Ludwig van Beethoven | Sonata n. 28 in La maggiore, op. 101 |
Sonata n. 29 in Si bemolle maggiore, op. 106 “Hammerklavier” | |
Pianoforte | Maurizio Pollini |
Beethoven e Pollini, una lunga storia “appassionata”. Da una parte c’è infatti il genio di Bonn, di cui si celebra il duecentocinquantesimo anniversario della scomparsa; dall’altra la leggenda degli 88 tasti, che con la vittoria al Concorso Chopin di Varsavia del 1960 si impose all’attenzione del mondo musicale internazionale. Un’affinità straordinaria dunque con il repertorio beethoveniano, di cui ha ovviamente registrato l’integrale delle Sonate. Ma la sua mai paga “curiosità” lo ha portato ancora una volta ad esplorare la complessità enigmatica delle ultime Tre Sonate, che ha voluto nuovamente incidere.
E in occasione dell’imminente uscita di questo cd, Maurizio Pollini ha programmato un tour di tre date, ad iniziare da quella di Bari per il quarto appuntamento - da tempo sold out - della Stagione Concertistica 2020 del Petruzzelli. Il pianista milanese suonerà poi il 24 febbraio alla Scala e il 6 aprile a Roma, all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia - Auditorium Parco della Musica.
L’opera di Beethoven si sviluppa attorno a tre grandi blocchi: le “Trentadue sonate” per pianoforte, le “Nove sinfonie” ed i “Sedici quartetti” per archi. Senza ovviamente dimenticare i Concerti per piano e violino, il resto della musica da camera e le isolate esperienze del Fidelio e della Missa solemnis. Il programma della serata prevedeva la Sonata n. 28, in La maggiore, op. 101, e la Sonata n. 29, in Si bemolle maggiore, op. 106 “Hammerklavier”.
La Sonata n. 28 inaugura, come è noto, l’ultimo sublime periodo della sua attività creatrice. «Completata nel 1816, ma risalente nei primi abbozzi al 1813 - osserva Giorgio Pestelli - procede in buona parte dalle conquiste espressive dell'op. 90; nelle didascalie dei movimenti accanto alla tedesca ricompare la lingua italiana, ma Beethoven insiste con l'editore perché nel frontespizio appaia il nuovo termine "Hammer oder Hämmer-Klavier", oppure ancora "Hämmer-Flügel" accanto al tradizionale “Piano-Forte”». L'opera è dedicata alla baronessa Dorothea von Ertmann, sua allieva dal 1803 e grande esecutrice al pianoforte delle sue opere.
Sin dal primo movimento, Allegretto ma non troppo, che dà l’impronta all’intera sonata con i suoi due temi dal sapore onirico, si è evidenziata l’ultima evoluzione interpretativa del pianismo polliniano, il cui suono è diventato ancor più introspettivo e riflessivo rispetto alla pienezza delle precedenti prove.
E così quel rigore che ha sempre contraddistinto le sue esecuzioni, si è tramutato in un approccio di grande profondità, come in passato, ma più aperto ad un maggiore afflato emotivo. E tutto questo si è maggiormente evidenziato nella monumentale Sonata “Hammerklavier”, «nata negli anni 1817-18 - sottolinea ancora Pestelli - e pubblicata nel settembre del 1819 da Artaria a Vienna (con due intitolazioni, una francese e una tedesca dove ricompare il termine di moda "Hammer-KIavier") e pochi mesi dopo a Londra presso The Regent's Harmonic Institution. La genesi dell'op. 106 s'intreccia dunque con i primi due movimenti della Nona Sinfonia, con parte della Messa solenne e con il progetto di una Cantata in onore dell'Arciduca Rodolfo d'Asburgo (cui la Sonata è dedicata)».
Lo stesso Beethoven era consapevole della scarsa adeguatezza dei contemporanei alla novità della composizione: «eccovi una sonata - sembra abbia detto all’editore - che darà del filo da torcere ai pianisti, quando la suoneranno fra cinquant’anni».
E dura invece da sessant’anni la riflessione di Pollini su questo brano, eseguito con un tempo, quasi record per lo stesso pianista, di quaranta minuti. Ed è chiaro che questa velocità, con diverse note sbagliate, non ha sempre permesso una chiara percezione del discorso musicale, in particolar modo nell’irruente ed impervio Allegro iniziale e nella complicatissima fuga finale. Ma proprio questo suo modo di rischiare - grazie ad un’agilità comunque sorprendente - e di non fermarsi alla superficie di una esecuzione prudente e pulita, ha fatto finalmente comprendere appieno l’immagine “demoniaca” di Beethoven. Stemperata però nell’emozionante interpretazione dell’Adagio, uno dei movimenti lenti più belli mai scritti, riproposto come primo bis a cui ha fatto seguito la “Bagatelle” op. 126 n. 3, suonata con altrettanta ispirata bravura.
Alla fine molti e calorosissimi applausi.
La recensione si riferisce alla serata del 10 febbraio 2020
Eraldo Martucci