Didone, regina di Cartagine | Danielle de Niese |
Enea, principe troiano | Francesco Salvadori |
Belinda | Mariam Battistelli |
Seconda donna | Patricia Daniela Fodor |
La maga | Bruno Taddia |
I strega | Marco Miglietta |
II strega, marinaio | Andrea Giovannini |
Spirito | Paola Valentina Molinari |
Maestro al clavicembalo | Nicoletta Mezzini |
Tiorba e chitarra barocca | Alberto Mesirca |
Violoncello | Roberto Cima |
Contrabbasso | Gianadrea Pignoni |
Anna I | Danielle de Niese |
Anna II | Irene Ferrara |
La famiglia | Marco Miglietta |
La famiglia | Andrea Giovannini |
La famiglia | Nicolò Ceriani |
La famiglia | Andrea Concetti |
Regia | Daniele Abbado |
Scene e luci | Angelo Linzalata |
Costumi | Giada Masi |
Coreografie | Simona Bucci |
Orchestra del Teatro Comunale di Bologna | |
Direttore Mario Angius | |
Coro del Teatro Comunale di Bologna | |
Maestro del Coro Gea Garatti Ansini |
Con un accostamento non banale, il Teatro Comunale di Bologna propone un dittico composto da due opere che non potrebbero essere più diverse: Dido and Aeneas di Henry Purcell e Die sieben Todsünden di Kurt Weill su libretto di Bertolt Brecht. Le separano due secoli e mezzo, un tempo che per il mito è un soffio e per la preveggenza di Brecht ancora meno. Le accomuna, secondo l’ideatore e regista Daniele Abbado, il forte riferimento alle città presente in entrambi i testi, Cartagine fondata da Didone e le sette città degli Stati Uniti associate ciascuna ad un peccato capitale o forse del capitale.
In Dido and Aeneas Cartagine, città magnifica fondata da una donna, va e viene sulla scena sotto forma di quattro piccole maquette, spostate da altri, coloro che vogliono la fine della regina e le scatenano addosso forze magiche per annullarla. Didone ci penserà da sé a sparire, umiliata da Enea obbligato a seguire il fato. La storia è nota e la partitura è giunta monca. Il mito, insieme assoluto e imperfetto perché ogni epoca lo percepisce con diverse sensibilità, è di per sé duttile. Bene ha fatto il direttore Marco Angius a colmare le mancanze con riflessioni postume sul mito, inserendo tre dei cinque Cori di Didone di Luigi Nono su versi di Giuseppe Ungaretti e un frammento tratto da Okanagon di Giacinto Scelsi, risalenti entrambi agli anni Sessanta del Novecento, allungando così la linea temporale che partiva dalla fine del Seicento. Ha inteso ricordare Luigi Nono nell’anno del centenario della nascita e soprattutto ha aggiunto spessore, ha chiesto a noi spettatori una riflessione in più cercando di ampliare il corpo del mito e della sua percezione.
Lo spettacolo si adatta molto bene agli spazi limitati del Comunale Nouveau, di fatto una sala da congressi. Ha una scena neutra che vive delle luci efficaci ed espressive di Angelo Linzalata, anche scenografo. La scena fissa sarà la stessa anche per Weill, una parete in cui si aprono finestre sul vuoto. Poche suppellettili e molti movimenti di ballerini felpati e rapidi nel comporsi in gruppi che suggeriscono le azioni senza prevaricare. I costumi sono essenziali e sostanzialmente atemporali.
Marco Angius guida l’orchestra con cautela, lontano dalla vulgata degli specialisti del genere, senza effetti speciali ma con attenzione alle ragioni della musica. Gli inserti di Nono e Scelsi sono strepitosi, aggiungono pathos e sorprendono. In particolare Scelsi, accompagnato da un gioco di luci perfetto, lascia il segno, così come le parole di Ungaretti che scorrono sulla scena, inscindibili dai suoni concepiti da Nono.
Danielle de Niese, Didone, è distaccata, quasi estranea alla vicenda. Il suo personaggio non è definito e neppure sfaccettato, benché vocalmente corretto. Il lamento finale scorre via indolore, eppure ce ne sarebbe. Mariam Battistelli, Belinda, è convincente per la facilità con cui entra nel personaggio. Ha un bel timbro, una linea di canto fluida e, favorita da una buona pronuncia, rende onore a testo e musica. Francesco Salvadori è Enea, bello e sciaguratamente eroico, come da contratto. Inoltre canta bene d’amore e di disamore. Appare solo per una breve aria ma è perfetto lo Spirito di Paola Valentina Molinari, reso con decisone mentre, con una soluzione scenica efficace, attraversa il palco trascinando con il piede una scia di stoffa rossa che annuncia eventi funesti. Bruno Taddia è la Maga talmente potente che sembra il dio Nettuno sul punto di scatenare gli elementi. Marco Miglietta e Andrea Giovannini sono le streghe, un po’ sgangherate ma è previsto, mentre in linea col personaggio è la Seconda donna di Patricia Daniela Fodor.
Il coro ha molta parte e la sostiene con competenza, sotto la direzione di Gea Garatti Ansini.
Die sieben Todsünden si presenta con colori sgargianti e luci del varietà, nonché con un’orchestra molto rimpolpata. Anna I, la protagonista cantante ha il suo doppio in una sorella ballerina, Anna II. Anna II sarà costretta da Anna I a rinunciare al suo lato umano per trasformarsi in una macchina da soldi tra sette città e sette peccati capitali. Lo scopo è acquistare una casetta in Lousiana in cui vivere con la famiglia, rappresentata da un quartetto di debosciati avidi e nullafacenti.
Ogni peccato e ogni città sono rappresentati da stereotipi dell’epoca: circensi, varietà, cabaret, tangueri, fonti di ispirazione per quadri brillanti, colorati, con grande spazio per le luci eclatanti di Angelo Linzalata e i costumi splendenti di Giada Masi. Le coreografie di Simona Bucci creano sorprese continue, con quadri che si compongono e sciolgono in ritmo rapido e sorprendente, in linea con la partitura che abbaglia per la quantità di invenzioni. La direzione di Marco Angius impone il tono, altissimo per tensione e tenuta. Una festa da vedere e ascoltare.
Danielle de Niese è eccellente, rappresenta la mancanza di scrupoli mascherata da buone intenzioni di chi vuole approfittare di tutto e di tutti. La sua doppiezza è formidabile, con tutte le sfumature dell’ipocrisia esposte senza cedimenti. Tiene la scena con autorità da attrice-cantante, molto convincente. Il suo doppio, la ballerina Irene Ferrara è una vittima candida e sottile, sotto il continuo ricatto del bene della famiglia. La famiglia, un quartetto di parassiti composto da Andrea Concetti, Andrea Giovannini, Nicolò Ceriani e Marco Miglietta, è esilarante. Quattro madrigalisti depravati che intonano a cappella i loro punti di vista miserabili, in gloria di Kurt Weill e della sua ironia in musica. Le loro scene sono indimenticabili.
Il pubblico, elegante in onore della prima, ha quasi riempito la sala. Ha risposto compunto a Dido and Aeneas, entusiasta a Die sieben Todsünden, con numerose chiamate finali.
La recensione si riferisce alla prima rappresentazione del 16 marzo 2024.
Daniela Goldoni