Parsifal | Daniel Johansson |
Amfortas | Christopher Maltman |
Gurnemanz | Tareq Nazmi |
Kundry | Tanja Ariane Baumgartrner |
Klingsor | Martin Gantner |
Titurel/2 Cavaliere | William Meinert |
Primo Cavaliere | Louis Zatoum |
Scudieri | Julieth Lozano |
Ena Pongrac | |
Omar Mancini | |
José Pazos | |
Fanciulle-Fiore | Julieth Lozano |
Tineke van Ingelgem | |
Louise Foor | |
Valeriia Savinskaia | |
Ena Pongrac | |
Ramya Roy | |
Una voce | Ena Pongrac |
Direttore | Jonathan Nott |
Regia | Michael Thalheimer |
Scene | Henrik Ahr |
Costumi | Michaela Barth |
Luci | Stefan Bolliger |
Direttore del Coro | Alaan Woodbridge |
Orchestre de la Suisse Romande |
Choeur du Grand Théâtre de Genève |
Parsifal torna sulla scena del Grand Théâtre de Genève dopo un’assenza di tredici anni, quando apparve per l'ultima volta nella ripresa di una produzione del 2004 con la regia di Roland Aeschlimann e la direzione indimenticabile di Armin Jordan. Era uno spettacolo immerso costantemente in una luce blu con la scena quasi sempre protetta da un velo trasparente, allusione al velo di Maia e alla filosofia di Schopenauer che influenzò il compositore tedesco nella concezione della sua ultima opera. Tutt'altra temperie è invece quella suggerita in questo allestimento dal regista tedesco Michael Thalheimer in una coproduzione che riunisce, oltre al teatro ginevrino, la Deutsche Oper di Düsseldorf. Si tratta - va detto subito - di una lettura un po' enigmatica e spiazzante, non solo per l'assenza quasi totale dei simboli sacri che accompagnano, se pur sempre più raramente, gli allestimenti del Parsifal (qui non si vedono infatti né Graal, né croci - salvo quelle disegnate sui muri col sangue dai cavalieri nel primo atto), ma soprattutto per quello che ci appare come una sorta di aggiramento di alcune delle domande essenziali contenute nell'opera wagneriana. La prima delle quali riguarda la malattia di cui soffre il regno di Amfortas: punto di partenza per impostare la rilettura del rapporto peccato (o tentazione) e salvezza su cui è costruito l'intero dramma. Il regista tedesco sembra rispondere a questa domanda con una letteralizzazione della ferita sanguinante: il sangue infatti è onnipresente e cola sui vestiti dei cavalieri (affetti da paraplegia e deambulanti solo grazie a stampelle), sui muri bianchi del tempio, contaminando ogni elemento scenico in una costante dialettica cromatica bianco/rosso. A giudicare dal finale dell'opera (Parsifal tornato a risanare il regno del Graal si toglie il trucco da clown e rimane immerso da solo in una luce bianca in cui riappare nella semplice umanità che aveva all'inizio del I atto) si direbbe che la malattia di questo regno è una pulsione di morte sacrificale a un passo dall'autodistruzione o meglio dal dissanguamento, ma il finale non lascia intendere chi siano i beneficiari della salvezza apportata dal nuovo Redentore, visto che Parsifal resta solo in un abbraccio luminoso cui tutti gli altri (compresa Kundry) restano (volontariamente?) esclusi. Parsifal si sarebbe salvato solo dalla doppia follia autodistrittiva dei cavalieri del Graal e dal falso paradiso di Klingsor? Se queste domande restano senza risposta (almeno per chi scrive), va notato che lo spazio scenico monumentale (scene di Henrik Ahr) è efficacemente gestito per sottolineare il contrasto tra i mondi parimenti mortiferi del Graal e di Klingsor e il nuovo mondo del finale, in cui i muri vengono finalmente abbattuti per dare spazio - si direbbe - a una nuova dimensione di salvezza individuale più che collettiva. Pur con soluzioni efficaci e quasi sempre in sintonia con la musica (specie nel cambiamento di scena dell'atto I e nel finale dell'atto III) e pur col merito innegabile di non cedere a quei facili distanziamenti ironici che non sempre sono sinonimo di profondità, la lettura del regista tedesco non ci è sembrata del tutto convincente.
Alla testa dell'Orchestre de la Suisse Romande (di cui è direttore principale e direttore artistico) Jonathan Nott sembra sintonizzarsi sulla sobrietà di mezzi del regista, puntando a una lettura che (come peraltro molti altri direttori dei nostri tempi) predilige i momenti più intimi della partitura alla solennità ieratica del rito. Anche qui però, togliendo la solennità e togliendo - in una parola - anche il dramma o il pathos, talvolta si resta un po' spiazzati. I momenti di stacco e di frattura della trama musicale (così importanti per la struttura dell'opera) risultano davvero un po' poco valorizzati nella loro cifra peculiare (entrata in scena di Parsifal, tema di Kundry, attacco dell'atto II) a vantaggio di una continuità spedita e tecnicamente irreprensibile (ottima la coordinazione coi cantanti), ma che ci è sembrata un po' poco personale e a momenti quasi disarticolata. Venendo ai cantanti, ci piace anzitutto salutare la prestazione eccezionale del Gurnemanz del basso kuwaitiano Tareq Nazmi, che associa bellezza di voce, valorizzazione della parola e intenzioni espressive in modo superbo: ciò è tanto più ammirevole visto che la regia lo costringe a cantare appoggiandosi sulle stampelle in preda a movimenti incontrollati (salvo i momenti contemplativi in cui non canta). Accanto a lui spicca Tanja Ariane Baumgartner che presta la sua bella voce mezzosopranile al personaggio di Kundry. La scena della seduzione (pur poco riuscita sul piano scenico a causa di un revolver continuamente puntato su Parsifal) la vede sfoggiare una voce particolarmente seducente nel settore grave, ma pure a suo agio nei temibili scatti di alcune memorabili impennate verso l'acuto. Su un livello inferiore il Parsifal di Daniel Johansson. Se il tenore svedese risulta pienamente a suo agio sul piano scenico nella figura del puro folle, ci è sembrato meno convincente su quello vocale, in cui si desidererebbe un'emissione un po' meno forzata e un sostegno maggiore nelle frasi eteree che punteggiano la parte. Buono l'Amfortas di Christopher Maltman e apprezzabile il Klingsor di Martin Gantner, pur scenicamente ridotto a una specie di Gargamella che è difficile immaginare come un'espressione credibile del regno del Male. Ottime pure, con l'eccezione di qualche inflessione un po' asprognola, le Fanciulle-fiore, qui brave borghesi in tailleur, segnate però da deformazioni fisiche (gobbe ed altre escrescenze) che non ci è riuscito del tutto di decifrare. Ineccepibile la prestazione dell'Orchestre de la Suisse Romande, così come quella del coro del Grand Théâtre de Genève. Successo per tutti, particolarmente caloroso per Nazmi, Baumgartner e il direttore Nott.
La recensione si riferisce alla rappresentazione del 29 gennaio 2023.
Gabriele Bucchi