Siegfried | Klaus Florian Vogt |
Mime | Wolfgang Ablinger-Sperrhacke |
Der Wanderer/Wotan | Michael Volle |
Alberich | Ólafur Sigurdarson |
Fafner | Ain Anger |
Erda | Christa Mayer |
Brünnhilde | Camilla Nylund |
Stimme des Waldvogels | Francesca Aspromonte |
Direttrice | Simone Young |
Regia | David McVicar |
Scene | Dsvid McVicar e Hannah Postlethwaite |
Costumi | Emma Kingsbury |
Luci | David Finn |
Video e proiezioni | Katy Tucker |
Maestro arti marziali/Prestazioni circensi | David Greeves |
Orchestra del Teatro alla Scala | |
Nuova produzione del Teatro alla Scala |
Il Siegfried è una “fiaba a sé” ma in continuità ed unitarietà col “realismo magico” che l’ha preceduto nel prologo e nella prima giornata del Ring. È lo “scherzo” della Tetralogia. È il ritratto di un uomo con le sue caratteristiche fisiche e liriche, dinamiche ed espressive. Un eroe romantico, tutto istinto, insofferente ad ogni autorità, non conosce il peccato e quindi incolpevole, non sa nulla di patti né ha dubbi esistenziali ed ignora la paura. Di vittoria in vittoria procede dalla incoscienza alla consapevolezza, scoprendo la paura ma soprattutto l’amore e la felicità. La vicenda è un’ascesa colma di ottimismo e di gioia di vivere, un percorso iniziatico alla scoperta della verità e della identità. Rappresenta in sostanza la giovinezza e il momento glorioso dell’illusione, esattamente come nelle fiabe.
Siegfried, dunque, è l’essere umano perfetto? Un po’ noioso? O addirittura uno stupidone? Per Carl Dahlhaus: “La fiaba di Siegfried è un’isola felice che finisce per inabissarsi nel gorgo del mito”, illustrata da forme musicali come il Lied e il rondò. Per Quirino Principe: “Il sangue nel Siegfried ha una funzione primaria” e insieme all’acqua, al fuoco, all’oro e alla roccia sono propriamente archetipi della fiaba, in cui irrompe pure il comico (Mime) seppure cupo e maligno e dove il “mormorio della foresta” evoca ombra, mistero, incantesimi e anche paura. Nel Siegfried tutti i protagonisti cercano qualcosa: l’eroe chiede a Mime delle proprie origini; Mime non conosce come né chi forgerà Notung e men che meno immagina la propria fine ma anche lui vuole l’anello; der Wanderer pone domande, di cui sa già la risposta, alla veggente Erda che non sa rispondere e poi finge di contrastare un’azione (fermare Siegfried) che ha previsto in ogni dettaglio e che per lui è essenziale per la sopravvivenza. Così come Alberich, Wotan cerca di recuperare l’anello per riconquistare il potere, dolorosamente patetico perché già decaduto da “attore” a “osservatore” (al proposito, geniali sono le indicazioni di Chéreau o di Cassiers che vestivano in egual maniera Wanderer e Alberich, uno riflesso dell’altro, entrambi accomunati dal fallimento del loro tentativo di possedere il mondo). Un bel connubio, dunque, tra il mondo reale dei sentimenti umani e il clima di fiaba che risorge in tutta la sua gloria “fantastica”.
Al cospetto della “fiaba”, la visione di David McVicar - consapevole della complessa drammaturgia che implica “sensibilità umanistica che impone oltretutto di mettere in scena draghi, giganti, uccellini che parlano, un fuoco magico che inonda la scena come un fiume” - che non ci aveva appagato a sufficienza nel Prologo e nella prima giornata, soddisfa questa sera ben di più. È una regia didascalica, nel senso meno deteriore del termine, estremamente leggibile e priva di concettualità astruse.
Le scene dello stesso McVicar e di Hannah Postlethwaite ci conducono nel primo atto in una caverna: a destra viene apparecchiata una cucina, a sinistra una fucina con un grosso mantice sospeso e l’immancabile incudine. Mime è un nevrotico clown con i capelli color carota, pieno di tic e facile allo spavento, come quando entrano dei servi di scena che animano un orso aggressivo o forse solo giocherellone. Siegfried bullizza il povero nano, rovesciandogli pure in testa un pentolone, il quale nano, alle domande sulla madre dell’eroe si veste da donna, esibendo con una goffa tenerezza un evidente gravido pancione. Der Wanderer entra vestito con un saio da monaco nero e ricorda con emozione la morte di Sieglinde (sua figlia) mentre Mime sputa per terra quando il dio evoca il temuto Alberich. L’atto si chiude con Mime che si agghinda con vestaglia leopardata e corona da drag-queen.
Nel secondo atto, un intrico di alberi nasconde enormi figure umane scarnificate come in uno studio anatomico. Alberich entra in scena tirandosi dietro un carrettino pieno di chincaglieria e poi si fregia di una corona d’oro e veste una divisa militare double face, da vero re decaduto. Imbestialito dal faccia a faccia con der Wanderer gli rifila il “gesto dell’ombrello”. Mime entra con un cestino da picnic, bevendosi tra l’altro un cafferino in attesa che il fanciullo lo liberi dal drago. Un servo di scena vivifica con una lunga asta uno svolazzante uccellino del bosco, con la cantante che lo segue passo passo ed esibisce una cresta da ultimo dei Mohicani. Un enorme teschio con braccia scheletrite e coda sferzante (il drago) viene mosso dagli immancabili servi di scena. Alla morte del mostro riappare il Fafner del Rheingold, con manone e maschera deforme che incombe sulla testa dello sfortunato gigante.
Nel terzo atto, una grande sfera-mappamondo si staglia su una scena altrimenti vuota. Da sotto la sfera esce Erda, strisciante e un po’ sofferente, incalzata da un Wanderer impaziente. Il quale tenta una parvenza di tenerezza paterna nei confronti dell’insolente giovincello.
Su un telone il video di Katy Tucker mostra un cerchio-anello che poi con efficacia prende fuoco, per introdurci all’ultima scena: (vedi Rheingold) dove si ripresenta l’uomo-cavallo (Grane), con protesi simil atleti paralimpici e un supporto in metallo con muso di cavallo. Un’enorme faccia di pietra coricata che raffigura Erda e una mano aperta che ospita Brünnhilde dormiente. Siegfried appare assai impaurito e bisognoso di attenzioni amorose, accoccolandosi tra le braccia della Walküre che, inizialmente dubbiosa, è ancora alle prese con dolorosi ricordi da ex-dea. I due comunque finiscono abbracciati ed emozionati in un crescendo di passione.
Costumi indefiniti, senza tempo e un po’ selvaggi di Emma Kingsbury, che dona tuttavia un elegante vestito blue alla splendida Brünnhilde. Le luci cupe o lampeggianti ma anche rosso fuoco, assai calde nel descrivere il cerchio fiammeggiante che contorna la figlia di Wotan sono opera di David Finn. Non abbiamo capito in cosa consistesse l’apporto del responsabile delle prestazioni circensi David Greeves (forse nell’animare i servi di scena?).
Molto buona la concertazione di Simone Young attenta alle molteplici variazioni dinamiche, alla compattezza ritmica e alla ricchissima architettura contrappuntistica. Come nella Walküre convince soprattutto nei passi prettamente sinfonici, dove traduce capillarmente i tanti contrasti agogici e psicologici dei protagonisti. Il malcontento lamentoso di Mime in opposizione all’esaltante giovinezza di Siegfried, la cui missione ha accenti da leggenda popolaresca. La solenne e pacata amarezza del Wanderer con le sue speranze deluse contrapposta all’impeto vitale, vigoroso ed entusiastico con cui Siegfried forgia Notung. Il preludio al secondo atto, così pesante, sinistramente terrificante ed angosciante in antitesi con il “mormorio della foresta”, dal pulsare leggero, dal palpitare arcano, trasparente, dolcemente carezzevole nel suo lento ed estatico modulare. Lo “scherzo sinfonico”, dove il combattimento eroico-comico tra Siegfried e Fafner bascula tra l’impaziente eroismo fanfarone e lo strisciare mostruoso del drago.
Divertente suona lo scherzo-baruffa grottesco tra Alberich e Mime, in cui si apprezzano le variazioni di ritmo e le dissonanze claudicanti. Il preludio al terzo atto, armonicamente e contrappuntisticamente ricco nella sua maestosa tetra vigoria ad ondate tempestose, come anche l’interludio sinfonico, in cui il tema dell’avventura, quello cioè dell’ascesa dell’eroe verso la rupe dove dorme Brünnhilde, mix di altri temi, ci rammenta quale valore carico di felicità abbia l’ansiosa favola del vivere. Il “risveglio o il saluto al mondo” è un crescendo magico e rarefatto, dove l’orchestra si dilata a dismisura per un visionario ritorno alla vita, che nel duetto d’amore si arricchisce di un prezioso lirismo appassionato, di esaltante luminosità, che poi si trasforma ancora nel Siegfried-Idyll, accompagnato da un tenero slancio cavalleresco e ulteriormente da un radioso ed entusiastico finale, sostenuto dalla tonalità di Do maggiore, opportunamente glorioso e selvaggio.
Con un timbro chiaro e parecchio delicato Klaus Florian Vogt disegna un Siegfried più lirico e meno eroico, decisamente più fanciullo inconsapevole. L’emissione è salda, con una linea ferma anche se non troppo ampia. L’appoggio, il controllo e la proiezione del fiato, con mezze tinte e legato, sono di buona scuola. I tanti La acuti “bucano” lo spessore fonico orchestrale mentre il Do4 è un po’ tanto tirato per i capelli ma l’interprete convince.
Il carattere eroicizzante, con l’impeto giovanile, non sembra vibrare con particolare intensità nella canzone della fusione, inno all’umana grandezza e alla sudata fatica, ma fa tenerezza nelle mezze voci del desiderio d’amore e dell’amore filiale, pensando alla madre. Impaziente e fanfarone nello scontro con il drago. Insolente con il Wanderer ma pronto alla commozione nel dialogo con l’uccellino. Di fronte alla donna che gli insegna la paura oscilla tra l’ansiosa curiosità e il batticuore stuporoso misto al brivido di desiderio sensuale. Dopo estasi ed incanto si abbandona alla gioia amorosa con un moto selvaggio comunque liricheggiante.
Eccellente Camilla Nylund che conferma questa sera il successo già decretatole con Walküre. Bene negli acuti ma soprattutto è da sottolineare che la sua Brünnhilde, grazie ad un analitico dosaggio del fiato, esprime tutta l’emozione di una donna che, privata violentemente della sua aura di dea immortale, si appropria dei sentimenti umani più veri, dolci e malinconici (la nostalgia con cui ricorda il passato ma anche il desiderio di serenità e felicità). Certo traspare una certa solennità nel visionario, magico e rituale saluto al mondo, con una buona discesa al Do grave, ma è soprattutto nella passionalità commossa del saluto d’amore che la donna prende coscienza di quanto sia potente ed infuocato l’amore umano, tutto giocato su musicalissime accelerazioni e rallentamenti.
Wolfgang Ablinger-Sperrhacke è il formidabile goffo e sgraziato Mime, anche del Rheingold di questa edizione ma anche del Ring Barenboim-Cassiers scaligero (2010). Nel Lied, a mo’ di ballata, impiega con maestria la voce che piega ad una ridda di sentimenti: frustrazione, malcontento e delusione nel suo vano tentativo di forgiare Notung. Utilizza i temi cromatici di Loge e dell’incantesimo del fuoco con quello del sonno, avvolgenti ed inquietanti, per descrivere la paura all’impaziente e iroso fanciullo. Perfetto nella recitazione, che illustra la viltà e l’abiezione del personaggio: tanto timoroso di fronte al Wanderer, volgare come una petulante comare nello scontro con Alberich, addirittura schizofrenico nel secondo duetto con Siegfried, untuoso e mellifluo da un lato e truce potenziale assassino dall’altro.
Michael Volle con la sua riconosciuta autorevolezza vocale disegna un Wanderer di nobile figura, dall’aplomb da signore decaduto, che si inalbera contro Erda, più per l’ineluttabilità della propria fine che non per una mera vendetta. Esaltante nella glorificazione di Siegfried con quel tema magnifico: “Siegfried e Brünnhilde eredi del mondo” tanto carico di radioso lirismo. Gioca con ironia con Mime e vorrebbe pure farlo, con compiaciuto paternalismo, con Siegfried ma l’insolenza del giovane fa esplodere la tragedia, con lo schianto della lancia che legava indissolubilmente il mondo alle leggi.
Ólafur Sigurdarson aveva già ben impressionato impersonando Alberich nel Rheingold e questa sera si conferma meritando il nostro plauso. Sempre cupo e bilioso, sospettoso e delirante nell’utopia di tornar in possesso dell’anello del potere ma, con i vizi dell’uomo meschino, si abbandona alla turpitudine sfrenata, dominata da un’avidità senza vergogna nello scontro con Mime.
Christa Mayer con il registro medio-grave pastoso e risonante è Erda, che si inabissa con calma e sonnolenta tristezza al Sol diesis sotto il rigo e non delude nel La bemolle acuto con cui dà dello spergiuro ad un irrequieto e deluso Wotan. Ain Anger presta voce sgraziata ed emissione claudicante al drago Fafner, che qui morendo si trasforma da mostro orripilante a personaggio melodrammatico incupito e preda di una dolorosa malinconia. Delicato e ben a fuoco nei tanti La acuti l’Uccellino del bosco di Francesca Aspromonte.
Vivo e meritato successo per tutti i protagonisti vocali, per la direttrice Young e per il primo corno. Si rileva che McVicar non si è fatto vivo e sugli altri realizzatori della messa in scena sono convogliati apprezzamenti con qualche modesto dissenso.
Il relatore riferisce poi sulle scritte che campeggiavano sul telone di proscenio ad inizio spettacolo, relative alla guerra tra Ucraina e Russia e a quella di Gaza: “Cessate il fuoco”; “Stop the War” ed una citazione dalla accorata raccomandazione di Simone Boccanegra a patrizi e plebei sempre in lotta senza quartiere.
La recensione si riferisce alla Prima del 6 giugno 2025.
Ugo Malasoma