Direttore | Riccardo Chailly |
Orchestra Filarmonica della Scala | |
Programma | |
Ludwig van Beethoven | Sinfonia n. 1 in do maggiore |
Gustav Mahler | Sinfonia n. 1 in re maggiore |
Presentare nel medesimo programma le Sinfonie n. 1 di Beethoven e Mahler può sembrare un gesto scontato, per non dire pigro. Tuttavia non è mai pigrizia tracciare – anche per un breve tratto – un percorso di vite parallele, specialmente nel caso di due percorsi tanto differenti, basti pensare alle date di composizione: 1799-1800 per Beethoven (ma il “lavoro preparatorio” è assai più risalente, dato che gli abbozzi tematici dell’ultimo movimento si collocano nel biennio 1794-1795) e 1888-1894 per Mahler, e anche qui i primi germi precedono di almeno tre anni quest’arco temporale.
Pochi nomi come quelli di Ludwig van Beethoven e Gustav Mahler sono nel nostro immaginario sinonimo di «Sinfonia», con la stessa facilità con cui – e a ragione – li consideriamo riformatori e innovatori; l’avere modo di ascoltare, ravvicinate, le prime prove in questo campo dei due grandi sinfonisti consente ancora una volta di scoprire l’acqua calda e cioè nulla nasce dal nulla e l’opera di riforma e innovazione non può che nascere da una determinata temperie culturale, da una stratificazione pregressa di scuole e stili già consolidati.
Di questo la Sinfonia n. 1 in do maggiore di Beethoven è un ottimo esempio: alle nostre orecchie giunge sicuramente depotenziata, complice la nostra familiarità con le grandi sinfonie mozartiane (assai più di dominio pubblico oggi che non 220 anni fa), ma questo è un ottimo passe-partout per cogliere l’intima prossimità di questo lavoro con i prodotti della generazione immediatamente precedente di compositori; la direzione di Riccardo Chailly è molto attenta nel cogliere le assonanze con il sinfonismo di Haydn e del salisburghese più amato: molto in stile e raffinata la chiusura gentile delle cadenze in forte, quasi à la manière de Mozart, spicca la predilezione per sonorità più contenute (ma i fiati meriterebbero più voce) e nel fraseggio si tiene conto cum grano salis della prassi esecutiva del tardo classicismo. Ma nel gesto di Chailly non c’è solo la consapevolezza degli antecedenti, c’è anche un focus importante sulle peculiarità beethoveniane emergenti: una su tutte il dualismo motivico antagonistico, presente ora tra le due grandi sezioni dell’orchestra – archi e fiati – ora all’interno delle singole sezioni. Al netto delle buone idee, l’esecuzione non è tra le più memorabili della Filarmonica della Scala; beninteso nulla di particolare, ma i piccoli scollamenti o le entrate lievemente sfalsate anche se non inficiano realmente la resa sono per lo meno fastidiosi. Più importante il fatto che talvolta le voci interne non abbiano il giusto risalto (valga come esempio la cellula di quattro semiminime del primo movimento, mai abbastanza valorizzata), così come suscita alcune perplessità la scelta di una lettura che ricerca una grande cantabilità nella scrittura beethoveniana, a volte effettivamente presente e a volte no, che in qualche modo rende meno brillante, meno nervosa una scrittura che talvolta necessita di esserlo. Realizzazione di certo notevole, ma non delle più memorabili.
Discorso assai diverso per la Sinfonia n. 1 in re maggiore di Gustav Mahler. I giochi di parole sono per autori pigri, ma in questo caso Chailly è stato assolutamente titanico: sostenuto da un’orchestra notevolmente più solida di quanto udito prima dell’intervallo, il direttore musicale della Scala si produce in una lettura di altissimo spessore. La grazia con cui sostiene i delicatissimi equilibri con cui il compositore ha intessuto la sua prima Sinfonia è magistrale; c’è l’oro patinato della Belle Époque, ci sono gli scoppi improvvisi della banda, ci sono la nostalgia e l’affermazione vigorosa della volontà, l’ironia cupa e il misticismo. Ma l’aspetto che rende questa esecuzione degna di nota è la capacità che hanno Chailly e Filarmonica di imprimere a ogni singola nota il peso di una completa interiorizzazione, grazie a cui si riesce a rendere ancor più evidenti i rapporti tra ogni movimento e soprattutto del primo con il quarto; molto gustosa anche la capacità di porre il giusto accento sull’oscura citazione del Concerto per pianoforte e orchestra n. 2 di Johannes Brahms.
Dalla nebulosa primordiale dell’incipit Chailly riesce a trarre con grande naturalezza (anche nel senso di rimando al mondo naturale) l’impressione di una primavera veramente senza fine. Le apparizioni dei temi da "Lieder eines fahrenden Gesellen" sono trattate come una preziosità, gestite con eleganza e innato lirismo, in particolare quel tratto esteso che compare nel terzo movimento, una visione diafana e delicatissima intrisa del miglior spirito poetico tedesco. Ma c’è anche violenza, oscurità, fuoco, che il direttore evoca in modo esemplare, con una vividezza non comune anche tra le bacchette di alto lignaggio. Riccardo Chailly ha saputo celebrare con vitalità straordinaria la magia di Mahler, un incantamento da cui è bello lasciarsi vincere.
I molti, entusiasti applausi che hanno accolto le rentrée del direttore rappresentano il giusto coronamento per uno dei migliori concerti della stagione.
La recensione si riferisce al concerto del 17 gennaio 2022.
Luca Fialdini