Jenůfa | Camilla Nylund |
Laca Klemeň | Stuart Skelton |
Števa Buryja | Ladislav Elgr |
Kostelnička Buryjovka | Evelyn Herlitzius |
La vecchia Buryja | Hanna Schwarz |
Stárek, il mugnaio | Jan Martinik |
Rychtar, il sindaco | David Ostrek |
Rychtářka | Natalia Skrycka |
Karolka | Evelin Novak |
Pastuchyňa | Aytaj Shikhalizada |
Barena, cameriera nel mulino | Adriane Queiroz |
Jano, pastore | Victioria Randem |
Tetka, zia | Anna Kissjudit |
Direttore | Simon Rattle |
Regia | Damiano Michieletto |
Scene | Paolo Fantin |
Costumi | Carla Teti |
Luci | Alessandro Carletti |
Coreografie | Thomas Wilhelm |
Dramaturg | Benjamin Wäntig |
Maestro del coro | Martin Wright |
Staatskapelle Berlin e Coro della Staatsoper Unter den Linden |
In modo simile a quanto era già successo per il Macbeth veneziano, per questa Jenufa che segna il suo debutto alla Staatsoper Unter den Linden di Berlino, Damiano Michieletto ha scelto di focalizzarsi su un elemento dell’opera e costruirvi attorno tutta la sua visione, rendendolo così protagonista: il ghiaccio.
Lo evocano durante tutto lo spettacolo i pannelli in plexiglass realizzati da Paolo Fantin che creano uno spazio asettico e quasi sognante grazie alle fredde luci di Alessandro Carletti; viene portato in scena per la prima volta Števa, che con un pugnale lo frantuma distruggendo simbolicamente il suo legame con Jenufa, divenendo così artefice del primo incontro fra questo elemento e la Kostelnička; ma soprattutto lo ricorda l'enorme blocco ghiacciato che a partire dal secondo atto incombe dall’alto su tutta la scena, quel carico di moralità e perbenismo messo a gravare su Jenufa dalla matrigna, e che poi le si rivolterà contro diventando il peso della sua colpa per l’omicidio del bambino; quel ghiaccio che alla fine sciogliendosi rivelerà il delitto commesso dalla Kostelnička ma anche laverà via il suo peccato.
Oltre a questo, sono pochi gli elementi presenti nel libretto utilizzati, il rosmarino, la cuffietta rossa (che qui diventa una copertina), qualche oggetto religioso, facendo comprendere come il regista veneziano voglia creare una versione quasi astratta, priva di quel realismo popolare e folkloristico che pervadono la composizione di Janàček, facendo emergere ed esaltando maggiormente l’aspetto puramente filosofico-morale del dramma. Tuttavia non mancano i momenti in cui elementi aggiunti dal regista - come ad esempio Jenufa che svolge un filo rosso, che si taglia i capelli o che distrugge la pianta di rosmarino – non solo non aiutino lo spettatore a immergersi nello spettacolo ma finiscano anche per lasciarlo un po’ confuso. Una visione in cui ogni azione e ogni gesto sono perfettamente sulla musica, coadiuvata anche da un regia televisiva molto efficace e pronta a sottolineare i dettagli salienti. La scena è completata da panche di legno che all’occasione fungono da piccolo altare con candele ed icone ma si trasformano anche in parete che sembra voler portare alla lapidazione pubblica di matrigna e figliastra dopo il ritrovamento del bambino, e da una bianca culla attorno alla quale si svolge tutta l’azione del secondo atto.
Sul palcoscenico primeggiano le due protagoniste femminili: per prima Evelyn Herlitzius che dopo decenni di repertorio pesantissimo regge senza problemi la parte della sagrestana, disegnando una Kostelnička divisa fra dovere e morale grazie ad una grande autorevolezza e incisività sia dal punto di vista vocale che scenico. Buona anche la prova di Camilla Nylund, una Jenufa dalla voce importante dal timbro luminoso che il soprano finlandese sa piegare ad abbandoni di pura innocenza senza mancare di drammaticità ove richiesto riuscendo così a ritrarre la maturazione di una ragazza che diventa vittima e infine donna. Manca un po’ di personalità in più ma era pur sempre un debutto. Più problematica la controparte maschile: Stuart Skelton è un Laca quasi bonaccione, ma alla lunga risulta monocorde e messo difficoltà dalla tessitura acuta, mentre Ladislav Elgr è uno Števa esuberante in scena ma dal canto non sufficientemente sfaccettato. Buona la prova di tutti i comprimari, in particolare di Hanna Schwarz nei panni della vecchia Burya.
Eccellente il coro preparato da Martin Wright e direzione magistrale di Simon Rattle che gestisce con irrisoria facilità una Staatskapelle Berlin che si allarga fino alla galleria. Il direttore inglese conosce benissimo il linguaggio musicale di Janáček basato sulle inflessioni della lingua parlata ceca e riesce a ottenere dall’orchestra un suono altrettanto vivo e palpitante, ricco di nervosi flussi sovrapposti ma sempre di grande trasparenza.
La recensione si riferisce alla diretta streaming di sabato 13 febbraio 2021.
Andrea Bomben