Father Trulove | James Platt |
Anne Trulove | Sara Blanch |
Tom Rakewell | Matthew Swensen |
Nick Shadow | Vito Priante |
Mother Goose | Marie-Claude Chappuis |
Baba the Turk | Adriana Di Paola |
Sellem | Christian Collia |
Keeper of the Madhouse | Matteo Torcaso |
Direttore | Daniele Gatti |
Regia | Frederic Wake-Walker |
Scene e Costumi | Anna Jones |
Luci | Charlotte Burton |
Coreografia | Michael Keegan-dolan |
Video | Erho Phizmiz |
Maestro del Coro | Lorenzo Fratini |
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino |
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Nuova produzione del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino |
In un'ideale continuità con il Doktor Faust di Busoni recentemente rappresentato nella sala grande del Teatro del Maggio, anche The Rake's Progress di Stravinskij occhieggia, seppure più alla lontana, al mito di Faust e Mefistofele, rielaborato secondo la sensibilità novecentesca. Se Busoni crea con il suo capolavoro incompiuto una sorta di riflessione psicanalitica, quasi autobiografica, Stravinskij concepisce una favola morale dalla sfuggevole identità, sospesa tra dramma e commedia grottesca.
E se Busoni si rivolgeva alle avanguardie musicale dei primi decenni del Novecento, molto più tardi, ormai nel secondo dopoguerra, Stravinskij nel 1951 (anno del debutto alla Fenice di Venezia) osava guardare al Settecento, al Mozart di Così fan tutte, con citazioni e riferimenti a buona parte della storia dell'opera. Il compositore russo ripropone quindi pezzi chiusi, duetti e cori, ripensati secondo il gusto moderno con un equilibrio mirabile, tale da non trasformare la sua creazione in un eclettico guazzabuglio, ma mantenendolo un lavoro compatto e affascinante, ancorché caleidoscopico.
Tappa finale del cosiddetto Festival di Carnevale, The Rake's Progress è in scena all'Auditorium intitolato a Zubin Mehta in una nuova produzione del Teatro del Maggio. A Firenze l'opera manca da ben quarantuno anni, ovvero dall'edizione del 45° Maggio Musicale con la direzione di Riccardo Chailly e la regia di Ken Russell. In precedenza l'istituzione toscana aveva presentato La carriera di un libertino in traduzione italiana in un circuito regionale del 1973 che, oltre a Pistoia, Arezzo e Livorno, aveva toccato pure l'Umbria facendo tappa a Orvieto.
Si è trattato dell'ultima produzione operistica che vedeva il dimissionario Pereira presente in sala a capo del teatro fiorentino. Non è questa la sede per commentare gli anni di gestione del sovrintendente, che tra le sue peculiarità annoverava una certa fissazione su determinati nomi, puntualmente riproposti nei suoi cartelloni. È il caso dei regista Frederic Wake-Walker, già impegnato nel 2021 con una discreta Adriana Lecouvreur (in cui però subentrò all'ultimo per lavorare su materiale non suo) e l'anno passato nell'assai deludente Roméo et Juliette. Una regia, quest'ultima, talmente insignificante da rendere poco comprensibile una nuova scrittura, ma tant'è. Alle prese con un titolo dalle notevoli potenzialità teatrali Wake-Walker se la cava un filo meglio rispetto all'ultima prova a Firenze, senza però brillare, se non in alcune scene. Complice, in ciò, le limitazioni sceniche dell'Auditorium dove fin ora si sono visti non più di due spettacoli realmente riusciti.
Si comincia male con un primo quadro che vorrebbe suggerire un'atmosfera marcatamente settecentesca, tutta basata sulle proiezioni di immagini bucoliche, bruttine e pure fastidiose per un tremolio che le faceva parere azionate da un sofware vetusto, che va pure in crash lasciando al buio lo sfondo per diversi secondi. Le scene successive sono meglio gestite, con un'originale proposta del personaggio di Baba the Turk, meno grottesca del solito, calva e senza la consueta barba, “trasferita” dal volto al corpo a formare un succinto abito. Le proiezioni (di Ergo Phizmiz) si susseguono per tutta la messa in scena e pagano il confronto con lo splendore visivo creato da Livermore con il Doktor Faust, una vera opera d'arte di videografica al cui confronto queste paiono misere. I pochi elementi scenici creati di Anna Jones (migliore come autrice anche dei costumi) sono alquanto cheap. È pericoloso giocare con gli scatoloni di cartone se non si è Carsen.
Per fortuna la parte musicale innalza non di poco il livello artistico della produzione, a partire dalla direzione di Daniele Gatti che in questa partitura trova il modo di mettere in mostra tutte le sue qualità di concertatore. Trasparente nelle sonorità che ricava da un'Orchestra del Maggio in stato di grazia, naturale nei trapassi dalle pagine concitate a quelle più distese, impeccabile nel dosare gli equilibri sonori tra la buca e il palcoscenico, impone una narrazione dai tempi per lo più serrati, raffinata e teatrale al tempo stesso. Il Coro diretto da Lorenzo Fratini è non meno eccellente dell'orchestra nell'esprimersi con la duttilità e la ricchezza di accenti delle serate migliori.
Cast nel complesso ottimo, con la menda parziale del protagonista Tom Rakewell impersonato dal tenore Matthew Swensen, che a Firenze era già stato modesto Ferrando nel Così fan tutte visto in streaming durante la pandemia e poi riproposto al pubblico, nonché modesto Fenton nel Falstaff diretto da Gardiner (ah, le fissazioni...) e in questa occasione paga nuovamente il timbro di scarsa qualità, monotono e grigiastro, che lo limita nella gamma espressiva. Rispetto alle prove precedenti si nota tuttavia un impegno particolare nell'approfondire il personaggio, buone intenzioni interpretative e una solida tenuta in una parte molto lunga e articolata.
Anna Trulove si giova della sempre ammaliante Sara Blanch, ricca di nuances e impeccabile nel governare il suo delicato strumento di soprano lirico-leggero. Luminosa nel registro acuto e nei passaggi virtuosi, il soprano si procura grandi applausi al termine della sua grande scena del primo atto.
Vito Priante fa di Nick Shadow un'incarnazione demoniaca caratterizzata da una sorta di elegante distacco, disegnata con deliberata sobrietà espressiva che si accompagna a una linea vocale sicura e alla nitida articolazione delle frasi. Al bando gli eccessi anche per un personaggio eccessivo se mai ce ne furono come Baba the Turk, che Adriana Di Paola tratteggia con la giusta di dose di esuberanza e personalità, sfruttando a fini espressivi anche alcune veniali disuguaglianze della sua voce ambrata per costruire un personaggio meno “mostruoso” (e in qualche modo pure sexy) del consueto.
Molto ben distribuite anche le altre parti, tutt'altro che secondarie, dove hanno modo di farsi apprezzare il sonoro e autorevole Father Trulove di James Platt, l'estroversa Mother Goose di Marie-Claude Chappuis e i più che adeguati Christian Collia e Matteo Torcaso, rispettivamente Sellem e Keeper of the Madhouse.
Successo incondizionato alla prima, con applausi molto lunghi e tutt'altro che di circostanza visto il titolo di esecuzione non proprio frequentissima, e successo personale per la Blanch, per Priante, per la Di Paola e, in modo particolare, per un Gatti festeggiatissimo.
La recensione si riferisce alla Prima del 12 marzo 2023.
Fabrizio Moschini