Pianoforte | Giuseppe Rossi |
(nel primo brano con Elisa Viscarelli) | |
Ludwig van Beethoven | Grande Fuga op. 134 |
Sonata op. 106 "Hammerklavier" |
Anton Halm, chi era costui? Eppure è passato alla storia della musica, anche se non per le proprie doti di pianista-compositore-docente (era austriaco, nato nel 1789), almeno per aver trascritto inutilmente per pianoforte a quattro mani la Grande Fuga op. 133 di Ludwig van Beethoven.
L'autore l'aveva destinata ad essere l'ultimo movimento del Quartetto in la minore n. 13 op. 130, ma dal momento che l'imponente pagina, dalla forma assai complessa, risultava molto difficile per gli esecutori nonché estremamente ardua all'ascolto per il pubblico di allora, decise di sostituirla con un movimento più “tranquillo” e forse anche più in consonanza con il resto della composizione. La Grande Fuga in si bemolle maggiore, esemplare del cosiddetto “ultimo periodo” beethoveniano, apparve subito strana e difficile sia al pubblico che alla critica coeva: si leggono fra le recensioni dell'epoca espressioni come “autentico orrore” o “pagina ripugnante”, ma le sue fortune (siamo negli anni 1825-26) sono ancora lontane.
Col tempo si assisterà infatti ad un autentico capovolgimento nella considerazione critica della pagina, che finì per essere considerata da alcuni musicisti del XX secolo come una delle più importanti del catalogo beethoveniano, e fra quelle esemplari del cosiddetto “ultimo periodo”.
Nell'attuale prassi concertistica da camera la Grande Fuga viene quasi sempre eseguita da sola, viste le sue caratteristiche così avulse dal resto del Quartetto op. 130; qualche volta invece vengono eseguiti entrambi i movimenti, sia la Fuga che il tempo sostitutivo. Si tratta di una pagina che, se mi è permessa una notazione personale, mi si presentò come una autentica rivelazione in un lontanissimo concerto del Quartetto Italiano nell'anno beethoveniano 1970.
È noto il lungimirante giudizio di Igor Stravinsky sulla composizione: ”Il perfetto miracolo di tutta la musica. Senza essere datata, né storicamente connotata entro i confini stilistici dell'epoca in cui fu composta, è una composizione più sapiente e più raffinata di qualsiasi musica ideata durante il mio secolo. Musica contemporanea che rimarrà contemporanea per sempre”.
Il buon Anton Halm partorì quindi una trascrizione per pianoforte a quattro mani ma non soddisfece affatto Beethoven, il quale decise di farne una lui stesso. Il manoscritto originale beethoveniano si perdé nei meandri della storia e non se ne è trovata più traccia fino al 2005, quando (era stato rinvenuto in una biblioteca della Pennsylvania) fu messo all'asta da Sotheby's.
Chiedo scusa per il lungo preambolo, ma sto per arrivare al CD del pianista Giuseppe Rossi (che qui suona con Elisa Viscarelli) che stiamo recensendo e che contiene la pagina in questione. L'effetto che la trascrizione (o forse sarebbe opportuno chiamarla “rielaborazione concertistica”) fa ad un ascoltatore di oggi che ha nelle orecchie la versione per quartetto d'archi è abbastanza spiazzante, un po' come la versione pianistica beethoveniana (che la fece su invito addirittura di Muzio Clementi!) del proprio Concerto per violino op. 61: sembra sempre o che “manchi qualcosa”, o che vi sia sempre nelle note un che di “falso”.
In realtà il ripetuto ascolto della pagina (non conoscevo la trascrizione a quattro mani della Grande Fuga) permette di entrare “fra le note” della composizione e notarne sottigliezze e peculiarità, e ciò nonostante la scrittura tipicamente quartettistica (e soprattutto legata alla tecnica violinistica) dell'originale, pure se inevitabilmente modificata da Beethoven per renderla eseguibile su tastiera.
La sensazione che prima ho chiamato “mancanza di qualcosa” sparisce all'ascolto di questo CD lasciando spazio a quella, assai più interessante, che l'autore ci voglia chiarire, a suo modo, le idee sull'originale per quartetto ed indicarne anche vie di esecuzione: non dimentichiamo che all'epoca Beethoven era ormai completamente sordo e quindi incapace di ascoltare un'esecuzione musicale di altri, mentre il pianoforte era il “suo” strumento, sul quale poteva anche trovare soluzioni o addirittura suggerire idee.
Giuseppe Rossi ed Elisa Viscarelli affrontano la pagina con vivacità e slancio, con grande attenzione all'alternanza dei piani sonori e alla scrittura beethoveniana, a tratti di densità quasi sinfonica. L'esecuzione appare convincente e ben delineata, di grande interesse per l'ascoltatore è il seguire le varie linee musicali intersecantisi e che magari in una esecuzione quartettistica, vista la affinità di colore per i quattro archi coinvolti, passano un po' in sottordine.
Come si vede dalla locandina il CD che stiamo recensendo presenta un programma di esemplare compattezza, in quanto si prosegue con una celeberrima pagina beethoveniana accomunata alla Grande Fuga dalla tonalità di si bemolle maggiore e dalla comune dedica all'Arciduca Rodolfo, la Sonata op. 106 “Hammerklavier” (che - tra l'altro - contiene anch'essa nell'ultimo movimento una fuga), banco di prova di tutti i pianisti e testo quasi mitico facente parte delle cosiddette “ultime sonate” del Maestro di Bonn.
Opera di immensa complessità formale e concettuale, sembra ricevere nel terzo movimento (Adagio sostenuto) le cure più affettuose del giovane Giuseppe Rossi, con una bella ricerca timbrica, suono accurato ed interessanti dinamiche. Lievemente più prevedibili gli altri movimenti, tra i quali si deve notare l'ultimo difficile tempo (Largo. Allegro. Fuga.) davvero ben delineato con i suoi slanci anticipatori (nonostante sia una delle ultime sonate pianistiche di Beethoven, risale appena agli anni 1818-1819).
Dire qualcosa di nuovo in un autore come Beethoven è pressoché impossibile, e nessuno pretende tanto. Ciononostante il giovane Giuseppe Rossi si presenta piuttosto bene al suo esordio discografico, con un interessante ed abbastanza maturo modo di suonare e belle idee interpretative che siamo sicuri si svilupperanno negli anni.
Ottima la registrazione, booklet del CD purtroppo solo in inglese, l'etichetta è la italo-giapponese Da Vinci Classics.
Fabio Bardelli