Simone Librale | Pianoforte Fazioli |
Charles Ives | Sonata n. 2 per pianoforte Concord, Mass., 1840-1860 |
Ludwig van Beethoven Franz Liszt |
Sinfonia n. 5 in do minore Versione per pianoforte solo |
Label | Aulicus Classics |
Release | Marzo 2025 |
Catalogue number | ALC 0137 |
Format | 1 CD audio |
Simone Librale ha, ci dicono, ventotto anni. Diplomatosi in pianoforte all’ISSM “Pietro Mascagni” di Livorno con il maestro Daniel Rivera, s’è perfezionato con Emanuele Arciuli all’Accademia di Pinerolo e con Maurizio Baglini. Le composizioni che ha scelto per il suo primo CD, apparso un paio di mesi fa, non potrebbero essere state piú impegnative: la monumentale Concord sonata di Charles Ives e la versione per pianoforte solo, firmata Franz Liszt, della Quinta sinfonia di Beethoven.
Il CD è accompagnato da un’articolata intervista condotta dallo stesso Baglini, nella quale si parla anche della profonda differenza tra la registrazione “in istudio” e quella “dal vivo” («senza editing», precisa opportunamente Librale). La prima, secondo il giovane artista, ha lo scopo principale di lasciare testimonianza ai posteri del modo in cui un interprete e il mondo in cui egli viveva hanno “visto” un’opera musicale; la seconda testimonia invece l’interazione che s’è creata, in una particolare occasione, tra esecutore e pubblico. Non è, insomma, questione di maggiore o minore precisione esecutiva, di possibilità di correggere o "rifare" dopo essersi ascoltato, ma d’intenzioni interpretative intrinsecamente diverse. Tempo fa, ad esempio, Librale ha eseguito la Concord sonata alla Cappella Paolina del Quirinale, ma l’approccio per il CD è stato influenzato anche dall’assenza del pubblico, per il quale durante un concerto è impossibile, come per l’artista, fermarsi o tornare indietro per risentire quel che è successo.
Che cosa lega i due grandiosi pezzi uniti in questo CD? Il celeberrimo motto iniziale della Quinta sinfonia è citato piú volte in tutti e quattro i movimenti della Concord sonata, anche se non compare mai alla lettera nelle forme usate da Beethoven. Ives, leggiamo, avrebbe preso le mosse dall’immagine, per noi ormai molto abusata, del “destino che bussa alla porta” per significare quella dell’“uomo che bussa ai misteri della trascendenza per comprenderne il significato”. Non ci addentreremo, qui, nel significato attribuito dall’autore alla musica che andava scrivendo associandola ai nomi piú noti dei pensatori che via via si riunirono, tra il 1840 e il 1860, nella cittadina di Concord nel Massachusetts, a nord est di Boston, e diedero vita a quella corrente filosofica che prese appunto il nome di trascendentalismo, ma ci limiteremo a ricordare che Ives considerava incomprensibile la propria musica senza la lettura dei suoi Essays before a Sonata (circa centocinquanta pagine), e viceversa. Ebbe anche a dire, piú semplicemente, che la musica del primo, secondo e quarto movimento (nel loro insieme, circa quaranta minuti) era nata dalle impressioni che su di lui esercitavano le tre figure, che di persona non conobbe, di Ralph Emerson, Nathaniel Hawthorne (il narratore della famosa Scarlet letter) e Henry Thoreau (i loro cognomi sono anche i titoli di questi movimenti). The Alcotts, in terza posizione, è una sorta d’intermezzo brahmsiano che allude al clima filantropico di pedagogia innovativa e di riformismo sociale che si respirava nella famiglia di Amos Bronson Alcott e di sua figlia Louisa, l’autrice di Little women.
(Oggi possiamo osservare, a latere, che mentre Thoreau e Hawthorne morirono già durante la Civil War e quindi non toccarono con mano la fine della speranza di veder convergere libertà personali, rispetto della natura, convinzione della propria immortalità spirituale, quasi-uguaglianza delle cosiddette “razze” e “sviluppo” economico, la vita di Ralph Emerson e Bronson Alcott giunse invece ben addentro gli anni Ottocento ottanta, quando rimaneva ormai ben poco spazio per illudersi della compatibilità di tutte queste bellissime cose. — La nostra sfiducia nel “sogno americano” e nelle “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità è stata sempre aiutata dalla battutaccia di Massimo d’Azeglio: in quegli anni, lo zar Alessandro II aveva liberato i propri schiavi, e Abramo Lincoln quelli… degli altri.)
Il primo, e piú ampio movimento (tra i sedici e i diciotto minuti) della Concord sonata è anche il piú problematico dal punto di vista strettamente musicale. Elliott Carter, compositore newyorkese trentaquattro anni piú giovane di Ives, ebbe a scrivere, dopo avere parlato del pezzo con l’autore, che questi “said that he intended to give only a general indication to the pianist, who should, in his turn, recreate the work for himself”.E Carter continua: “the notation of a work is only the basis for further improvisation, and the notation itself... is a kind of snapshot of the way he played it at a certain period in his life… Every time he [Ives]played it [the Concord sonata], he did something different, sometimes changing the harmonies, the dynamic scheme, the degree of dissonance, the pace”: la musica, o perlomeno l'esecuzione musicale come ripensamento delle figure e della filosofia di pensatori considerati archetipici, quindi variabile ogni volta in pubblico, ma immutabilmente fissata, ben piú che dalla partitura, da una registrazione “in istudio”.
Ben al di là delle esigenze poste dell’enorme difficoltà strumentale, è quindi evidente che realizzare questa sonata implica anche districarsi in una notazione almeno in parte ambigua. In accordo con le sue dichiarazioni, le scelte di Librale possono essere intese come lo specchio del modo in cui un Italiano nato negli ultimi anni dello scorso millennio si pone in rapporto con il mondo sonoro immaginato da Ives immediatamente prima e durante la grande frattura rappresentata da World War I. L’approccio ci è sembrato notevolmente “serioso”, senza concessioni a quel mondo di festività, sia pure tinte di puritanesimo e imperialismo, che appaiono evidenti e magnetiche in non pochi pezzi sinfonici di Ives. Il nostro pianista riesce molto bene a mantenere unitario e sempre interessante il discorso del primo (Emerson) e del quarto (Thoreau) movimento della Concord Sonata, il cui decorso si può, in modo sbrigativo, definire “rapsodico”, senza che appaia mai percepibile alcuno sforzo per dominare tecnicamente il suo impegno, e senza che egli rinunzi mai all’affascinante varietà timbrica offertagli dal pianoforte Fazioli.
Il secondo movimento (Hawthorne) è ispirato da chi fu un vigoroso narratore oltre che filosofo e crediamo avesse anche per Ives contorni meglio definiti che non Emerson o Thoreau. Esso ha la funzione d’un ampio Scherzo, e la concitata drammaticità della sua vicenda trova qualche pausa solo nelle ripetute citazioni del corale di pellegrini «Jesus, lover of my soul». A differenza d’altri esecutori, che sottolineano con ammiccamenti pervasi d’ironia quasi francese i ritmi popolareschi e di marcia, per non dire i ricorrenti ostinato di probabile origine ferroviaria, Librale non alleggerisce mai la tensione, diremmo il “tono retorico alto” di queste pagine.
La prima vera sosta nell’incalzare quasi magmatico della fantasia musicale dell’autore, l’unica "distrazione" dall’assunto cosmico della sonata va quindi attesa sino a The Alcotts, ossia per circa mezz’ora dall’inizio. Questo “problema narrativo” diviene secondario in una registrazione “in istudio”, e d’altra parte è noto che per un quasi ventennio dopo la prima pubblicazione, nel 1920, l’opera fu eseguita solo a movimenti separati, spesso inframmezzati da letture: un modo di fruirla che in parte può essere ricreato dall’ascolto, appunto, d’una registrazione. Non sappiamo se e come Librale abbia affrontato e risolto questo aspetto nel “Concerto del Quirinale” a cui abbiamo accennato prima, ma ci auguriamo di poter ascoltare anche una sua esecuzione “dal vivo” della Concord sonata, o di trovarne il documento sonoro. Per chiudere questa prima parte della recensione, diciamo senz’esitare che già la prima parte del CD basta per imporre all’attenzione l’esordio discografico del giovane pianista, e ripagare ogni attesa. Ma, a metà strada, possiamo anche aggiungere che “il bello deve ancora arrivare”.
“Bello” come musica non c’è dubbio, poiché si tratta della Quinta sinfonia di Beethoven, ri-composta, come anche le altre otto, da Franz Liszt per le due mani d’un pianista, e prima che per esse per la sua testa. L’esecuzione di questi pezzi richiede autentici “virtuosi” della tastiera, e non sappiamo quanto abbiano contribuito alla divulgazione di Beethoven, presumibilmente molto meno delle piú banali "riduzioni a quattro mani" accostabili dai buoni dilettanti dei tempi andati. Crediamo abbia quindi che tutt’altro scopo abbia avuto il lavoro piú che ventennale di Liszt su Beethoven, del quale omise, come dichiarò egli stesso, solo pochissime note (lavoro doppio per la Nona, ri-composta inizialmente per due pianoforti). Nel gennaio del 2022, Maurizio Baglini, di cui Simone Librale è allievo, realizzò a Pordenone una “maratona” domenicale Beethoven-Liszt, in cui dieci pianisti eseguirono le versioni pianistiche delle nove sinfonie (dell’ultima, quella per due strumenti): ricordiamo quella giornata come ben piú esaltante che faticosa: paradossalmente, la struttura polifonica di gran parte di queste composizioni ci sembrò riuscire meglio fruibile nel bianco e nero del pianoforte (la stessa sensazione avemmo, molti anni fa, dall’esecuzione, in un loft di Milano, del Concerto in re minore di Brahms ridotto dall’autore per quattro mani, e abbiamo dalla registrazione della Decima sinfonia di Šostakovič da lui stesso ridotta e sonata insieme all’amico Weinberg). Negli ultimi decenni, alcuni pianisti si sono cimentati nell’integrale discografica di questi lavori lisztiani e quindi i termini di paragone non mancano, né sul versante virtuosistico, né su quello interpretativo.
La Quinta sinfonia fu a lungo considerata il capolavoro di Beethoven perché inimitabile costruzione «di un intero poema» partendo da un motivo di quattro note, privo di qualsiasi carattere definibile “melodia” e ben piú simile a un semplice “gesto” introduttivo. La ri-composizione di Liszt richiede ai pianisti una straordinaria varietà timbrica e dinamica, e consente, a quelli eccellenti, una libertà agogica, ossia il changing the pace osservato da Elliott Carter nelle esecuzioni di Ives, che fu a lungo tipica delle esecuzioni di questa sinfonia, ma che oggi solo pochi direttori d’orchestra riescono a permettersi. Il nostro pianista afferra l’ascoltatore con l’esposizione perentoria delle cinque battute iniziali e per quasi trentacinque minuti non lo molla un attimo. L’incredibile vicenda armonico-ritmica del primo Allegro con brio sfocia nell’ampio Andante con moto a costituire una “prima parte” dell’opera, anche grazie alle durate quasi identiche del primo e terzo movimento e del secondo e quarto. Liszt, che sarà considerato, con la sua Sonata in si minore, l’inventore della double function form, ossia della capacità di trattare le parti d’un pezzo ampio sia come intrinsecamente indipendenti, sia come parti di un’unità piú complessa, potrebbe averne ravvisato l’origine proprio in questa sinfonia, o perlomeno non ci si può sottrarre a quest’impressione ascoltandola dalle mani (e, ripetiamo, dalla testa) di Librale.
Per lodare un’esecuzione si dice spesso “stasera ho sentito nel pezzo delle cose che non avevo mai sentito”. In questo caso si potrebbe dire: ho visto in una luce diversa dei particolari che hanno assunto una nuova coesione interna e hanno costituito nel loro insieme un’unità prima insospettabile. Sarebbe lungo ricordare tutti i passi in cui emergono la potenza interpretativa del pianista e lo splendore del suono con il quale non lascia mai rimpiangere l’originale per orchestra. Non raramente, come ad esempio nella straordinaria chiarezza del fugato di contrabbassi e violoncelli del terzo movimento o nelle “sventagliate” dell’ottavino nel Finale (piú efficaci e, diciamo pure, piú gradevoli di quel che si sente di solito), Librale ci sembra anzi realizzare in modo piú consono alle presumibili intenzioni di Beethoven quello che non sempre l’orchestra consente. Ma la ricchissima tavolozza timbrica e la capacità sovrana di sfruttare musicalmente le proprietà del grande Fazioli su cui suona non spingono mai in secondo piano la serratezza strutturale della composizione. Arrischio un’iperbole: ascoltare quest’esecuzione rinnova a fondo la conoscenza che si aveva della Quinta sinfonia.
Vittorio Mascherpa