Lucrezia Borgia | Olga Peretyatko (7 maggio) |
Marta Torbidoni (8 maggio) | |
Alfonso I d'Este | Mirco Palazzi (7 maggio) |
Davide Giangregorio (8 maggio) | |
Gennaro | Stefan Pop (7 maggio) |
Francesco Castoro (9 maggio) | |
Maffio Orsini | Lamia Beuque (8 maggio) |
Nicole Brandolino (9 maggio) | |
Jeppo Livoretto | Cristiano Olivieri |
Don Apostolo Gazella | Tommaso Caramia |
Ascanio Petrucci | Tong Liu |
Oloferno Vitellozzo | Stefano Consolini |
Gubetta | Nicolò Donini |
Rustighello | Pietro Picone |
Astolfo | Luca Gallo |
Direttore | Yves Abel |
Regia | Silvia Paoli |
Scene | Andrea Belli |
Costumi | Valeria Donata Bettella |
Luci | Alessandro Carletti |
Coreografia | Sandhya Nagaraja |
Maestro del Coro | Gea Garatti Ansini |
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna |
Quando mi capita di assistere ad una recita di Lucrezia Borgia pesa su di me una specie di condanna; cioè aver visto tanti anni fa tutta la scena finale dell’opera con quello straordinario personaggio, incrocio tra musicologo, storico della vocalità e showman che è stato Michael Aspinall. Soprattutto quando la corpulenta Lucrezia, abbigliata in maniera, diciamo, eccentrica, si rivolgeva ad un Gennaro mingherlino con un gesto spassoso di disappunto al “Sei di nuovo avvelenato”. O quando con un gesto eloquente di diniego della mano e gli occhi rivolti al cielo esprimeva tutto il suo imbarazzo al “Ah! di più non domandar”.
Ecco. Tutte le volte che arrivo a quel punto dell’opera non posso fare a meno di volgere il pensiero a quelle esilaranti serate, ma in questo caso ho provato anche l’impellente desiderio che qualcuna di quelle “trovate” di Aspinall fossero trasferite nello spettacolo firmato da Silvia Paoli. Sì perché avrebbero fatto bene il paio con i balletti dei macellai che agitavano le accette sanguinolente, o con quelli dei soldati che facevano ginnastica, o in genere con quelli al suono di marcette o motivetti evidentemente considerati momenti di basso livello musicale da prendere per i fondelli nel più puro stile di Regietheater, inteso nella peggiore delle sue accezioni. Per non parlare di momenti come la pantomima di Rustighello che avvelena il vino con movenze e mimica degne di un film di Fantozzi. Poi però si assiste a scene che parevano inspirate a Salò o le 120 giornate di Sodoma con strupri e violenze varie, sangue et similia. Sì perché la vicenda è spostata nel ventennio fascista (oh la novità!) e guardando il palcoscenico uno si aspetterebbe di sentir provenire dall’orchestra quanto meno suoni in sintonia forse con l’espressionismo tedesco e non col Donizetti-Romani del 1833. Nella scena di Alfonso con Rustighello che apre il primo atto si vede una gabbia con donne sanguinolente seviziate e poi appese a ganci da macellaio. Al termine della cabaletta “Qualunque sia l’evento” alla prima del 7 maggio c’è stata una contestazione del pubblico (non rivolta all’incolpevole basso) davvero violenta nei confronti dei responsabili della parte visiva che non erano presenti ai saluti finali. Intendiamoci, io sono tutt’altro che contrario alle trasposizioni temporali e perfino a certe manomissioni della drammaturgia, a patto che siano coerenti con quello che si sente in orchestra e che riescano a evocare in qualche modo lo spirito della composizione, cose che qui non mi sono sembrate evidenti. Poi Silvia Paoli, sul programma di sala, ci informa che, da studi più o meno recenti, la Lucrezia storica non era questo mostro che la storia ci ha tramandato e che la poveretta, in un mondo estremamente maschilista, è stata usata, plagiata e poi calunniata. Vediamo infatti all’inizio una Lucrezia bambina che viene fatta vestire da Cappuccetto Rosso da un uomo con la maschera di lupo che la terrorizza e, s’intuisce, la viola.
D’accordissimo. Però qui si sta mettendo in scena un’opera del 1833 quando la riabilitazione di Lucrezia non era ancora avvenuta e si dava per scontata la fama di adultera e avvelenatrice, solo in parte riscattata dall’amore materno. Romani smussa il dramma di Victor Hugo, per motivi di censura e per sue caratteristiche di temperamento artistico, ma ne sorte comunque una donna di potere, che, pur con tutte le attenuanti del caso, ha fatto fuori un sacco di gente, ha intrigato, cospirato. Un carattere forte, complesso, indubbiamente controverso, che ho trovato in parte un po’ edulcorato in questa produzione. La scena unica (di Andrea Belli) simula un mattatoio con piastrelle imbrattate di sangue, secondo la regista “la destinazione finale dell’opera e la condizione mentale della duchessa”. I costumi sono di Valeria Donata Bettella, le luci di Alessandro Carletti, la coreografia di Sandhya Nagaraja. In definitiva una prova interlocutoria di Silvia Paoli, regista da me complessivamente apprezzata in spettacoli bolognesi (Capuleti e i Montecchi e Le nozze di Figaro) e fiorentini (l’offenbachiano Vento della sera).
La versione musicale scelta è grosso modo quella del 1833 con qualche taglietto, e l’inserimento della cabaletta di Lucrezia “Si voli il primo a cogliere” scritta nel 1840 (da eseguirsi dopo la sola prima parte di “Com’è bello”, mentre a Bologna si opta per l’aria completa); viene altresì eseguito l’arioso di Gennaro “Madre se ognor lontano”, il nuovo finale composto per Milano nel 1840 (senza “Era desso il figlio mio”, ma dalla versione di Parigi del 1840 in poi valse la consuetudine dell’esecuzione del brano del tenore seguito dalla cabaletta di Lucrezia dimezzata). A Bologna ci sono invece sia “Madre se ognor lontano”, sia la cabaletta finale completa, come nella maggior parte delle riprese odierne.
Yves Abel, già apprezzato a Bologna nella Fille du Régiment, dirige l’Orchestra del Comunale (non al suo meglio) con sapienza, sapendo valorizzare al meglio i componenti delle due compagnie. Suggerisce ai cantanti variazioni sobrie e stilisticamente appropriate. Qualche lieve intemperanza sonora si aggiusterà sicuramente nelle repliche. Buona la prova del coro diretto da Gea Garatti Ansini.
Doppio cast per tutti e quattro i ruoli principali. Olga Peretyatko, credo debuttante nel ruolo, non sempre è a suo agio nella tessitura di Lucrezia con la sua voce che resta quella di un soprano lirico-leggero carente nei gravi; cerca di trovare maggiore ampiezza nelle frasi che richiedono piglio drammatico (duetto con Alfonso) risultando talvolta un po’ aspra, così come un po’ tesi appaiono alcuni acuti (vedi il do diesis 5 di “M’odi, ah m’odi”). Non è mai stata una vera virtuosa ma nella coloratura se la cava comunque con professionalità e l’attrice, dotata di una figura prestigiosa, sa muoversi con abilità, giungendo a disegnare una donna all’occorrenza disperata, trepidante, nervosa, appassionata. Per lei successo incandescente con applausi anche a scena aperta.
Accoglienza altrettanto calorosa per Marta Torbidoni, la Lucrezia dell’8 maggio, più adatta alla parte quanto a mezzi vocali, più tondi, omogenei, morbidi, sonori. Anche per lei la coloratura non è la sua tazza di tè, ma la Torbidoni ne viene a capo comunque più che onorevolmente ed è sicura e in regola dal punto di vista tecnico. Piuttosto espressiva, rende un personaggio meno inquieto della collega, anzi tende a una tal quale placidità, che approda comunque ad una prova di bel rilievo, più matura del Trovatore bolognese di tre anni fa, tanto da rendermi assai curioso riguardo alla prossima Luisa Miller, sempre sullo stesso palcoscenico.
Prima dell’inizio dello spettacolo del 7 maggio è stata annunciata un’indisposizione del tenore Stefan Pop (Gennaro), che però ha portato a casa la recita senza colpo ferire, con voce di maggior corpo di quanto siamo soliti ascoltare nel ruolo, con piglio autorevole, lodevole espressività. Se proprio si vuole trovare un neo, si potrebbe rilevare un eccesso di falsetto (con tutta probabilità dovuto alle non perfette condizioni fisiche) in “Madre se ognor lontano”.
Quest’ultimo brano è stato forse il momento più bello dell’esecuzione di Francesco Castoro, giovane tenore in continua crescita, già ascoltato più volte a Bologna e Firenze. Timbro chiaro e limpido, voce che si fa apprezzare molto nei momenti distesi e dolci, presenta alcune leggere fissità in certi suoni a piena voce. Ma in una parte come questa già può considerarsi una certezza.
Mirco Palazzi (Alfonso) esibisce un timbro nobile e un’invidiabile proprietà stilistica, con solo qualche leggero impaccio nei passi più acuti, mentre Davide Giangregorio (8 maggio), forse meno raffinato del collega, ha dalla sua sicurezza e piglio autorevole.
Caratteristiche simili per i due Maffio Orsini (Lamia Beuque, 7 maggio e Nicole Brandolino, 8 maggio), due voci chiare in un ruolo di contralto, la cui scrittura le mette a disagio (soprattutto la prima) particolarmente quando batte in zona grave (“Nella fatal di Rimini”). Più estesa in alto e più sicura la Beuque, più rotonda la Brandolino.
Disuguali le parti minori. Buono Nicolò Donini (Gubetta), mentre Luca Gallo (Astolfo) e Pietro Picone (Rustighello) risolvono i rispettivi ruoli con professionalità. Completavano il cast Tommaso Caramia (Don Apostolo Gazella), Cristiano Olivieri (Jeppo Livoretto), Ton Liu (Ascanio Petrucci) e Stefano Consolini (Oloferno Vitellozzo).
Ho già accennato alla reazione di una parte del pubblico durante lo spettacolo riguardo alla parte visiva, alla quale si sono aggiunti mugugni qua e là. Successo completo invece per la parte musicale.
La recensione si riferisce alle recite del 7 e 8 maggio 2022.
Silvano Capecchi