Pianoforte | Grigorij Sokolov |
Programma | |
Henry Purcell | Ground in Gamut in sol maggiore Z. 645 |
Suite no. 2 in sol minore Z. 661 | |
A New Irish Tune [Lilliburlero] in sol maggiore Z. 646 | |
A New Scotch Tune in sol maggiore Z. 655 | |
[Trumpet Tune, called the Cibell] in do maggiore Z.T. 678 H. Purcell, Suite no. 4 in la minore Z. 663 |
|
Round O in re minore Z.T. 684 | |
Suite no. 7 in re minore Z. 668 | |
Chaconne in sol minore Z.T. 680 | |
Wolfgang Amadeus Mozart | Sonata n. 13 in si bem. maggiore Kv 333 (315c) op. 7 n. 2 |
Adagio in si minore Kv 540 |
Maggio è da qualche anno il mese di Grigorij Sokolov a Milano. Il grande pianista di San Pietroburgo torna puntuale ad esibirsi per la Società dei Concerti, presentando questa volta un impaginato del tutto particolare per l’accostamento dei compositori scelti, Purcell e Mozart.
Difficile invero trovare un filo conduttore in questa proposta. In generale Sokolov non sembra amare particolarmente i recital a programma, limitandosi spesso alla semplice compilazione di opere di particolare bellezza e importanza. Altra peculiarità dell’artista sta diventando anche la disposizione all’interno di una singola porzione di recital delle opere del medesimo autore, realizzata senza badare all’impatto sul pubblico del pezzo finale. Per intenderci, qualche anno fa Sokolov ha dedicato la prima parte di un recital a Beethoven, ma anteponendo la brillante Sonata op. 2 n. 3 alle Bagatelle op. 119. Il senso di quella scelta si poteva rintracciare forse nella seconda metà del concerto, monopolizzata dal Brahms delle opp. 118 e 119, quindi nella continuità della piccola forma (ma è un po’ tirato per i capelli, lo riconosco). In modo ancor più radicale, la seconda parte del recital di questa sera non termina con il Mozart brillante della Sonata K 333, ma col funereo Adagio K 540. Anche se da Sokolov si può accettare qualsiasi cosa, non si comprende davvero l’idea di concludere il concerto con un momento così lungamente contemplativo, “nero” e disperato.
Ma stavolta, come dicevo poc’anzi, è proprio tutto il disegno complessivo a sembrare inafferrabile. L’unico flebile segno di una concezione unitaria potrebbe rintracciarsi nel fatto che sia Purcell che Mozart, ciascuno a proprio modo, rappresentano dei ponti verso la diversa temperie musicale dei secoli successivi.
In Purcell può effettivamente riconoscersi ben più che una anticipazione di Bach, nello stile severo e nell’ornamentazione. Se è corretto parlarne come un ponte tra lo stile rinascimentale e il barocco maturo di Bach ed Händel, è anche vero che quel ponte Purcell lo ha percorso già quasi interamente. In questo senso non mi pare priva di significato la scelta di Sokolov di iniziare con Ground in Gamut in sol maggiore, nel quale non pochi in sala avranno percepito l’eco dell’Aria dalle Variazioni Goldberg (stessa tonalità, stesse modulazioni), così come a Bach corre il pensiero ascoltando la Chaconne con cui si conchiude la prima parte del recital.
Ma in che modo si può scorgere un ponte verso il futuro nella selezione dei brani di Mozart? Notoriamente il genio salisburghese fu un precursore del romanticismo musicale già nel suo tentativo di diventare un musicista autonomo, libero cantore della propria ispirazione, svincolata da commissioni e accomodamenti alla moda. E quanto alla sostanza della sua musica, le ombre a tratti tragiche dell’Adagio K 540 sembrano ritrarre, proprio con inquadratura romantica, l’uomo in uno stato di assorta allucinazione, preda di rapaci pensieri di morte. Ma la Sonata K 333? Il vocabolario pianistico, a tratti grandioso ma indubbiamente improntato ad un sostanziale buonumore, mal sembra accostarsi all’Adagio, eccezion fatta per il pensoso sviluppo del movimento centrale, misterioso ed enigmatico. Ma se il richiamo voleva essere davvero quello ad un immaginario ponte verso il romanticismo, perché Sokolov non ha allora puntato sulle “beethoveniane” K 310 e K 457?
Meno difficile da decifrare è stata l’esecuzione complessiva.
Non di rado Sokolov ha stupito anche con delle scelte di campo piuttosto audaci e talvolta non sempre immediatamente afferrabili nella poetica (si pensi alle Variazioni op. 35 di Beethoven offerte l’anno scorso sempre al pubblico della Società dei Concerti. Questa sera invece il pianista russo ha fatto capire molto bene le sue intenzioni. Il barocco di Purcell viene cesellato con il solito eccellente spolvero, ma stavolta più contenuto, meno esibito. Non è stato il tocco sapido e pungente che egli ha sempre avuto (e avrà nei bis) con Rameau. Sokolov “morde” meno nei trilli, nei mordenti e in tutte le ornamentazioni che in Purcell sono ricche ma al tempo stesso essenziali. Il sorprendente risultato è quello di un sapore arcaicizzante e perfettamente fuso con lo stile del grande compositore inglese.
Più complesso il discorso in Mozart. Si tratta di un autore che, come è noto, pone più di altri il problema di cercare una sonorità adeguata, appunto “mozartiana”. Arrau ad esempio soleva raccontare di aver abbandonato questo repertorio negli anni quaranta del ‘900 (dopo aver eseguito l’integrale delle Sonate e salvo riprenderle in vecchiaia) in quanto non riusciva a trovare il “suo” tocco adatto alla musica di Mozart. Sokolov (che ascolto per la prima volta in questo autore) risolve brillantemente il problema inventandosi un tocco che non è di perla o di cristallo, ma vellutato. Se Mitsuko Uchida riesce a suonare oggi Mozart con l’uovo sotto i tasti, Sokolov fa ancora di più: lo restituisce come se i martelletti fossero avvolti in diversi strati di seta. L’effetto è quello di una sorta di falsa sordina, specialmente nei passaggi più veloci (e non sono riuscito a capire quanto il pedale ad una corda sia stato utilizzato). L’effetto percussivo viene di fatto annullato, messo sotto traccia, e il pianista decide insindacabilmente quando farlo emergere. E’ un risultato eccezionale che deriva indubbiamente anche dalla profonda conoscenza dello strumento, e dall’abilità nello sfruttarne con intenzione le possibilità timbriche.
Sorprendentemente “normale” è stato invece l’aspetto delle dinamiche. Sokolov ci ha abituato, specialmente nelle citate sonate di Mozart cosiddette “beethoveniane”, a contrasti risoluti e soprattutto a scelte di tempo personali, improntate generalmente ad un rallentamento teso ad esaltare l’eloquenza del discorso pianistico (si ascolti il terzo tempo della K 457). Qui invece sembra scorrere in un solco tutto sommato tradizionale, con trovate intelligenti ma non estreme.
Il recital si conclude, come prevedibile, con un altro mini-recital rappresentato dalla carrellata di encores, alcuni di una certa importanza e impegno, come il Preludio op. 28 n. 15 di Chopin e il Preludio op. 23 n. 2 di Rachmaninov. D’altronde dopo un’ora e mezza di musica non esattamente “popolare”, non sembrerà sacrilega una certa libertà di pescare i bis in periodi lontanissimi dal programma scelto. Sokolov qui ha sorpreso una volta di più andando a scovare dei colori mai sentiti nella sezione centrale del preludio chopiniano, ed esibendo in Rachmaninov una magniloquenza che ne ha dilatato il respiro senza evitare i virtuosismi (ai quali evidentemente, nonostante i settantatrè anni, il pianista non ha intenzione di dire addio).
Sokolov ha suonato con la consueta generosità e, nonostante la particolarità del programma, non ha mancato di sventagliare tutta la sua infinita maestrìa. Ma all’entusiasmo immutato ed anzi sempre crescente delle platee fa da contraltare la fissità di determinati atteggiamenti che avvolgono il pianista in una cortina impenetrabile. Non c’è apparente segno di osmosi tra l’aspetto dell’uomo e il dono al pubblico di un arte sublime. Qualcuno afferma di non aver mai visto Michelangeli sorridere dopo un recital: tanto non sono sicuro di questo, quanto invece potrei scommettere che non un abbozzo sia mai uscito dalle labbra di Sokolov negli ultimi suoi trent’anni di carriera.
Ma tant’è, egli continua comunque a regalarci non solo qualcosa di bello, ma anche di nuovo, come abbiamo ascoltato questa sera, finanche nei bis. E allora godiamocelo senza altri pensieri, questo Sokolov, sapendo che nessuno sarà mai in grado di spiegarci i paradossi che egli si porta dietro quando sale, imperturbabile, sul palcoscenico.
La recensione si riferisce al concerto del 17 maggio 2023.
Lorenzo Cannistrà