Tosca | Chiara Isotton |
Mario Cavaradossi | Francesco Meli |
Scarpia | Luca Salsi |
Angelotti | Huan Hong Li |
Sagrestano | Marco Filippo Romano |
Spoletta | Carlo Bosi |
Sciarrone | Costantino Finucci |
Carceriere | Xhieldo Hyseni |
Un pastore | Anastasia Fazio |
Direttore | Michele Gamba |
Regia | Davide Livermore |
ripresa da | Alessandra Premoli |
Scene | Giò Forma |
Costumi | Gianluca Falaschi |
Luci | Antonio Castro |
Video | D-Wok |
Coreografie | Daniel Erzalow |
Maestro del Coro | Alberto Malazzi |
Maestro del Coro di Voci Bianche | Marco De Gasperi |
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala | |
Coro di Voci Bianche dell'Accademia del Teatro alla Scala | |
Produzione del Teatro alla Scala |
Torna alla Scala la Tosca kolossal di Davide Livermore che aveva aperto la stagione 2019-2020, con la ripresa della regia a cura di Alessandra Premoli. Come ama ormai fare in tante sue messe in scena, il regista ci apparecchia un “film” ricco di ogni minimo particolare, coadiuvato nella scenografia dallo studio multidisciplinare di designer Giò Forma, nei costumi da Gianluca Falaschi (quello di Tosca non proprio felice), dalle luci di Antonio Castro, dal video creato dall’immancabile società di design D-Wok e dalle coreografie di Daniel Erzalow. Una regia più illustrativa e meno efficace nelle dinamiche attoriali, almeno per il primo e terzo atto.
Nel primo atto, Angelotti si palesa su un tapis roulant e apre le porte della chiesa di Sant’Andrea della Valle. La cappella Attavanti, scorrazza per il palcoscenico in perenne movimento, ha una ricca cancellata e un’enorme statua. La scena si divide in due piani (Angelotti scompare da una botola e riappare dalla cappella). Una impalcatura con scale porta al dipinto della Maddalena che scende dall’alto, all’inizio in bianco e nero poi il video lo colora. Nel frattempo, si assiste ad un via vai di suorine tra una miriade di candele. Tosca è gelosa, ovviamente, giovanile, timorata di Dio ma assai maliziosa. Cavaradossi è vestito di tutto punto. Quinte e un quadro della Madonna, a cui Tosca mostra una certa devozione, in un frastornante sali-scendi. Entra Scarpia dalla porta centrale della chiesa accompagnato da una luce accecante. Ha un soprabito di pelle nera macchiato di sangue come i suoi sgherri, che minacciano con le armi un terrorizzato sagrestano. Al Te Deum, un ostensorio-altare gigantesco con croce a raggiera dorata su pedana girevole, incappucciati delle varie confraternite, frati, monsignori in rosso, dispiegamento di altri prelati in vesti dorate con armigeri dotati di intimidatorie alabarde.
Nel secondo atto, il palazzo Farnese. Finestrone con tende, balconata, una statua di leone in atto di azzannare la preda, un canapè, un tavolone apparecchiato, un’arpa e candelabri. Nel piano sottostante la stanza delle torture, da cui emerge un Cavaradossi insanguinato. Scarpia a caccia di Tosca come un felino che ha fiutato la preda, rovescia il canapè, assale Tosca e tenta di stuprarla. Tosca uccide Scarpia pugnalandolo più volte e strozzandolo(?). “Doppio” di Tosca in atto di pugnalare(?) il cadavere di Scarpia mentre la musica si spegne in un soffio luttuoso. Terzo atto, piattaforma girevole di castel Sant’Angelo con un’enorme ala che copre come un sudario cupo il carcere e il video che lascia scorrere un cielo plumbeo. Cavaradossi dubbioso sui progetti di libertà, tenerezze di Tosca che cangiano poi nel raccapriccio, nel ricordare l’uccisione di Scarpia. Il “Doppio” di Tosca vola giù dagli spalti in un’immagine suggestiva al rallenty. Quindi, una straordinaria dinamicità della macchina scenica, proprio come al cinema, col ché sembra di essere nello stesso momento in luoghi diversi ma anche un po’ distraente.
Convince la concertazione di Michele Gamba, da un lato vibrante, incisiva e tragica, caricata da laceranti tensioni espressive premonitrici dell’espressionismo (il tema di Scarpia, che introduce un clima di inquietudine e sin di terrore), dall’altro ricca di screziature voluttuose e sensuali e indugi appropriati (il tema dell’amore, visto come un bene rifugio dalle tensioni di una vita opprimente e come un anelito di libertà, nonché le due arie di Cavaradossi, quest’ultime illustrate da tratti malinconici o nostalgici e appassionati). Bene l’accompagnamento al canto: tenero e languido per il duetto Tosca-Mario del primo atto; insinuante, salottiero (come la gavotta) e ricattatorio, che fa il ritratto privato di Scarpia, ma anche tracotante e protervo nella sua incontrollata e perfida malignità nel secondo atto. Solenne, sontuoso e sacrale ma con un cromatismo cupo e minaccioso suona il “Te Deum”, senza eccessivi clangori. Lo scontro Tosca-Scarpia raggiunge il giusto climax tra suoni dissonanti e sgraziati a descrivere il demoniaco barone e l’angoscia e la disperazione della diva. Il “Vissi d’arte” si ritaglia un’oasi di doloroso lamento-preghiera che decanta verso uno sfinimento fisico e psicologico. Suono rarefatto per la pantomima del finale secondo, in cui si percepisce con una rimarcata lentezza un sincero struggente compianto. Gamba illustra l’alba romana come una pittura d’ambiente: chiara, delicata e trasparente oltreché dolcissima, in fin dei conti Roma se ne infischia delle tragedie dei due innamorati. Finale di intensa drammaticità, con stringatezza ritmica e asciuttezza timbrica ben calibrate.
Il coro diretto magistralmente da Alberto Malazzi è impressionante per volume e precisione nel "Te Deum" col contributo del coro di voci bianche diretto da Marco De Gasperi.
Chiara Isotton è una Tosca dal timbro brunito, dall’emissione ferma e dal volume significativo. La dizione le consente di lavorare discretamente su colori e fraseggio. Così appare un personaggio geloso, certamente, ma soprattutto con la malizia e la sensualità della diva che recita alla perfezione anche il ruolo dell’innamorata, vedi i duetti con Mario. Nelle puntature agli acuti (ad esempio: i Si bemolle nel “Non la sospiri la nostra casetta” o il Do di “io quella lama gli piantai nel cor”) appaiono un po’ tanto spigolosi. Nel tragico duetto con Scarpia, evidenzia l’ansia e lo stupore di chi si trova d’innanzi ad una situazione imprevista. In “Vissi d’arte” sfoggia attacchi vibranti, fiati lunghi con filati espressivi e legato ben registrato, il Si bemolle acuto di “Signore” ha la lucentezza giusta, dispiegando con fantasia una vasta gamma di sentimenti: affranta, angosciata, avvilita e supplice. Pure, da consumata artista anche un po’ troppo sognante ed ingenua trova la giusta carica di furore omicida e poi la fulminea volontà di suicidio.
Francesco Meli torna a vestire i panni di Mario Cavaradossi, doppiando il successo già ottenuto nella precedente edizione che aveva aperto la stagione scaligera del 2019-2020. Il timbro chiaro e il legato da manuale, con un’emissione che regola bene ogni intensità di accento e di dinamiche, risultano appropriati per il ruolo pucciniano. Gli estremi acuti però sono privi di lucentezza, come i Si bemolle in “Recondita Armonia” o nel primo duetto con Tosca, il La diesis di “Vittoria” o il Si naturale di “La vita mi costasse”. Ma descrive il personaggio con spontanea affettuosità, con il languore sognante del vero innamorato (primo duetto con Tosca e molto bene nelle mezze voci di “E lucevan le stelle” e in “O dolci mani mansuete e pure”.
Luca Salsi conferma di essere uno Scarpia ben collaudato. Timbro pastoso e brunito, volume significativo con emissione omogenea, che resta tale anche nelle proiezioni all’acuto, i molti Fa nel “Va Tosca” o il Sol bemolle in “Mia”. Il canto è energico e imperioso ma si piega discretamente ai numerosi chiaroscuri, con un buon legato, mezze voci risonanti ed opportune sottigliezze, che fanno emergere il personaggio in tutta la sua complessità. Autoritario capo della polizia pontificia, protervo nella misura in cui vede tutti dei sottoposti da manovrare come pedine alla bisogna, come nell’ingresso molto scenografico al primo atto. Mellifluo e luciferino nel primo duetto con Tosca ma lascivo pure in chiesa dove abbozza un primo tentativo di corteggiamento. Aristocratico ma spietato nell’interrogatorio con Cavaradossi e libidinoso nella spasmodica ricerca del piacere sessuale, imposto col ricatto.
Lo Spoletta di Carlo Bosi è da far ascoltare in tutte le Accademie di canto. Voce chiara e canto di grande musicalità, priva di nasalità sconvenienti.
Bene Marco Filippo Romano nel ruolo del buffo Sagrestano: leggero, saltellante e brillante come il tema proprio lo disegna. L’Angelotti di Huan Hong Li ha voce scura e dizione un po’ grossolana nel disegnare l’atterrito console della repubblica romana. Corretti lo Sciarrone di Costantino Finucci e il carceriere Xhieldo Hysani. Aggraziata la voce di Anastasia Fazio per la canzone popolaresca in dialetto del pastore dell’inizio del terzo atto.
Successo finale per tutti i protagonisti, con applausi più intensi per Meli, Salsi e il direttore Gamba.Ad onor di cronaca si segnala il lungo prolungamento dell’intervallo tra il primo e il secondo atto dovuto ad un guasto elettrico alla macchina scenica.
La recensione si riferisce alla prima del 15 marzo 2025.
Ugo Malasoma