamento responsoriale nell’"Agnus Dei". Olmi è attentissimo anche nella gestione dei volumi, in particolare tra orchestra e solisti; si potevano forse far emergere un poco di più i legni, ma la gestione della grande formazione è avvenuta con grande intelligenza. A onor del vero, le due grandi fughe al termine del "Gloria" e del "Credo" necessitavano qualche tacca di metronomo in più, ma probabilmente è stata selezionata una velocità che garantisse la tenuta di due passi così lunghi e complessi; l’unica perplessità è costituita dalla scelta di eseguire nel "Cum Sancto Spiritu" uno stringendo piuttosto cospicuo non scritto che culmina nell’Animando un poco: non è una decisione particolarmente felice, perché brucia l’effetto quasi imprevedibile della stretta, preannunciandolo con molte battute d’anticipo.
La Young Misicians European Orchestra si segnala per il bel colore dell’insieme e per la tenuta generale, in particolare per quanto riguarda la sezione degli archi; d’accordo, c’è qualche raro scollamento nelle parti interne e nei pizzicati finali dell’"O salutaris hostia", ma di fronte a una pagina tanto imponente non è il caso di farne un dramma. Molto efficace il grande coro che vede congiunti gli sforzi dell’LC Choir Kiev e del Coro della Cattedrale di Siena “Guido Chigi Saracini”, rispettivamente preparati da Bogdan Plish e Lorenzo Donati: il maggior risultato è raggiunto nelle due fughe sopra ricordate, ma si segnala anche la bella riuscita dei momenti eminentemente mistici affidati al coro (il "Christe" e il "Sanctus"), la compattezza nel "Credo in unum Deum", la drammaticità nella conclusione dell’"Agnus Dei".
Quanto al quartetto dei solisti, nonostante le due parti femminili siano nettamente migliori di quelle maschili si osserva un bell’equilibrio delle quattro voci quando si trovano ad intervenire assieme e nei pertichini con il coro. Massimo Dal Checco ha una certa facilità nell’acuto, propone un fraseggio curato e passa molto bene l’orchestra, come si è sentito nel "Quoniuam tu solus sanctus", tuttavia nel registro centrale la voce è poco appoggiata e non risulta molto efficace. Anche l’interpretazione di Stefano Colucci, che come per il collega non è affatto negativa, avrebbe potuto essere più apprezzata se si fosse curata maggiormente la rotondità del suono.
Maiuscola la prova di Irene Celle: in un titolo che esige maturità vocale, Celle propone una cantabilità morbida caratterizzata da una spiccata musicalità, articolazione chiara e intonazione impeccabile, peraltro con un controllo dello strumento tutt’altro che comune. Felice l’esito delle due arie – il "Crucifixus" e soprattutto "O salutaris hostia" – e davvero pregevole il duetto con il mezzosoprano "Qui tollis peccata mundi", momenti in cui il soprano apre l’ampio ventaglio delle sue possibilità espressive caratterizzando con efficacia ogni frase, cesellando ogni accento, con un ossequio della partitura che non ha nulla di museale ma è quanto mai vivo nella sua interpretazione.
Annalisa Stroppa è a dir poco eccellente, riuscendo ad imporsi all’attenzione dello spettatore con una parte che fino all’ultimo numero non le concede vasti spazi solistici con parziale eccezione del duetto di cui sopra; la gestione intelligente del timbro caratteristico, l’intensità dell’intenzione sono più che sufficienti a richiamare l’attenzione a ogni ingresso, caratteristiche che trovano piena realizzazione nel brano conclusivo della Messe. Sull’"Agnus Dei" bisognerebbe fare un discorso a parte tale è la complessità intrinseca e dell’interpretazione richiesta (in questo senso, globalmente si poteva fare di più, ad esempio in orchestra rendere più doloroso il cromatismo del semitono la#-si/re#-mi, che altro non è che il passo della morte incombente), ma è in questo momento che Stroppa scocca le molte frecce al proprio arco in una spirale di pressione emotiva che inchioda lo spettatore alla sedia, riuscendo tra l’altro a rendere chiara la natura del movimento più drammatico della Messe, vale a dire non di preghiera collettiva ma di personale invocazione.
La recensione si riferisce al concerto del 24 marzo 2024.
Luca Fialdini