Duca di Mantova | Fabián Lara |
Rigoletto | Kirilii Manolov |
Svetlana Moskalenko | |
Sparafucile | Johannes Maria Wimmer |
Giovanna Maddalena |
Camilla Lehmeier |
Conte di Monterone | Unnsteinn Árnason |
Marullo | Alec Avedissian |
Borsa | Jon Jurgens |
Conte di Ceprano | Jungkun Jo |
Contessa di Ceprano | Clarissa Toti |
Un paggio della duchessa | Su-Jin Kim |
Un usciere di corte | Il-Young Yoon |
Duchessa di Mantova (ruolo muto) | Melanie Kopp |
Direttore | Seokwon Hong |
Regia | Dale Albright |
Scene | Heinz Hauser |
Costumi | Gera Graf |
Luci | Ralph Kopp |
Drammaturgia | Susanne Bieler |
Maestro del coro | Michel Roberge |
Tiroler Symphonieorchester Innsbruck | |
Herren des Chores und Extrachores des Tirolerlandestheaters |
“La grandiosa angoscia del cielo notturno sopra la città… l’espressivo qui non è patetico, ma realistico, in quanto designa con la massima intensità l’uomo esistente che soffre… la musica tempestosa della sua solitudine della sua incertezza e della sua malinconia ha una durezza e una precisione realistiche, fa risuonare la collettività senza uomini che l’oggettivismo instaura con uomini senza collettività, il che corrisponde alla condizione oggi più reale”. Il silenzio dopo gli applausi che accolgono il finale del secondo atto di Rigoletto è sùbito “disturbato” da un quasi impercettibile rumore di vento che spazza la struttura sghemba dell’abituro-scannatoio di Sparafucile e Maddalena sulla deserta sponda del Mincio, percorsa da una passerella di legno sulla quale potrebbe avanzare Katerina Izmailova trascinando Sonetka verso la morte; il cielo è blu livido, gravido di tregenda come il sorgere della luna nel secondo quadro del Wozzeck. Quel che si vede sul palcoscenico vuoto del Tiroler Landestheater e che accompagnerà tutto il mirabile terz’atto di Rigoletto, ci richiama proprio le parole che Ernst Bloch dedica al sommo melodramma di Berg, ma che sembrano poter descrivere non meno bene la straordinaria potenza del perfetto e più conciso tra i capolavori di Verdi. L’impianto di Heinz Hauser, scenografo nel 2016 di quell’Affare Makropulos che ottenne l’Österreichisches Musiktheaterpreis, si combina in modo emozionante con le luci impietose di Ralph Kopp e con i costumi di Gera Graf, anch’essi già coinvolti nell’allestimento premiato tre anni fa. Dall’immaginario Cinquecento, francese o mantovano che sia, la vicenda di Rigoletto è proiettata in un teatro attuale dove tutto deve essere finzione per poter creare il massimo del realismo: e così rivive la portata scandalosa che questo titolo verdiano ebbe quando fu presentato quasi centosettant’anni fa, riuscendo a superare, diversamente dall’ipotesto hughiano, ogni resistenza della censura grazie alla potenza della sua catarsi e alla comprensione immediata e totale del pubblico. Fortune, queste ultime, condivise dalle due grandi opere del Novecento che abbiamo ricordato, anche se poi temporanee vittime di tardive censure.
Alla suggestione visiva dell’impianto scenico geometrico e dei costumi allusivi e affabulanti s’accompagna la regia di Dale Albright, il tenore originario del Minnesota che da ventisette anni è una delle colonne dell’ensemble vocale fisso del TLT, padrone di un’arte di caratterista (ma non solo di essa) che gli consente ancor oggi di realizzare personaggi indimenticabili. Espertissimo del palcoscenico e, questo è ovvio, anche delle esigenze dei cantanti, già firmatario di regie per la classe d’Opera del Conservatorio e nel settore musical, Albright crea situazioni gestuali spesso molto riuscite, come lo scambio di ruolo tra il Duca e il Buffone per deridere Monterone; il complice e interessato ammiccare a Gilda di Giovanna (identificata con Maddalena non solo per la coincidenza dell’interprete) mentre il padre ripete a iosa le sue raccomandazioni; l’andirivieni sul proscenio di Rigoletto, Marullo e Borsa con la rituale scala; o, verso la fine, la quasi-contesa tra Rigoletto e Sparafucile per il sacco di Gilda.
Non egualmente risolte appaiono, perlomeno dopo avere visto lo spettacolo una sola volta, alcune interpolazioni “drammaturgiche”, centrate sulla materializzazione del personaggio della Duchessa e sulla contraddizione tra il libertinaggio della corte e un supposto bigottismo di facciata. Secondo questo concetto, l’interprete di Sparafucile può aggirarsi vestito da prelato già nel quadro della festa, e poi, negli stessi panni, seguire e decapitare Monterone portato “al carcere": non riesce privo d’efficacia il suo disfarsi, sul fondo-scena, degli abiti ecclesiastici nel rapido passaggio tra i due quadri del primo atto; meno convincente diremmo, nell’evidente volontà di trovare anticipazioni del Don Carlos, l’onnipresenza ipocrita di croci nell’abbigliamento dei personaggi (un finto simbolo ecclesiastico è anche il contenitore del “ferro del mestiere” del sicario in cerca di clienti). Problematica, nel senso proprio del termine, la conclusione delle “attività” di Sparafucile e Maddalena, mentre Rigoletto è ormai solo con il sacco: la Duchessa, arrivata di soppiatto lì anche lei, sfodera una terza borsa (o una quarta, se ricordiamo quella gettata dal Duca a Giovanna / Maddalena), e il sicario, intascatala, aggredisce con tutto comodo alle spalle il giovine-Apollo nuovamente impegnato nella sua tresca dopo la ripresa della Canzone. Non giureremmo, però, che il gioco di Sparafucile sia solo doppio, anziché triplo come quello del recente Rodrigo veneziano in vesrione Carsen: non ci sentiamo d’escludere, infatti, che il Duca sia sgozzato solo per finta, perché la prosecuzione del suo “governo” sembra molto piú funzionale agl’interessi dei malavitosi che non un cambiamento; ma si sa bene che talvolta anche i “servizi segreti” puntano sul cavallo sbagliato...
Sia però chiaro che queste incursioni, un po’ ingenue, nel Regietheater non intaccano, anche se non l’accrescono, la qualità generale di quel che avviene sulla scena; e non disturbano in alcun modo lo splendore insolito e ammirevole della realizzazione musicale. “Sul campo”, il primo merito della grande serata va riconosciuto al direttore musicale Seokwon Hong, che ha dimostrato in questo Rigoletto la profondità della sua maturazione da quando, quattro stagioni fa, ha assunto il ruolo di Erster Kapellmeister del TLT. La concertazione del maestro coreano è attentissima sia all’orchestra, sia ai cantanti, che dimostrano sì una disciplina insolita per un ascoltatore italiano dell’opera italiana, ma anche svolgono il loro impervio compito con grande naturalezza e disinvoltura: strumenti impeccabili, e soprattutto sempre interpreti, lasciati a loro agio sia dalla regia sia dal podio. Il fraseggio e i colori dell’orchestra verdiana sono realizzati dal Tiroler Symphonieorchester in serata di grazia con vivacità unita a precisione; anche nelle zone “chiare” (come la grande scena del tenore che apre il secondo atto) la finezza di segno mantiene sempre un rilevante peso espressivo; sin dal mirabile preludio la drammatica cupezza di ottoni e archi gravi non scade mai in enfasi. Ideale la durata delle pause ad libitum.
Merito della direzione del TLT è poi d’avere saputo chiamare per questo spettacolo tre prime parti di grande rilievo, e d’avere distribuito nel modo migliore le risorse del proprio ensemble, secondo le tradizioni della “casa” (ricordiamo il recente Trittico). Una prevedibile e gradita conferma è quella di Kiril Manolov, al TLT Simone la stagione scorsa: il baritono bulgaro controlla sempre molto bene la forza enorme del suo mezzo vocale, e segue in ogni circostanza le indicazioni espressive verdiane. Esemplare la forcella sul corretto Mi naturale di “È follia…”, senza debordare mai dal mezzo piano (l’ultima indicazione dinamica verdiana è infatti morendo); in questo modo, cioè rispettando il testo verdiano, si trasmette all’ascoltatore tutta la consapevolezza che il personaggio ha della propria incapacità di illudersi. E Manolov, di concerto con Hong, ha fatto anche percepire quanto il Boccanegra debba a certe parti del Rigoletto.
Una Gilda ideale è stata Svetlana Moskalenko, in forza dal 2011 al Mihajlovskij Teatr di Petroburgo. Padrona delle agilità previste, rende il ruolo anche carnalmente drammatico. Molto disciplinata nei pezzi d’assieme, scatena l’entusiasmo dopo un “Caro nome” ascoltato dal pubblico col fiato sospeso sino allo spegnersi dell’ultimo accordo pianissimo: una Gilda, anche grazie alla splendida ricchezza di timbro, tutta l’opposto della figura insipida ed evanescente a cui è talvolta ridotto il personaggio.
Un felice contrasto di temperamento con padre e figlia mostra la vocalità “latina” di Fabián Lara, in libera carriera dal 2017 dopo due anni al Centre Perfeccionament Plácido Domingo di Valencia. Più impenitente coureur de jupons che signore avvezzo al potere assoluto, il tenore messicano possiede il calore della passione amorosa e ha portato la cabaletta, anch’essa opportunamente eseguita secondo il testo verdiano, a un applauso non meno convinto di quello che aveva accolto l’aria di poco precedente; molto buono anche l’impegnativo attacco del quartetto. Abbiamo qualche riserva solo per un paio di corone un filo troppo prolungate: troviamo sempre opportuno “chiudere” con ancora una buona riserva di fiato.
Tutte le parti di fianco sono state affidate a risorse proprie del TLT. Tra esse spicca ancora una volta, per correttezza, accattivante brio e vivace gioco scenico, la Giovanna / Maddalena di Camilla Lehmeier. Gl’interpreti di Sparafucile e Monterone sono stati, la prima sera, rispettivamente Johannes Maria Wimmer, che ha portato alla luce qualche ascendenza leporelliana del sicario, e Unnsteinn Árnason, che ha disegnato un Monterone altero e distante, forse svantaggiato dal dover cantare la sua seconda invettiva in una posizione molto arretrata del palcoscenico; durante le repliche i due artisti si scambieranno i personaggi.
Di favolosa qualità, per l’ascoltatore italiano, il Marullo di Alec Avedissian e il Borsa di Jon Jurgens: da noi non succede, infatti, che questi due ruoli, cosí importanti nella tenuta delle scene di gruppo del primo e del secondo atto, siano affidati a cantanti che, sullo stesso palcoscenico, hanno recentemente interpretato don Giovanni e don Ottavio. I due hanno agito da veri corifei, trascinando a una partecipazione drammatica molto coinvolgente i Chor und Extrachor des Tiroler Landestheaters, ancora una volta ottimi sotto la guida di Michel Roberge, che in quest’occasione ha dimostrato d’avere tra le frecce al suo arco anche un’italicissima verve.
Hanno completato il cast, con la consueta precisione e presenza vocale, gli artisti del coro Jungkun Jo (Conte di Ceprano), Clarissa Toti (Contessa), Su-Jin Kim (Paggio) e Il-Young Yoon (Usciere). La figura muta della Duchessa di Mantova è stata Melanie Kopp. Nelle repliche, Florian Stern s’alternerà con Jon Jurgens come Borsa.
Il successo s’è delineato netto e pieno sin dalla conclusione del primo quadro. Tutti i pezzi chiusi, fatto insolito Oltralpe, sono stati accolti con applausi sempre molto piú che di cortesia. Ha spiccato, come abbiamo detto, quello alla Moskalenko dopo “Caro nome”. Alla fine, gran festa generale, con il direttore Seokwon Hong visibilmente conscio e felice d’avere vinto così bene la sfida con una delle opere italiane per eccellenza. Un’altra ovazione ha accolto, dopo il secondo “giro” dei cantanti, l’ingresso del team di regia capitanato dall’amatissimo Dale Albright.
La recensione si riferisce alla prémière dell’8 febbraio 2020.
Vittorio Mascherpa