Soprano | Marina Rebeka |
Mezzosoprano | Daniela Barcellona |
Tenore | Francesco Meli |
Basso | Alexander Vinogradov |
Direttore | Riccardo Chailly |
Maestro del Coro | Alberto Malazzi |
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala |
Era il 22 maggio quando Giuseppe Verdi, nel raccoglimento della Basilica di San Marco di Milano, saliva sul podio dell’Orchestra del Teatro alla Scala per dirigere la prima esecuzione della Messa da Requiem dedicata all’autore dei Promessi sposi («non solo un libro, ma una consolazione per l’umanità»). È di nuovo maggio: dopo centocinquant’anni e un giorno i complessi dell’Orchestra e Coro scaligeri fanno nuovamente il loro ingresso nella chiesa di Piazza San Marco. In questo lungo arco di tempo non sono mancate le occasioni per riproporre il Requiem verdiano nello spazio in cui è stato tenuto a battesimo, in particolare negli anni di Abbado e di Muti, ma l’evento non si ripeteva dal 27 gennaio 2001 e in ogni caso non è mai avvenuto sotto la direzione di Riccardo Chailly.
Nonostante si tratti di una messa dichiaratamente da concerto, nel momento in cui in questo contesto i quattro solisti e il direttore prendono posto davanti all’assemblea ieratica di coro e orchestra la tensione che si avverte è la stessa di una sacra rappresentazione. La lettura di Riccardo Chailly non ha nulla di diverso da quanto si ascolta normalmente e concede tutte le modificazioni di prassi, dal metronomo rallentato nel Requiem aeternam all’anticipazione del mi in «proferetur» e «continetur», tutto molto corretto e con gusto; il direttore tuttavia interviene su un parametro specifico, una scelta che modifica la percezione dell’intera Messa: Chailly non concede mai tregua all’ascoltatore, concepisce un Requiem dove – quasi senza eccezioni – un numero musicale si inanella all’altro senza soluzione di continuità (persino la deflagrazione del Sanctus cede immediatamente il passo all’Agnus Dei), oltretutto all’interno della singola frase non c’è quasi mai il tempo di un respiro, di uno iato che consenta di non farsi sopraffare da quel mare ribollente della partitura. In questo modo viene realizzata un’esperienza sonora perturbata e inquieta ai limiti dell’ossessività in cui l’unica effettiva consolazione arriva solo alla conclusione della partitura con uno degli accordi di do maggiore più mesti della musica occidentale. Senza cambiare nulla, Chailly ha completamente cambiato le carte in tavola, sortendo un risultato travolgente come la sua direzione: chi scrive non ricorda di averlo mai visto tanto agguerrito; memorabile al termine della (unica in tutta la Messa) lunghissima pausa dopo «et timeo» il tremito della mano destra prima dell’ultima apparizione del Dies irae. Molto ben gestito l’equilibrio fra le varie sezioni, articolate da Verdi nella Sequenza secondo uno schema piuttosto diverso dalla tradizione, ma in particolar modo si apprezza lo scavo sulla parola e della direzione tesa a una concezione unitaria del binomio musica-parola, fondamentale in Verdi tout-court e indispensabile nelle sue composizioni sacre, basti ricordare la lettera sul Te Deum. Senza alcun dubbio il miglior concerto di Riccardo Chailly a cui abbia assistito.
Superlativo il Coro del Teatro alla Scala preparato da Alberto Malazzi, compattissimo, mistico, perfetto in ogni dettaglio; d’accordo che nel Dies irae ti fa spalancare gli occhi, ma c’è molto più di questo: la sofferenza nel Requiem aeternam che si sublima in quella meravigliosa imitazione post-palestriniana del "Te decet hymnus", quel gioiello di grazia e complessità che è la fuga in doppio coro del Sanctus e nel complesso Libera me, nel quale si impone soprattutto nell’ultima, ricercatissima fuga. L’Orchestra del Teatro alla Scala raggiunge esiti sommi, in particolare negli impasti: a questo proposito non si può non citare i due flauti in unisono con i violini primi nel Libera me che in qualche modo richiamano un sassofono contralto, l’effetto organo dei legni nel Domine Jesu (soprattutto quell’unione di sestine e note pedale), ma per onestà bisognerebbe dare conto di tutti i meriti individuali, dallo splendore degli archi nel Requiem aeternam fino ai tachicardici ribattuti delle trombe nella climax del Libera me. L’unico neo, se vogliamo chiamarlo così, è stato quella confusione nella fanfara delle trombe all’inizio del Tuba mirum ma in primis si sente lontano un miglio che è stato un inconveniente del momento e soprattutto davanti a un risultato nel suo complesso così straordinario sarebbe veramente di cattivo gusto attaccarsi a quattro note sbagliate, quindi per una volta nella vita: chi se ne frega!
Il quartetto dei solisti avrebbe potuto essere più centrato: Daniela Barcellona è molto coscienziosa nella gestione della linea vocale e ha proposto alcune intuizioni coloristiche davvero intelligenti, tuttavia ha forse tradito una certa insicurezza aggiungendo una nota in più all’inizio di ogni numero in cui era il mezzosoprano a iniziare; il risultato è che Liber scriptus, Quid sum miser e Lux aeterna non sono iniziati con la loro nota pulita ma con un “appoggio”. Francesco Meli ha abusato parecchio della sua facilità di emissione (nell’Ingemisco si noti che in partitura è segnato un solo forte, quello di battuta 490, e che sul si bemolle acuto successivo c’è una forcella di diminuendo) a scapito dell’effetto complessivo; i piani sono molto belli e fanno desiderare più accortezza nei coloriti, poco raffinati come il fraseggio.
Molto bene Alexander Vinogradov, che mostra un fraseggio curato e una particolare efficacia nei registri centrale e grave. Vinogradov si adatta molto bene alla natura ibrida che Verdi chiede alla voce del basso, duttile negli assieme, incisivo nei contenuti passi a solo (in particolare nel Confutatis, dove i corni sarebbero potuti essere più arrabbiati), si segnala anche per la dizione chiarissima che concorre a quel bilanciamento tra parola e musica cui si accennava sopra.
Marina Rebeka ha gestito in modo oculato una situazione non comodissima: trovandosi ad affrontare quel quarto d’ora da incubo del Libera me dopo più di un’ora di concerto, Rebeka ha saputo mirabilmente contenersi pur fornendo quanto richiesto dalla partitura per poi sfoderare solo alla fine le molte frecce del suo arco, ça va sans dire da vera donna di teatro. Tra gli acuti adamantini e i passi impetuosi, il momento più memorabile di cui si è resa protagonista è senz’altro l’ultima ripetizione della frase «libera me, Domine, de morte aeterna, in die illa tremenda». Da brividi.
Vivo entusiasmo al termine di una serata che, a modo suo, può essere certamente definita storica, ma il commento più centrato è quello che rubiamo volentieri a Paolo Besana: una serata «da Scala», e di questa Scala non ne avremo mai abbastanza.
La recensione si riferisce all'evento del 23 maggio 2024.
Luca Fialdini