Tenore | Jonas Kaufmann |
Baritono | Ludovic Tézier |
Direttore | Antonio Pappano |
La Bohème | In un coupé? O Mimì tu più non torni |
La Gioconda | Enzo Grimaldo, Principe di Santafior |
Les Véspres Siciliennes |
Quel est ton nom?_Punis mon audace_Téméraire! Je n'en puis revenir_ Quand ma bontè_ Comble de misère |
Don Carlos | Dieu, tu semas dans nos ames |
La forza del destino |
Solenne in quest'ore Nè gustare m'è dato un'ora di quiete Invano Alvaro_Le minacce, i fieri accenti |
Otello | Tu, indietro, fuggi_Era la notte_Sì, pel ciel marmoreo giuro |
Orchestra dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia |
Il disco dell’anno doveva essere, e il disco dell’anno si è rivelato: senza “se” e senza “ma”: dopo Bjorling e Merrill, dopo Domingo e Milnes, tocca a Jonas Kaufmann e a Ludovic Tézier firmare un’altra pagina da ricordare nella discografia dei duetti tra tenore e baritono, attraverso un album che regala non solo un’ora e mezzo di puro divertimento all’appassionato mediamente esperto, ma anche diversi spunti di riflessione all’orecchio dell’ascoltatore più raffinato.
Volendo individuare una chiave di lettura in grado di descrivere il fil rouge che tiene insieme le varie tracce del disco, questa chiave di lettura potrebbe essere rinvenuta nella “forza del pensiero”: la forza del pensiero intesa come la capacità di Kaufmann e Tézier di proporre esecuzioni ben meditate sul piano interpretativo, prima ancora che pregevoli dal punto di vista vocale; la forza del pensiero descritta come la tendenza a scandagliare il significato di ogni parola per metterla a disposizione della musica, descrivendo così quasi plasticamente le oscillazioni psicologiche dei personaggi. La forza del pensiero: appannaggio esclusivo dei fuoriclasse del melodramma.
Sui difetti di Kaufmann molto si è detto, e molto (forse troppo) si è scritto: acuti spesso fibrosi e poco squillanti, dizione talvolta imperfetta, nasalità fastidiose. Difetti che a tratti ritornano nell’ascolto di questo album (specie nei passaggi più acuti del duetto di Gioconda e de “Le minacce, i fieri accenti”), ma che spariscono letteralmente dinanzi al finissimo fraseggio, alla capacità di giocare con i colori, all’uso dei pianissimi attraverso cui il tenore bavarese cesella un Don Alvaro lacerato da una dolorosa introspezione tra rimorso e speranze tradite; un Rodolfo in perenne tensione tra scanzonata ironia e malinconico struggimento; un Enzo Grimaldo innamorato e ardimentoso; un Arrigo nobile e idealista; un Don Carlos piagato dal conflitto tra ragion di Stato e ragioni del cuore; un Otello schiantato e furioso.
Del pari, la prova di Tézier sembra quasi voler offrire l’ennesima smentita alle posizioni di quanti lo descrivono come un vocalista superbo, ma come un interprete poco sensibile. La linea di canto sempre perfetta, il timbro magnificamente brunito, gli acuti solidi e le mezze voci autentiche sono da vero “numero uno”; il senso della frase, la capacità di scavare tra le pieghe dei personaggi per descriverne aspirazioni e turbamenti trovano pochi eguali nell’attuale panorama baritonale. In questo senso, il “sogno” di Jago, eseguito a fior di labbra come un autentico dolce al veleno, è la summa delle qualità del marsigliese, capace di proporre un canto finissimo, mellifluo, insinuante che sembra accarezzare i sospetti del Moro per accompagnarlo, quasi con gentilezza, verso gli eccessi della follia.
Non meno rilevanti si rivelano la mutazione di Guido di Monforte da tiranno protervo in padre accorato; la struggente autocommiserazione di Marcello; il fervore ideale dell’ormai collaudatissimo Rodrigo di Posa; la furia controllata di Don Carlo di Vargas e soprattutto la satanica perfidia di Barnaba: la frase “buona fortuna”, intrisa di sinistra e inquietante ironia, strappa un brivido anche all’ascoltatore più distaccato.
La sontuosa direzione di Antonio Pappano, alla guida dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, conferisce ulteriore pregio al disco dell’anno: sorretto dalla forza del pensiero di due fuoriclasse del melodramma.
Carlo Dore jr.