Guillaume Tell | Michele Pertusi |
Arnold Melcthal | Dmitry Korchak |
Walter Furst | Nahuel Di Pierro |
Melcthal | Evgeny Stavinky |
Jemmy | Catherine Trottmann |
Gessler | Luca Tittoto |
Rodolphe | Brayan Ávila Martinez |
Roudi | Dave Monaco |
Leuthold | Paul Grant |
Un cacciatore | Huanhong Li |
Mathilde | Salome Jicia |
Hedwige | Géraldine Chauvet |
Direttore | Michele Mariotti |
Regia | Chiara Muti |
Scene | Alessandro Camera |
Costumi | Ursula Patzak |
Luci | Vincent Longuemare |
Coreografia | Silvia Giordano |
Maestro del Coro | Alberto Malazzi |
Orchestra, Coro del Teatro alla Scala | |
Allievi scuola di ballo dell'Accademia Teatro alla Scala | |
Nuova produzione |
L’ambientazione del Guillaume Tell è, nella tradizione scenica, montana, lacustre e soprattutto paesana, dove lo scenario naturalistico si sposa con il senso sacrale che ispira il concetto di patria, una patria però sfregiata dalla violenza dell’oppressione. Solo una parte di quanto descritto rimane nella lettura di Chiara Muti che ispirandosi all’affresco poetico Paradise Lost di John Milton (1667) traduce l’opera nella lotta tra il Bene e il Male, dove la luce trionfa sulle tenebre e la virtù sul vizio, con l’aiuto delle scene di Alessandro Camera, che si ispirano a loro volta al visionario Metropolis di Fritz Lang (1927), immerse sin dall’inizio in una cupa oscurità. Edifici squadrati e asettici, con gabbie-prigioni al piano terra disegnano una città distopica, dove l’umanità è annichilita dall’asservimento e dalla violenza, accecata da luci fredde e taglienti (le luci sono opera di Vincent Longuemare). Un’umanità immaginata come degli automi deambulanti con difficoltà, cavie con un tablet in mano che virtualmente incatena al presente e al potere vigente (allusione un po’ tanto telefonata alla “schiavitù” del cellulare e ai social), vestiti come dei carcerati con giubbe grigio topo (l’autrice dei costumi è Ursula Patzak), dimentichi del passato prezioso e dei felici ricordi (con il vecchio Melchtal simbolo dell’antica saggezza e visto dalla Muti come un profeta). Difatti, libri, fiabe, bambole, aquiloni e vascelli, giacciono impolverati al suolo, così come la balestra che Jemmy strappa all’oblio e porge al padre come segno del destino, un sacro simbolo che si deve trasmettere di padre in figlio. Guillaume diviene così “l’arciere salvatore”, un eroe a tutto tondo, un puro incorruttibile dal vizio, un devoto alla sua terra che serve con tutto se stesso, come cantato da Schiller nel suo ultimo dramma (1804). Il Male è personificato nella figura spietata di Gesler, qui incappucciato di rosso, che si staglia netto sul resto del mondo privo di colori, e assomigliante alla Morte, protagonista nel Settimo sigillo (lì in bianco e nero) di Ingmar Bergman (1957). Più che un tiranno degli Asburgo un vero e proprio demonio, circondato da ministre del Male, brutali e lascive, che raffigurano i sette peccati capitali: ira, avarizia, invidia, gola, accidia, lussuria e superbia.
Gli sgherri di cotanto demonio imperversano con violenza inaudita, irrompono con mitragliatrici e spade e violentano le spose nel primo atto, ci sono però anche soldati con lance ed armature medioevali (?), ma anche all’inizio del secondo atto trasformano la caccia in una folle mattanza di umani, anche se poi il suono delle campane li fa inorridire. Non sopportandone il suono idilliaco finiscono per coprirsi le orecchie come bimbi non avvezzi ai sacri riti. Mathilde canta “Sombre forêt” circondata da un cielo stellato (un po’ patetico), così come nel terzetto degli uomini appare il vecchio Melchtal torturato e crocifisso come il Cristo (?) adorato dalle tre spose in bianco (quelle dello sposalizio del primo atto) come tableaux vivants. Il finale secondo è tutto uno sbandieramento di neri drappi strappati (immagini ricorrenti che hanno fatto un po’ il loro tempo). La grande scena del terzo atto, dove un albero enorme e rinsecchito è posto al centro della scena con un sudario insanguinato penzolante, è un inno alla presuntuosa Babilonia, in cui il caos trionfa, tra disordine e morte, in un vero e proprio sabba infernale. Il demonio sfida il Cielo, tentando la sua creatura prediletta (il puro Guillaume) che così è costretto per un capriccio ad armarsi contro il figlio. Quel figlio che secondo natura deve potergli sopravvivere. Per il demonio, infatti, le colpe ricadono sui figli. Nel quarto atto Arnold canta la sua celebre aria mentre il feretro del padre è scorrazzato per il palcoscenico. Altri sbandieramenti annunciano che il popolo si è armato e va alla rivoluzione. Durante la Tempesta la morte falcia senza pietà, tra teli strappati, lampi e fiamme proiettate. Gesler, ucciso dal dardo di Guillaume, sprofonda nell’abisso come i neri muri claustrofobici onnipresenti, lasciando spazio ad una umanità che avanza per un nuovo rito, altrettanto sacrale. La Natura, assente per quasi tutta l’opera, appare raffigurata su tela (tante cascate dipinte in malo modo sul fondale), mentre un po’ di luce illumina la folla commossa per la ritrovata libertà che saluta con le braccia alzate al cielo, spogliandosi delle divise da carcerato ed inginocchiandosi estasiati per la bellezza del creato.
Insomma, una regia fantasy con una notevole spruzzata di espressionismo assai plumbeo, che Muti porta avanti con indubbia coerenza ma che non ci ha convinto per nulla. Troppa roba, un po’ affastellata in un caos, anche voluto, ma molto confusionario, con la regia che nei lunghi monologhi, duetti e terzetti, per contro, non osa oltre alla proposta di gesti un po’ didascalici.
Le danze non sono decorative, per fortuna, e la coreografia di Silvia Giordano esibisce, come il coro, la drammaticità degli eventi, da un lato celebrando i valori dell’antica civiltà contadina, con i suoi rituali, e dall’altro mostrando la dittatura del Male in maniera vorticosa, per cancellarne la memoria storica con soprusi, umiliazioni e morti. Il popolo si muove come marionette, quasi ipnotizzate da un malefico incantamento (la mela di Biancaneve?). I ballerini vorrebbero scappare da questa orgia di violenza ma sono incatenati da un destino crudele.
Se il Tell è legato al Classicismo francese ed è un anticipo del Romanticismo la bellissima concertazione di Michele Mariotti, vero trionfatore della serata,non commette l’errore di interpretarlo come una tragédie-lirique né come un dramma pre-verdiano. Mantiene invece una inesausta tensione drammatica che rispetta e scolpisce la complessa e minuziosa architettura narrativa con tanti raffinati particolari armonici, più ancora che con una mera successione di ampi blocchi strumentali, senza contrasti esagerati né troppa concitazione, evitando l’eccesso di volume. Quindi, una compatta intensità, solenne ed epica al contempo, esempio nel maestoso “Pasteurs, que nos accents s’unissent”, in cui la benedizione della fecondità (della natura e delle coppie di sposi) assume una nobile e appropriata fierezza; nel contrastato terzetto Guillaume-Arnold-Walter, che sancisce il recupero di Arnold alla causa dei difensori della patria, dopo aver appreso della morte violenta del padre ma anche nel guerresco giuramento del finale secondo, in cui il prestissimo di “Aux armes!” diviene un turbinoso grido di battaglia.
All’essenziale intensità comunque aggiunge anche un poetico e vibrante lirismo (l’andante grazioso iniziale; la marcia nuziale; l’idilliaco accompagnamento all’aria “Sombre forêt”; l’andantino di “Asile héréditaire”; la tenera armonia che sprigiona dal terzetto delle donne). Assai efficace risulta, poi, nel delineare l’espressività che ciascun protagonista mette in campo per mostrare i propri stati d’animo e che valorizza al massimo la resa di forte teatralità, tra abbandoni, tinte smorzate e vivaci accelerazioni, ad esempio nell’allegro mosso del recitativo di Mathilde, che ne descrive la cupa inquietudine o come nella triste introduzione all’aria di Arnold che decreta la completa maturazione del personaggio che si accomiata dai felici ricordi dell’infanzia ma anche nella patetica preghiera di Tell. Mariotti suscita ammirazione anche nella perfetta concertazione della Sinfonia, divisa in quattro sezioni, che ha suscitato una spontanea ovazione per la sua perfetta cantabilità: il cello solista nell’andante iniziale che con struggimento allude a Guillaume; il rapido e conciso temporale (mentre quello del quarto atto con le ondate strumentali che salgono e scendono impetuose suona più drammatico); la melodiosità del ranz des vaches (la cantilena folcloristica dal sapore naturalistico) e la galoppata elettrizzante dell’allegro vivace. Infine, un accenno all’edificante finale dell’opera, con quel motivo radioso, che deriva dal ranz di Zwinger, in un crescendoche acquista sempre più una gioiosa vitalità, che ispira una intensa emozione.
Nell’opera abbondano i cori che Alberto Malazzi dirige con la proverbiale maestria.
Il coro si fa personaggio e si differenzia in maniera articolata. Cori idillico pastorali con andanti distesi, un gioco calibrato di piani e crescendo, momenti di preghiera e di intenso raccoglimento ma anche di improvvise esplosioni di gioia ed esuberanza o di rabbia bellicosa intrisa di anelito libertario contro il tiranno Gessler. Il coro celebrativo all’ingresso del tiranno suona pomposo nel ritmo militaresco, baldanzoso e sprezzante al contempo ma carico di indignazione nel finale terzo. Impareggiabile a conclusione del dramma lo slancio di gioia, che acquista sempre più una debordante esuberanza.
Michele Pertusi, che ha con grande successo già interpretato Tell in passato, si conferma questa sera nel ruolo con indubbia bravura. Il timbro ha perso un po’ di smalto e morbidezza ma l’accento incisivo e il legato ne fanno un eroe comunicativo. Umanissimo, tra sconsolati soliloqui e prese di coscienza rivoluzionarie (nel guerresco Giuramento), che è perfettamente consapevole della schiavitù in cui versa. Un capo-popolo solenne, carismatico e fiero, motivatore senza eccessi (terzetto del secondo atto), rispettoso delle tradizioni contadine (nella benedizione del vecchio Melchtal alle tre coppie di sposi). Interprete che nel suo declamare utilizza anche tinte smorzate e abbandoni di sincera commozione (“Sois immobile, et verse la terre”), con slanci affettivi ed accenti patetici accompagnati dall’appassionato incedere del violoncello solista. É ancora in grado di dominare una tessitura che lo porta più volte fino al Sol 3.
Il ruolo di Arnold è di una difficoltà incredibile (pensiamo ai cinquantaquattro Si bemolle, ai quindici Si naturali, ai diciannove Do 4 e ai due Do diesis) ma che ovviamente non si esaurisce nella sola esibizione di cotanta potenza vocale, stante il personaggio: contorto, oscillante tra l’amor di patria e quello per Mathilde, pure intessuto di orgoglio e senso di inadeguatezza. Dmitry Korchak assolve egregiamente il compito con un timbro luminoso, un’emissione che si espande con facilità verso le vette impervie del pentagramma ma che sa anche piegarsi con dolcezza a sfumature cariche di malinconiche macerazioni (nel recitativo “Le mien dit-il!”, nell’aria “Asile héréditaire”, nell’andantino del duetto con Mathilde). Convincente anche nel declamato, svolto con accento incisivo. Affrontando, infine, con baldanza giovanile la impervia cabaletta “Amis, amis, secondez ma vengeance”.
Salome Jicia è invece una deludente Mathilde. Il timbro ha screziature di un bel colore brunito ma l’emissione non ha tutta l’omogeneità e il legato necessari, così che il fraseggio non colpisce particolarmente. Illustra il personaggio da un lato con tranquilla serenità dall’altro con austera compostezza aristocratica. È una discreta dolce innamorata nell’idilliaca e sognate “Sombre forêt” (variante melodica del Ranz) in cui si lascia andare al flusso dei ricordi e dei sentimenti ma pure nel successivo duetto con Arnold, dove emerge una spontanea convergenza di aspirazioni sentimentali e una identica e nobile visione del mondo, anche se Korchak la sovrasta spesso. Nell’aria “Pour notre amour plus d’espérance” colorature, scale, filati e portamenti non hanno l’efficacia auspicata e parecchio aspri risultano tutti gli acuti. Presta armoniosa consonanza con Hedwige e Jemmy nel terzetto del quarto atto, in cui con forza ribadisce la sua grande umanità, sposando la causa del popolo schiavizzato.
Catherine Trottmann è Jemmy, il figlio di Guillaume. In un ruolo che gravita in regione acuta, fa fatica a salire sino al Si 4 nel finale primo. Con tenerezza si accorda alle altre donne nell’andantino del terzetto ma nel finale d’opera con Mathilde chiude con un Do 5 parecchio ruvido.
Géraldine Chauvet è l’apprensiva Hedwige, moglie di Guillaume. Con una tessitura quasi da contralto, che la porta dal Sol diesis sotto il rigo al Sol 4, illustra con inquietudine e fervore la preghiera del quarto atto, partecipando con altrettanta musicalità al terzetto con Mathilde e il figlio Jemmy.
Luca Tittoto, è il perfetto tiranno-demonio Gesler, declama con una emissione solida, una dizione ben scandita e un accento protervo e sferzante, oltre che essere un attore di grande carisma. Dave Monaco, il pescatore, dipana la sua “Accours dans ma nacelle” con le salite al Do 4 un po’ linfatiche.
Evgeny Stavinky, il vecchio Melchtal, Nahuel Di Pierro, Walter Fürst, Paul Grant, Leuthold e Huanhong Li nel ruolo di un cacciatore non sfigurano.
La serata è iniziata con una meritata ovazione per Mariotti al termine della sinfonia e confermata con entusiasmo al termine dello spettacolo, è proseguita con qualche intemperanza all’inizio del secondo atto nei confronti della messa in scena, che alla fine ha poi suscitato parecchie rimostranze miste ad applausi, più di stima che altro. Al coro e ai cantanti sono stati riservati tanti applausi, in modo particolare a Pertusi e a Korchak.
La recensione si riferisce alla Prima del 20 marzo 2024.
Ugo Malasoma