Filippo Visconti | Quinn Kelsey |
Beatrice di Tenda | Tamara Wilson |
Agnese del Maino | Theresa Kronthaler |
Orombello | Pene Pati |
Anichino | Amitai Pati |
Rizzardo del Maino | Taesung Lee |
Direttore | Mark Wigglesworth |
Regia | Peter Sellars |
Scene | George Tsypin |
Costumi | Camille Assaf |
Luci | James F. Ingalls |
Drammaturgia | Antonio Cuenca Ruiz |
Maestra del Coro | Ching-Lien Wu |
Orchestre et Chœurs de l'Opéra national de Paris |
La penultima opera del catalogo di Vincenzo Bellini manifesta più di un debito nei confronti dell’Anna Bolena di Gaetano Donizetti. Tra i più evidenti, l’aver avuto Giuditta Pasta come creatrice di entrambi i ruoli protagonistici, e il riutilizzo da parte di Felice Romani dello stesso topos letterario: il volubile sovrano che liquida la scomoda consorte con il suo presunto amante per sposare la nuova favorita. Tutto ciò evidenzia la volontà del catanese di contendere al “rivale” bergamasco il successo come compositore di drammi storici, sebbene i caratteri appena abbozzati dei personaggi di Beatrice di Tenda non abbiano la stessa profondità psicologica di quelli del primo capolavoro della maturità donizettiana.
Il debutto veneziano dell’opera fu infatti salutato da un successo molto tiepido ma l’opera conobbe una discreta diffusione e un’apprezzabile fama (pare che Chopin avesse voluto ascoltare “Ah se un’urna è a me concessa” sul letto di morte), tant’è che nel Novecento il ruolo principale fu cantato da interpreti del calibro di Joan Sutherland, Leyla Gencer, Mirella Freni, Lucia Aliberti, Edita Gruberova e Mariella Devia, nonostante non sia mai entrata stabilmente nel repertorio. Recentemente si è risvegliato un certo interesse nei suoi confronti, come segnalato dalle due produzioni in forma di concerto a Martina Franca e Napoli, nonché dall’imminente coproduzione tra Genova e Venezia.
Beatrice di Tenda, che debutta all'Opéra Bastille, è inoltre il primo approccio del regista statunitense Peter Sellars con un titolo del belcanto, e questa poca familiarità con il linguaggio musicale del primo ottocento italiano si è rivelata purtroppo la zavorra che ha affossato l'esito dello spettacolo.
Anche se esteticamente parlando l'allestimento presenta scene e abiti contemporanei (firmati rispettivamente da Georges Tsypin e Camille Assaf), la sua non riuscita non va attribuita a questa "attualizzazione": l'idea di fondo di un ambiente di corte opprimente con telecamere e monitor di controllo per quanto potenzialmente convincente è stata appena abbozzata e abbandonata a favore di tinte grandguignolesche che, specie nel secondo atto, volevano denunciare i reati di tortura che tuttora vengono impiegati da alcuni regimi. Non è neanche la crudeltà di queste immagini, come Orombello e Beatrice che esibiscono ferite aperte e persino mutilazioni (entrambi vengono accecati durante il loro interrogatorio), a cozzare con il tessuto musicale belliniano, quanto piuttosto la richiesta espressamente registica di acuire la sensazione di dolore fisico con lamenti e colpi di tosse troppo "veristi" per l'opera. Eccezion fatta per queste minime ma invasive caratterizzazioni, le interazioni coi solisti si rivelano convenzionali, poco in sintonia con le coordinate "orwelliane" dell'allestimento, acuito dal cangiante disegno luci di James F. Ingalls.
Totalmente ascrivibile alla regia è inoltre l'arbitraria eliminazione della presenza del coro nel finale secondo, motivata non solo da motivi drammaturgici ma anche pratici (l'intervento corale durante l'aria di Filippo veniva cantato in mezzo al pubblico, e raggiungere il palcoscenico in un breve lasso di tempo non era evidentemente possibile). Si tratta però di un concorso di colpa, visto che l'idea di tagliare una parte essenziale dell'equilibrio della partitura è stata comunque approvata ed eseguita dal direttore Mark Wigglesworth, autore di una lettura musicale grigia e avara di sfumature che non fossero i fortissimi. Uniforme la resa dell'Orchestra dell'Opéra national de Paris, mentre si rivela maiuscola quella del Coro preparato da Ching-Lien Wu, che brilla per compattezza e pulizia dei suoni.
Nel ruolo del titolo, Tamara Wilson sconta con una certa asprezza nelle zone di passaggio la frequentazione di ruoli più spinti (nello stesso teatro ha già cantato Turandot), ma il soprano americano si rivela comunque un'interprete credibile e tutt'altro che fuori repertorio grazie a un attento controllo sui fiati e sull'imponente volume della voce, che sgrana acuti incisivi con facilità
Prova positiva anche per Pene Pati nell'ingrato ruolo di Orombello, cesellato con un fraseggio sensibile e appassionato e una bella proiezione dei suoni perfettamente udibili anche fuori scena (l'interno della preghiera "Angiol di pace all'anima" scatena gli applausi del pubblico), nonostante una dizione perfettibile.
Anche il Filippo di Quinn Kelsey dimostra poca padronanza con la pronuncia italiana, oltre a rivelarsi un villain piuttosto monocorde e un po' ingolato, pur dotato di uno strumento vocale sonoro e rotondo.
Dopo un promettente esordio nella romanza "Ah non pensar che pieno", l'Agnese di Theresa Kronthaler esibisce un volume flebile e viene coperta più volte dalle masse orchestrali e corali.
Completano il cast Amitai Pati (Anichino) e Taesung Lee (Rizzardo).
Bastille gremita e prodiga di applausi ai saluti finali, con particolare affetto e calore verso la compagnia vocale, primadonna in primis. Consensi più tiepidi verso il direttore, mentre il team creativo non è uscito alla ribalta per un'assenza in teatro del regista, cui andavano probabilmente indirizzate le brevi ma udibili contestazioni alla chiusura del sipario dopo la morte di Beatrice, giustiziata da un plotone d'esecuzione.
La recensione si riferisce alla recita di venerdì 9 febbraio 2024.
Martino Pinali