Erodiade la Figlia | Silvia Frigato |
Erodiade la Madre | Dorota Szczepańska |
San Giovanni Battista | Danilo Pastore |
Consigliero | Roberto Manuel Zangari |
Erode | Masashi Tomosugi |
Direttore | Andrea De Carlo |
Ensemble Mare Nostrum | |
Concertino | |
Violini | Margherita Populin Simone Pirri |
Viola da gamba | Marc de La Linde |
Arpa doppia | Chiara Granata |
Arciliuto Chitarra barocca |
Juan José Francione Castro |
Concerto grosso | |
Violini | Artem Dzeganowski Regina Patricia Yugovich Medina Karla Bocaz Munoz |
Viole | Francesca Venturi Ferriolo Elvira Nenova Giuditta Meldonesi Pierfrancesco Maria Pelà Chiara Sartorato Gianluca Genco |
Violoncello | Leonor Gonçalves Araújo Sá |
Contrabbasso | Amleto Matteucci |
Tiorba | Giulio Falzone |
Clavicembalo Organo |
Lucia Adelaide Di Nicola |
Per la Quaresima dell’anno giubilare 1675, periodo di chiusura dei teatri, la “Nazione Fiorentina” in Roma richiese ai più noti musicisti attivi nella città pontificia quattordici nuovi oratori d’argomento sacro. Artista fecondo e già affermato, Alessandro Stradella ebbe l'incarico di comporre quello sulla tragica fine di San Giovanni Battista. Per istigazione di Erodiade, cognata del re Erode e ora sua concubina, la giovane figlia di lei ottiene dal patrigno, invaghitosene, la testa dell’implacabile accusatore della madre. I Vangeli di Matteo e Marco narrano molto brevemente la vicenda senza dare un nome alla «figlia di Erodiade», e attribuiscono la sua forza di persuasione a una «danza». Alla fine del primo secolo della nostra era, lo storico Giuseppe Flavio la chiama Salóme e ne dà un ritratto ben diverso dal mito che si radicherà nella cultura europea.
Nell’oratorio su libretto di Ansaldo Ansaldi, le parti della Figlia e della Madre sono scritte in chiave di soprano; la partitura (non autografa) conservata nella Biblioteca Estense di Modena distingue bene i due ruoli pur usando lo stesso nome Erodiade per entrambe le donne. Il re è un basso d’ampia tessitura, dal Re1 al Fa3. Il ruolo del titolo, scritto in chiave di contralto dal Sol2 diesis al Re4, fu “creato” da Gian Francesco Grossi, allora ventiduenne ma già celebre come Sifàce per il successo avuto giovanissimo cantando l’omonimo personaggio nello Scipione Affricano di Francesco Cavalli, ripreso a Roma quattro anni prima in una versione rielaborata dallo stesso Stradella. Il destino tragico di morire per mano violenta accomunerà il compositore (nel 1682 a Genova) e il suo interprete (nel 1697 a Malalbergo, sulla strada tra Ferrara e Bologna). Questioni di puntiglio e di donne furono il movente certo dell’assassinio di Gian Francesco, probabile per Alessandro.
Cronaca nera a parte, l’oratorio San Giovanni Battista fu ripreso diverse volte entro la fine del Seicento e ancora oggi risulta essere il lavoro più celebre del suo autore, che a detta d’un collega contemporaneo, Giuseppe Ottavio Pitoni, lo considerava «la migliore opera da lui composta». Il carattere innovativo, la varia e incalzante compattezza drammatica e l’altissima qualità dell’invenzione ne hanno mantenuto viva la conoscenza attraverso i secoli: Händel ne possedeva una copia e un’altra si trovava nella biblioteca di Giambattista Martini, il “padre nobile” dell’opera classica e romantica (suo allievo diretto fu Mozart, allievi di suoi allievi furono Rossini, Donizetti e Wagner; pronipote d’un altro suo allievo fu Puccini). A ragione, il Pitoni descrisse i pezzi dell’oratorio come «assai singolari e per l’avanti non intesi, con molto artificio e contrapunto e vivezza di spirito». A metà del secolo scorso Francesco Siciliani ne organizzò una ripresa a Perugia, per la Sagra Musicale Umbra del 1949. La “revisione”, come si diceva a quel tempo, era di Giuseppe Píccioli; Gabriele Santini diresse una compagnia di canto in cui spiccano i nomi di Cesare Siepi e d’un giovane emergente soprano greco, destinato poi a fama planetaria; accanto a loro, cantò il ruolo epònimo Miriam Pirazzini.
Sebbene ricco, per l’epoca, d’indicazioni esecutive, il codice che tramanda il lavoro non indica in dettaglio gli strumenti, ma solo quando devono esserne usati pochi, chiamati “concertino” e quando (talvolta insieme al precedente) il gruppo piú numeroso detto “concerto grosso”, nel quale predominano le viole. Ove non siano richiesti né l’uno né l’altro, la parte strumentale deve evidentemente essere realizzata dal semplice “basso continuo”. Recensendo una delle non troppo rare ricomparse del San Giovanni Battista, Giorgio Vígolo scrisse in séguito che il lavoro di Piccioli aveva «destato unanime ammirazione»: solo parecchi decenni dopo s’aprirà anche per il San Giovanni Battistal’epoca delle esecuzioni “storicamente informate”.
Negli ultimi quattro anni della sua esistenza, Stradella visse a Genova, ancora la principale piazza finanziaria d’Europa. La sede operistica era il Teatro del Falcone, che secondo il modello veneziano accoglieva anche pubblico pagante. Il Nostro vi diede tre titoli, il più innovativo dei quali è Il Trespolo tutore, diretto con successo nell’autunno 2020 al Carlo Felice, da Andrea De Carlo, grande studioso d’Alessandro Stradella e “padre” del Festival Barocco a lui intitolato (FBAS) che si svolge annualmente nel Viterbese, zona d’origine della famiglia del compositore.
L’anno seguente De Carlo ritornò a Genova per il San Giovanni Battista, che da allora è diventato uno dei cardini del repertorio suo, dell’Ensemble Mare Nostrum e d’un gruppo affiatato e ideale di vocalisti (anche l’apertura del FBAS 2024 a Viterbo fu recensita da OperaClick). Nei giorni scorsi, l’oratorio di Stradella ha costituito uno degli appuntamenti piú significativi del ricco e multidisciplinare Ravenna Festival 2025. Il concerto a ha avuto sede nella Basilica di Sant’Apollinare in Classe, ornata nell’abside e nei pilastri dell’arco trionfale di mosaici tra i piú celebri. Il suo soffitto ligneo, senz’aggiunta di cupola, limita bene il tempo di riverbero e dal punto di vista acustico si può forse lamentare solo un senso di localizzazione delle fonti sonore, perlomeno da un posto sul davanti com’era il nostro.
Abbiamo accennato che il primo impegno di chi intende eseguire Il San Giovanni Battista, come molti altri lavori del Seicento, è quello di definirne lo strumentale. Questa volta il maestro De Carlo ha optato per un “concertino” costituito da due violini, una viola da gamba, un’arpa doppia (cioè con dodici corde per ottava), e, in alternanza, un arciliuto o una chitarra barocca; per il “concerto grosso” (dal quale esce, ove richiesto, il “continuo”) tre violini, sei viole, un violoncello, un contrabbasso, una tiorba e, in alternanza, un clavicembalo o un organo positivo.
La parte più ampia dell’oratorio è quella di Erodiade la Figlia, con un’estensione che raggiunge in acuto il Do5. Librettista e compositore creano una figura di conturbante sensualità, con parole e suoni che non ne celano né il legame di piaceri con il patrigno, che domina, né la rivalità sfuggente, senz’amore né desiderio, nei confronti del Battista. Interprete orma “storica” ne è Silvia Frigato, che sa dire anche agli occhi il desiderio della ragazza d’apparire ben piú adulta della sua presumibile età. Quattro anni dopo Genova, e una quindicina dopo il CD del Requiem di Mozart che ce ne rivelò le doti straordinarie, il mezzo vocale del soprano veneto s’è ulteriormente arricchito di colore; il suono, sempre non vibrato, è esemplare per intonazione.Lo scavo psicologico del personaggio s’è fatto piú profondo, il testo letterario è “detto” con grande pregnanza e l’ascolto ricrea l’effetto che le sue parole dovettero esercitare su Erode.
Il ruolo del titolo evita ogni tentazione di ieraticità con un tono intimistico e partecipe, sereno anche nello scatto dell’aria «Sóffin pur rabbiosi fremiti» con la quale il Battista corre consapevolmente incontro alla propria sorte. La cifra espressiva del personaggio sta in netto e affascinante contraltare sia alla cautela dei discepoli, sia all’altezzoso e lascivo comportamento della Corte d’Erode, sia ancora alla follia egocentrica dell’ambizione gelosa, per culminare nel duetto “Morirai, Morirai / Uccidetemi pur” con Erodiade “la Figlia”. A dicembre del 2021 il contraltista torinese Danilo Pastore entrò con soli due giorni di preavviso nel concerto di Genova e da allora è presenza fissa nelle “compagnie” di De Carlo. Il suo colore vocale, che ben s’addice in allegoria alla superiorità del suo personaggio, permane sempre ben distinto anche nei pezzi d’insieme e si coniuga con «una presenza scenica composta quanto magnetica» (F. Moschini per il “suo” Altoum del 2024). La spontaneità della linea di canto non è mai sacrificata al superamento delle difficoltà tecniche; la capacità espressiva di questo artista, padrone d’un legato di grande fascino, ci colpisce ogni volta di piú.
Riascoltare Masashi Tomosugi ci ha permesso di sciogliere completamente le riserve che avevamo espresso nel dicembre 2021. L’edonismo e l’ira, l’ambiguità e il timore di sé stesso che caratterizzano il personaggio creato da Stradella sono ora resi nel modo piú convincente, sempre senza rischio del querulo o del caricaturale, di certo estranei alle intenzioni degli autori. Il basso-baritono giapponese conferma quindi il grande progresso nel dominio dei modi del canto e della lingua italiana che avevamo notato con piacere nel lungo recitativo di Rodrigo verso la fine del Moro per amore ascoltato nell’agosto 2022 al Palazzo Farnese di Caprarola. L’emissione è pressoché sempre impeccabile; accattivante e introspettivo il gioco dei chiaroscuri.
«Volin pure lontano dal sen», la prima aria dopo il passaggio dalle «Amiche selve» dell'inizio, in cui s’era ritirato il Battista, alla Corte di Erode dove si svolge tutto il resto della vicenda, esprime in modo perfetto, con parole e musica, lo stato d’animo di Erodiade la Madre, “motore primo” del dramma, il suo percepire l’indebolirsi del legame con Erode, la sua non convinta illusione di poterlo restaurare. La bravissima Dorota Szczepańska, dotata d’un timbro ricco delle piú sottili risonanze, d’un garbo dolente del fraseggio, vi sa infondere, come e ancor piú dell’altra volta che la ascoltammo, un senso di smarrimento, una sottigliezza psicologica, che insieme alla presenza della partitura nella biblioteca bolognese di Padre Martini, ci portano a immaginare che abbia conosciuto questo San Giovanni Battista il “maestrino” quattordicenne che, sedici anni dopo, avrebbe cantato cosí mirabilmente «le grazie autunnali» della Contessa d’Almaviva. Anche a Ravenna, lo scorrevole “accompagnamento” (ma preferirei dire contrappunto) in terzine dai tipici e reiterati attacchi in levare è realizzato alla viola da gamba da Marc de La Linde: il bel suono e la convergenza di fraseggio con il soprano sottolineano come meglio non si potrebbe la sfaccettatura drammaturgica di cui fu maestro Stradella. Sempre molto efficaci, poi, gl’interventi della Szczepańska nei “cori”, recitativi e insieme che le competono, sino alle frasi subdole «Figlia, se un gran tesoro» che senza reticenze “passano il testimone” alla giovane e la convincono a chiedere la morte del Battista.
Le due arie di notevole bellezza melodica che spettano al “Consigliero” sono affidate a Roberto Manuel Zangari, già presente lo scorso anno a Viterbo. Il trentaduenne tenore calabrese le ha cantate con sbalorditiva sicurezza; il suo timbro un poco scuro ci è sembrato ideale per questo ruolo tutt’altro che “minore”. È l’unico interprete vocale della serata che non conoscevamo ancora e speriamo d’avere modo di riascoltarlo presto. La variegata formazione che Zangari può vantare anche come pianista e direttore di coro contribuisce senza dubbio alla sua forza di cantore.
Il grande merito degl’interpreti vocali non deve lasciare in secondo piano quello dei diciotto strumentisti, ma sarebbe meglio dire solisti, dell’Ensemble Mare Nostrum, capaci di sonare con una vivezza e una convergenza tali da lasciar credere a re-invenzione continua della musica. E Andrea De Carlo dimostra una volta di piú non solo le sue straordinarie doti e l’impegno di organizzatore, realizzatore e concertatore, ma una vera e propria forza medianica, il cosiddetto duende, il potere d’infondere unità, slancio e naturalezza agli artisti che stanno per realizzarne la volontà interpretativa. Il direttore entra con un sorriso allegro che infonde sicurezza a esecutori e ascoltatori; ma appena apre le braccia per preparare l’orchestra all’attacco il suo volto si fa tagliente. Per ottanta minuti il gesto ricorda e suscita quel che è stato il frutto d’una preparazione meticolosa, sagace, attentissima, e lascia gli ascoltatori senza fiato ed immobili sino al lungo, convinto, entusiasta applauso finale a ringraziamento d’un serata indimenticabile.
La recensione si riferisce al concerto del 4 giugno 2025.
Vittorio Mascherpa