Guido di Monforte | Luca Micheletti |
Il signore di Bethune | Andrea Pellegrini |
Il conte Vaudemont | Adriano Gramigni |
Arrigo | Piero Pretti |
Giovanni da Procida | Simon Lim |
La duchessa Elena | Marina Rebeka |
Ninetta | Valentina Pluzhnikova |
Danieli | Giorgio Misseri |
Tebaldo | Bryan Avila Martinez |
Roberto | Christian Federici |
Manfredo | Andrea Tanzillo |
Direttore | Fabio Luisi |
Regia, scene e costumi | Hugo De Ana |
Luci | Vinicio Cheli |
Coreografia | Leda Lojodice |
Maestro del Coro | Alberto Malazzi |
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala | |
Nuova produzione del Teatro alla Scala |
A proposito dei Vespri siciliani Guido Salvetti scriveva nel programma di sala del Comunale di Bologna, nell’edizione che ebbe grande successo nel 1986 sotto la direzione di Riccardo Chailly, che “più che di opera nuova, sarebbe più giusto parlare di un momento di ricerca, volto ad approfondire ed estendere le esperienze passate e ad aprire prospettive future…I capisaldi drammaturgici dell’opera romantica italiana incentrati su conflitti sentimentali, sono tutti riscontrabili, non solo nella musica di Verdi ma anche nel libretto di Scribe. E ci sono anche aspetti che l’apparentano ai temi dell’Opéra francese, che collocano l’opera in equilibrio tra la spettacolarità e la potenza drammatica con mezzi di gran lunga più ampi di prima (sinfonici, corali, scenici e formali)”. Anche il regista, da par suo, è chiamato ad amalgamare i conflitti psicologici con l’ambientazione storico-geografica: nel primo atto in cui sono già all’opera i grandi movimenti di masse che identificano oppressi e oppressori, nel secondo atto i soprusi dei francesi a danno delle donne siciliane, la congiura mancata nel terzo e quella definitiva con il massacro del quinto ed ultimo atto. Hugo De Ana, regista, scenografo e costumista, attualizza l’evento medioevale ai nostri giorni, ispirato probabilmente dalla tragedia della guerra in Ucraina, cercando di far quadrare il cerchio costituito, appunto, da un lato dalla grandiosità del quadro storico di cui dicevamo, dall’altro dall’intimismo degli intrecci privati, coadiuvato nella messa in scena dalle luci di Vinicio Cheli e dalle coreografie di Leda Lojodice, che si avvale di mimi e non ballerini. Da scenografo qual è più che da regista, illustra la vicenda ammantandola però di un mortifero grigiore, con scene ingabbiate in quinte nere enormi che soffocano un po’, tra esibizioni di cannoni, carrarmati, macchine da guerra, esplosioni e spari assortiti, militari in grigio (francesi o americani?), prepotenti e violenti, perennemente con in mano il fucile a minacciare i poveri siciliani, rigorosamente in nero ed intenti a scappare di qua e di là con valige e masserizie. Per la regia invece non ci pare proprio che le idee messe in campo abbiano convinto, con gesti attoriali che non si discostano per nulla dai cliché ormai codificati, senza un pizzico di fantasia, vedi scene corali e concertati. Qua e là vorrebbe stupire, certamente, sin dal finale della sinfonia, citando il capolavoro di Ingmar Bergman “Il settimo sigillo” del 1957, il film in cui la morte gioca a scacchi con il cavaliere, metafora “facile” del gioco perpetuo tra la vita e la morte. Ma il gioco si fa poi reiterata ossessione visto che la Morte e il cavaliere sono presenti spesso in scena, come quando sfilano in un corteo di bare (quella di Federigo?) al secondo atto o come quando si sbracciano con i mimi, intenti ad abbracciarsi in un corpo a corpo arricchito da gesti geometrici poco chiari, nel finale terzo. Finale terzo che vede tra l’altro l’apparizione di una Madonna areolata da una raggiera dorata come il mantello (come da iconografia classica folcloristica siciliana). Il dubbio lo suscita però il fatto che la stessa Madonna maneggia un coltello incitando alla ribellione il popolo.
Elena distribuisce armi già al primo atto ma reitera il gesto alla fine del secondo, dopo che in scena sono apparse le donne rapite, stuprate e uccise. Monforte è vestito da SS, Procida da commissario del popolo e Arrigo sembra un guappo con la coppola, ma una bandiera rossa sventola tra detonazioni e una vivace agitazione. Nel terzo atto, un quadro (secentesco?), bassorilievi non identificabili ma anche una statua di Cristo legato e sofferente, mentre la Morte incombe inesorabile. Al quarto, prigionieri in catene a testa in giù, torturati e quasi bruciati vivi, poi un corteo di soldati che trasportano un grande crocifisso mentre il cavaliere sguaina la spada pronto a decollare il capo ai cospiratori, ma forse, vista la contemporaneità è meglio un plotone di esecuzione per la fucilazione. Un po’ d’aria fresca la si respira al quinto atto, in scena un frondoso ulivo ma ahimè anch’esso con il fogliame grigio, mentre dei contadini accennano l’olivagione. Il sole di Sicilia non appare neanche quando gli animi sembrano rasserenarsi in attesa dello sposalizio tra Elena ed Arrigo e un grande bassorilievo di Madonna con bambino arricchisce la scena con una altrettanto grande campana. La Morte ed il cavaliere tornano a giocare a scacchi, l’ulivo prende fuoco quando scoppia furibonda la rivolta. Non capiamo se Monforte venga ucciso e che fine fanno gli altri protagonisti, ma tutta la scena è occupata mirabilmente in ogni centimetro. Grande delusione e dubbi a gogò.
Quella che non delude è la concertazione di Fabio Luisi, che è eccellente, quanto di meglio si potesse sperare. Fantasia narrativa, grande elasticità agogica, una inesausta pulsione dinamica, incisività nei ritmi puntati ma anche un morbido lirismo nelle parti introspettive e soprattutto un equilibrato rapporto orchestra e canto, per esaltare quanto più è possibile il teatro nella sua interezza. Sin dalla sinfonia sottolinea tutte le melodie che si squaderneranno nell’iter del dramma: dal largo del “tema della morte” qui una vera e propria marcia militare, cupa e sorda, al dolce “tema di Elena”, vedi la cavatina; dall’allegro agitato del “tema del grido di vendetta”, pieno di sacro furore ed accenti selvaggi, a descrivere poi il massacro del quinto atto, al lirismo melanconico del “tema di Monforte”, con quella morbidità dei violoncelli che instillano miele nelle orecchie; dall’inquieto e disperato incedere dei violini nel “tema dell’addio di Elena” al prestissimo finale che corre a perdifiato. Appaiono ben organizzati i grandi episodi corali e quelli concertanti, tutti quanti costruiti con un bel controllo ritmico, pensiamo alla concitazione e rabbia nel finale secondo in contrasto con la briosa e ritmata Barcarola, al grandioso ed entusiastico inno patriottico del finale terzo o all’inno di allegrezza che esprimono i due innamorati nel finale quarto, ma non dimentica di caricare di charme tutte le pagine di impronta francese, nelle lunghe conversazioni tra i protagonisti. Perfetta l’armonia complessa nel quartetto “a cappella”, quasi senza orchestra, tra fremiti e furore nel primo atto e poi quello splendido, in una intricata ragnatela di sentimenti al quarto atto, senza dimenticare il terzetto del quinto, dal largo cantabile iniziale all’impetuoso e serrato allegro della stretta, carico di enfasi e fatalismo. La tarantella si sviluppa vivacemente e da allegra si muta in danza nevrotica che monta verso una tensione esplosiva. Nei momenti clou della partitura, vedi il preludio del quarto atto, dove il clarinetto descrive timori e speranze di Arrigo o l’oboe che dipinge di riflessiva e dolorosa tenerezza la Romanza di Elena, l’orchestra avvolge i protagonisti con un affettuoso e carezzevole accompagnamento. Ed altrettanto vaporosi, eleganti ed eterei sono quelli del Bolero e della Melodia. Quindi un’orchestra che “canta”, infuocata o densa e cupa che sia, per esaltare Verdi, forse risorgimentale o forse solo nazionalpopolare.
Conferme vengono anche dal coro diretto da Alberto Malazzi. Che si contrapponga la gioiosa ebbrezza dei francesi, l’indiavolato ratto delle spose (“Evviva la guerra”) o la briosa barcarola, al cupo risentimento e al furore vendicativo dei siciliani (“Coraggio, su, coraggio”) o alla dolorosa chiusa del secondo atto; che si dia sfogo alla spensieratezza con un tempo scandito e veloce (“O splendide feste”) o si celebri un inno patriottico (“O patria adorata”), con un cantabile grandioso ed entusiastico nel finale terzo, la precisione e l’amalgama sono da applausi, così come il drammatico finale d’opera al ritmo selvaggio del “tema del grido di vendetta”.
Il ruolo di Elena è da soprano belcantista ma più “falcon”, cioè parecchio robusta nei centri e dai timbri scuri, con particolare volume nelle note sotto il rigo ma anche numerose fiondate verso gli acuti, Si e Do compresi. Marina Rebeka è una Elena di grande carattere. Un personaggio complesso, religiosa da un lato ma fiera ed eroica negli slanci rivoluzionari, vedi la cabaletta “Coraggio, su coraggio”; che aggiunge ad una malinconia dolorosa verso il fratello morto i palpiti d’amore verso Arrigo, sempre con composta dolcezza, come nel duetto del secondo atto. Sdegnata per il tradimento ma poi commossa per la confessione dell’amato nel duetto del quarto atto. Avvolge di mestizia assai riflessiva la Romanza “Arrigo! Ah! parli ad un core” con piani, mezzevoci, filati e colorature di bella fattura e una cadenza finale con un glissando di buona musicalità.
Il virtuosistico Bolero, tutto volatine, trilli, mordenti e picchiettati non ha però il supporto di un’emissione lieve, elegante, ricco di grazia e di dolce esotismo, con un salto di dodicesima finale che la porta dal Do acuto al Fa diesis grave sotto il rigo, che suona stasera un po’ troppo vuoto di volume. Infatti, ahimè in maniera provocatoria, suscita una contestazione aperta da parte del loggione. Un po’ sconcertata nobilita infine il terzetto del quinto atto, combattuta tra il dovere di abbattere il tiranno e l’amore per Arrigo.
La vocalità di Arrigo è ricca di note di passaggio, una via di mezzo tra il baritenore alla Rossini e il lirico romantico, che dovendo salire fino al Re sovracuto dovrebbe utilizzare una voce mista, chiara e agilissima da un lato e centri più corposi e bruniti, per inabissarsi fino al Do sotto il rigo. Piero Pretti, ha voce delicata più che corposa, ma svolge il compito con bravura, sia nei cantabili affrontati con baldanza e una punta di enfasi nel disprezzo iniziale verso Monforte che nelle appassionate dichiarazioni d’amore verso Elena.
Nel duetto con Monforte, è combattuto tra la commozione e la sofferenza per l’agnizione, l’amore per la madre e per Elena ma anche e soprattutto per quel “voler ma non posso” per il padre.
Nell’aria “Giorno di pianto” alterna timori e speranze con un lirismo puro, accenti dolenti e un discreto legato con bella proiezione al Si acuto. Nel secondo duetto con Elena, dopo aver svelato l’arcano dell’esser figlio di cotanto tiranno, riprende l’onore e la fierezza confermando la propria fedeltà alla causa dei rivoltosi. Affronta la Melodia con appropriata voce leggera, vaporosa, con fioriture e trilli, e si inerpica fino al Re acuto con disinvoltura.
Procida sarebbe un basso-basso, quindi con l’esigenza di voce ampia e scura che si inerpica al Fa acuto ma scende fino al Fa sotto il rigo. Simon Lim non ha solo doti canore, vista l’emissione morbida e di bel colore, ma è anche un credibile interprete. Nell’aria “O tu, Palermo” con nobiltà d’animo offre un tenero saluto nostalgico e commosso alla propria patria, maneggiando ceneri tratte da un’urna (martiri siciliani?), ma questo sentimento lo abbina alla ossessiva voglia di ribellione che l’oppone al tirannico viceré. Spirito vendicativo, monolitico nella sua determinazione di patriota, non si smorza di fronte ai sentimenti d’amore di Elena ed Arrigo. Contribuisce con voce e partecipazione carismatica ai concertati: quello del ratto delle spose al secondo atto, quello patriottico e sin risorgimentale, pieno di sdegno e recriminazioni alla conclusione del terzo ed infine a quello vivacissimo del massacro dei Vespri.
Luca Micheletti, dal gran bel timbro brunito, è Monforte, il governatore della Sicilia, autoritario e minaccioso in pubblico ma vulnerabile nell’intimo. Sa esprimere una certa fragilità per l’impotenza di un padre di farsi riconoscere dal figlio, una fragilità che si accoppia all’amarezza di detenere un potere privo di felicità. Quindi non solo bieco oppressore ma anche generoso ed affettuoso padre, come ben risulta nell’aria “In braccio alle dovizie”, tutta cesellata con piani, mezzevoci e proiezioni all’acuto ben timbrate. Nel seguente duetto col figlio mette in mostra un florilegio di sentimenti che si aprono e si chiudono alla tenerezza e all’ardente bisogno di affetto misti alla sofferenza reciproca per un passato di violenza mai rinnegato con un vero pentimento. Alla congiura sventata oppone un tono sprezzante, tornando vendicativo e implacabile giudice verso i cospiratori e i siciliani traditori ma rimanendo nell’ambito di una vocalità ben controllata da un’emissione senza strappi. Infine, stempera la tensione dei protagonisti usando magnanimamente clemenza verso tutti, lasciandosi andare ad una gioia doppia per il figlio, che l’ha finalmente riconosciuto come padre, e per la pace che si illude arrida agli invasori e ai siciliani riconciliati.
Fanno la loro parte i vari comprimari:
Il Conte di Vaudemont, interpretato da Adriano Gramigni e il signore di Bethune di Andrea Pellegrini, che si ritagliano un duetto di grazia e nobiltà all’inizio, e i predatori sessuali francesi, il Roberto di Christian Federici e il Tebaldo di Bryan Avila Martinez.
E i fieri oppositori alla prevaricante tirannide, la Ninetta di Valentina Pluzhnikova, il Danieli di Giorgio Misseri e il Manfredo di Andrea Tanzillo.
Il pubblico ha decretato un franco successo a Luisi, al coro e ai cantanti maschi, dividendosi in due fazioni per la recita della Rebeka, per noi ingiustamente bueggiata. Contestazioni prevedibili e condivisibili invece per tutti i responsabili della messa in scena, assai deludente.
La recensione si riferisce alla prima del 28 gennaio 2023.
Ugo Malasoma