Walter Le Moli, direttore del Teatro Stabile di Torino dal 2002, una delle principali fondazioni teatrali italiane, è in questi ultimi anni sempre più interessato, direi irresistibilmente attratto dal mondo della musica. Oltre a curare allestimenti operistici in prima persona (ricordo un Console di Menotti di grande impatto emotivo, asciutto, diretto, fulminante al Teatro Regio di Torino un paio di stagioni fa) Le Moli dirige il corso di laurea specialistica in Scienze e Tecniche del Teatro presso lo IUAV di Venezia, all’interno della Facoltà diDesign e Arti che ha instaurato una fattiva collaborazione con il Teatro La Fenice in un progetto di riscoperta e rivalutazione di capolavori del teatro musicale barocco. Lo incontriamo in un assolato, ma freddo pomeriggio d’autunno nel capoluogo piemontese. L’appuntamento è al Teatro Astra.
Perché proprio il Barocco?
In realtà il progetto con La Fenice iniziò con un Attila di Verdi che ebbe molti consensi e fu portato in tournée addirittura in Giappone. Fu poi Carlo Majer, anche lui docente allo IUAV, ad aver un’intuizione a più ampio respiro: Venezia e il Barocco, un’accoppiata decisamente naturale! A Venezia poi c’è un teatro, il Malibran, particolarmente adatto alla musica antica, che non aveva una destinazione specifica dopo la riapertura della Fenice. Infine l’incontro con Fabio Biondi e L’Europa Galante ha fatto il resto…
Dopo questo breve aggancio con l’attualità –a Venezia sono appena andate in scena L’Ercole sul Termodonte e il Bajazet due opere vivaldiane il cui allestimento è stato curato proprio dagli studenti dello IUAV (l’anno scorso il percorso era iniziato con la Didone di Francesco Cavalli, spettacolo che verrà ripreso dal Teatro alla Scala in coda alla prossima stagione)– iniziamo la nostra conversazione sulle tematiche che mi interessa maggiormente sviscerare.
Quando e perché un regista teatrale sente il bisogno di confrontarsi con il teatro musicale?
In assoluto non posso rispondere (il clima della conversazione è molto cordiale e un sorriso serve a rompere il ghiaccio). Per quanto mi riguarda il rapporto con la musica c’è sempre stato. In teatro tutti ricorrono alle musiche di scena. Solitamente però viene usata musica “registrata” il che le fa perdere in concretezza, in materialità e questo costringe, e qui il principio è molto romantico, ad una recitazione che è sognata, quasi immaginaria, irreale. Quando metti i musicisti in scena cambia tutto. Tu vedi la fonte del suono! Senti da dove proviene realmente. E’ stato un lungo percorso che a poco a poco mi ha portato a inserire musicisti “viventi” e non “riprodotti”. Una ventina d’anni fa l’incontro con Biondi con il Marat-Sade di Weiss costituì il mio primo tentativo di mettere insieme parole, musica, recitazione, non ancora il canto, con degli attori. Una disciplina assoluta…
…i tempi della propria esistenza dettati dalla durata musicale…
Proprio così! Tutto il testo era costruito sulle Quattro Stagioni di Vivaldi. Avevano solo quello spazio di esistenza e di espressione…
…e poi è arrivata l’opera.
Esattamente.
Lei si trova “costretto” nella struttura musicale di un’opera?
Assolutamente no. Per me anzi è di una libertà assoluta. Ma non bisogna pensare alla libertà di fare quello che si vuole quando si vuole e che fra l’altro non è nelle mie corde. Prima di tutto cerco di capire cosa voleva l’autore, che cosa pensava, mi documento sulla sua epoca sforzandomi di individuare cosa resta indissolubilmente legato al suo tempo e cosa invece si proietta sul nostro. Quando un attore di prosa deve esprimere la propria interiorità in relazione al mondo esteriore si rischia di cadere nel teatro psicologico che io, tra l’altro, non amo moltissimo, o nel realismo o peggio ancora nel naturalismo. Col teatro musicale questo problema non sussiste. E’ inverosimile che uno possa morire cantando! Posso così focalizzare l’attenzione sulla recitazione, all’interno di una struttura peculiarmente musicale che esprime già sentimenti, stati d’animo, emozioni. Per me, ripeto, si tratta di una grandissima libertà sempre con l’accortezza primaria di non pensare in termini verbali, ma prettamente musicali.
Il suo approccio con una nuova opera da allestire?
Le mie conoscenze musicali purtroppo sono limitate, ma non per questo io mi tiro indietro. Voglio, devo imparare a memoria “tutto” quello che riguarda la musica, lasciando da parte per un momento il testo. Le mie reazioni ad un certo punto devono essere basate solo sul fraseggio musicale. E questo approccio me lo ritrovo a buon diritto anche nel campo della prosa.
“Opera” e “Prosa” si alimentano vicendevolmente allora…
… e gli attori qui lo sanno! Io aborro la perdita di musicalità nel teatro. Guardi che la cacofonia fra le voci è insopportabile anche nel teatro di prosa! E poi con una lingua musicale come la nostra… Non riesco a pensare di esprimere un significato se alla base non c’è una struttura musicale. “Devono capirvi anche se non comprendono l’italiano!” dico agli attori, ma senza ricorrere alla gestualità, solo operando sulla musicalità della battuta, sulla modulazione della voce. Il teatro a-sonoro non riesco proprio a concepirlo…
Come si pone nei confronti del direttore d’orchestra e dei cantanti nella preparazione di uno spettacolo?
Mah…io mi metto al loro servizio. Penso anzi che si possa fare solo così. Non vedo molte alternative. E’ un lavoro di squadra il nostro.
Quindi le prove musicali prima di tutto…
E’ il modo più diretto di conoscere i compagni di viaggio, di apprendere le idee musicali del direttore con il quale poi naturalmente si costruisce insieme. E’ proprio durante le prove che i cantanti rivelano il loro potenziale drammatico. E’ lì che nasce il personaggio. Posso avere anche idee precostituite, ma è solo calandole sui protagonisti che possono diventare concrete. E questo mi permette di andare più a fondo nell’”interpretazione” abbandonando l’idea più superficiale di “esecuzione”.
Se ho ben capito l’idea deve essere testata sul campo.
Ho un perimetro dal quale comunque non si può uscire, ma è pur sempre un perimetro.
E il regista può essere considerato un “autore”?
Sì, probabilmente sì. Ma se è un autore puro allora dovrebbe anche “scrivere”. Siccome è invece un anello di una lunga catena, il regista deve apprendere prioritariamente tutti i passaggi, nessuno escluso, approfondendone le specificità. La regia nei confronti di un’opera o di una pièce teatrale può fare molto: può arricchire, rimarcare, rinnovare… Ma quando vado a teatro non vado a vedere il regista! Se questo principio basilare diventa secondario allora... Non condivido l’idea del genio che stravolge per stravolgere. Se mi metto di fronte ad un Mozart-Da Ponte è un po’ presuntuoso pensare di saperne di più! Io vorrei innanzitutto afferrare i loro pensieri, le loro intenzioni. Trovo molto stimolante apprendere “lavorando” e non è una sorta di umiltà compiacente, ma soprattutto curiosità, curiosità scientifica direi.
La polemica che tanto appassiona oggi, regia tradizionale o regia moderna, parte allora da una prospettiva sbagliata…
La parola giusta è “rispetto”. Se manca.... Uno sberleffo fine a se stesso non è accettabile. Giù in teatro (ci troviamo ai piani alti, in sala prove) stiamo lavorando su una pièce del primo Seicento inglese…
…e non c’era la “quarta parete”…
…appunto! La regia è nata proprio perché il meccanismo era ormai logoro, esausto. Gli attori si portavano i loro costumi. Ognuno recitava un “tipo”. Insomma sempre la medesima solfa. Stanislavskij impone una coerenza fra personaggi, epoca, con l’aggiunta non indifferente della psicologia. L’introduzione della “quarta parete” era un sistema per incuriosire il pubblico, attrarlo, costringerlo a star attento. Dopo però questa “quarta parete” è diventata di cemento. Oggi siamo nella condizione in cui dobbiamo riaprirla! Ha dato tutto quello che poteva e oggi finisce per fare da “isolante”. Chiaramente non applicherei il metodo “senza quarta parete” ad un testo del Novecento poiché gli è peculiare. Il teatro barocco invece non la immaginava neanche lontanamente e una recitazione senza psicologismi appare oggi come una ventata d’aria fresca. Gli stessi attori sono sorpresi e perfino i cantanti. A furia di ricevere critiche del tipo “Muoviti sul palco, girati, non guardare il direttore” anche loro si sono messi a cantare come se fossimo al cinema… ma la camera non c’è e molto spesso certe situazioni, mi vengono in mente ad esempio i “da capo”, a pare mio non funzionano se si mostra chiusura nei confronti del pubblico…
…e lo spettatore finisce per essere un intruso!
Penso che il filone si sia davvero esaurito. Il teatro è diventato sempre più cinematografico. Però cinema non è…
…ma il pubblico forse lo ricerca…
…e lo si può accontentare curando la recitazione. Essere poi precisissimi nei dettagli recupera in un certo qual modo il linguaggio cinematografico.
Lo spettatore allora dovrebbe partecipare “attivamente” all’evento teatrale…
…e riempire con la propria fantasia, con le proprio esperienze e il proprio bagaglio culturale tutti quegli spazi che gli sono lasciati liberi….
Ma c’è un tipo di pubblico che vive serenamente un approccio “passivo”…
…e vuole essere rassicurato. “Ditemi che non è cambiato niente!”…
…pretendendo dal teatro conferme e conforto. In questo senso le attualizzazioni non vengono viste di buon occhio. Lei che ne pensa?
Penso che sia possibile attualizzare, ma penso anche che questa sia “una” delle possibilità, ma non l’unica. Vanno bene gli aerei al posto delle navi…
…o le cyclettes che Peter Konwitschny ha collocato al posto della filanda nel suo Hollaender! (recensione OperaClick)
Penso che l’attualizzazione è da cercare all’interno dell’opera. Non è necessario che tu ti metta il peplo, ma neanche che indossi la tuta mimetica! Sono due estremi che oggi mi sembrano un po’ anacronistici. Bisogna invece scavare il testo e cercare il modo di far arrivare al pubblico il messaggio nascosto. E’ certo un lavoro più difficile, ma anche più stimolante. E’ troppo facile dire “I padroni nell’Ottocento sono uguali ai capitalisti di oggi”. Ma in mezzo c’è stato un percorso ben più complesso. Che bisogno si ha di ammodernare quando si assimilano questi concetti? Anzi adoperando un costume d’epoca metto in azione un meccanismo brechtiano e costringo così il pubblico a divertirsi dicendo “Sai che è ancora così?”
Uno straniamento al quadrato!
Esattamente. Bisogna studiare e lavorare di più e soprattutto economizzare sulle cose da fare concentrandosi su una o due al massimo.
The Consul di Menotti, ma anche la Didone di Cavalli penso che illustrino molto bene il suo pensiero: emozioni dirette, ma taglienti pur in una visione globale semplice e naturale.
Walter Le Moli è un instancabile lavoratore. Sempre “in prova” -riuscire a stanarlo per questa intervista non è stata impresa facile- mostra davvero di amare il teatro e la musica. Ogni sua considerazione, ogni sua valutazione, soppesata con ponderatezza ed espressa con serenità, pacatezza ci restituisce un uomo dalla idee chiare, di intelligenza arguta e non ultimo un abile conversatore
Ora le faccio una domanda che può sembrare provocatoria, ma visti i tempi che corrono è dovuta: tra un cantante bravo ma poco dotato scenicamente e uno di forte presenza ma con una vocalità mediocre chi butta giù dalla torre?
Senz’altro quello che non sa cantare! Se non fosse così sarebbe la fine dell’opera! Quello della presenza scenica, della recitazione è un problema del regista, cioè “mio”. Solo io lo posso e lo devo risolvere. E’ pur vero che a parità di prestazioni vocali il physique du rôle alla fine potrebbe prevalere. Ma solo a parità… Sarebbe decisamente rischioso scegliere l’estetica piuttosto che la sostanza.
Allora lei non ha un pre-concetto di come dovrà essere il personaggio…
Io amo definirmi “un sarto”. Cucire un abito su misura per me è un piacere, mai una sofferenza.
Lei, mi pare di aver capito, non farebbe mai cantare un tenore con la testa in giù o in altre situazioni improbabili.
Non sono mica matto! Se il direttore mi segnala la difficoltà di un’aria piuttosto che di un concertato stia pur tranquillo che i miei cantanti riusciranno sempre a vedere la bacchetta. No! Penso proprio che oggi qualcuno abbia perso la bussola. E’ folle, non trovo altri termini, mettere a repentaglio la vita dei cantanti!
In questi giorni a Torino sta andando in scena Falstaff con la regia di Pier Luigi Pizzi. I suoi allestimenti hanno indubbiamente una cifra comune. Quali sono gli elementi che rendono riconoscibili gli spettacoli di Walter Le Moli?
Non ce ne sono. In questo mi sento un po’ uno Zelig. A me piace adeguarmi all’autore, alla committenza e naturalmente agli interpreti che si hanno a disposizione. Peter Brook sosteneva che lo “stile” è la morte del teatro. Ma questo non è solo un problema dei registi teatrali. E’ un problema della nostra epoca! Faccio un esempio: il Novecento, come dicevamo in precedenza, ha scoperto la “quarta parete”, ma che senso ha applicarla al teatro del Cinquecento, su Machiavelli, ovunque. Perché?! Bisogna tenere viva la curiosità e non lasciarsi condizionare da uno stile da spalmare sempre e comunque.
Non sarà che oggi va di moda la griffe?
Può essere. Un marchio di fabbrica!... ma io amo talmente il mio lavoro che vivo ancora l’entusiasmo della scoperta. Se devo dedicarmi ad un’opera di Puccini non credo di comportarmi come se ne dovessi allestire una di Mozart.
Il rapporto con la musica sembra essere per lei totalizzante! Continua anche fra le mura domestiche?
Certo! Ascolto molto, soprattutto Bach. Potrei ascoltarlo all’infinito. Ho fatto studi di Fisica e le strutture matematiche nella musica mi hanno sempre affascinato
Bach quindi come disciplina del corpo e della mente!
Esatto.
E un’opera che vorrebbe mettere in scena?
L’Alcina di Haendel
(il fatto che il titolo dell’opera di Haendel sia stato pronunciato quasi senza esitazione può far ben sperare…)
Un’opera meravigliosa, di una leggerezza e dolcezza uniche nel catalogo haendeliano. Ma intanto, mi perdoni, siamo tornati al punto di partenza: il teatro “barocco”!
Ci stiamo tornando un po’ tutti perché l’Ottocento è stato ideologicamente rigido. Una gabbia! Sesso, famiglia, onore, gloria, patria! E tutto questo non ci corrisponde più. Il Sei-Settecento era un mondo globale dove certi comportamenti erano solamente un dovere verso te stesso e non imposizioni dall’alto.
Allora la riscoperta della musica barocca di questi ultimi decenni potrebbe non essere casuale.
Lo penso da tempo. Basta guardare le reazioni dei giovani alle proposte di questo tipo.
Ma non sono proprio i giovani ad essere finiti sul banco degli imputati riguardo al calo di spettatori che sta cominciando ad allarmare anche i più ottimisti?
Io ho puntato molto sui giovani con una politica di prezzi adeguata. Qui allo Stabile la loro presenza è comunque aumentata. Non è da sottovalutare il problema economico che affligge le nuove generazioni, ma che è anche collegato ad un analfabetismo di ritorno. Mi spiego meglio: se il bene non lo conosci, non lo consumi. E se devi scegliere se andare a teatro o in pizzeria, vai in pizzeria. Bisogna assolutamente fare entrare i giovani a teatro. Sono loro il pubblico di domani. Ma non le recite scolastiche! No, per carità! Quelle non servono a nulla! Devono venire alla sera mescolati con gli adulti ed imparare così il rituale dell’andare teatro. Il teatro è una lingua. Bisogna studiarla. E la scuola a quanto mi risulta lo fa sporadicamente…
Ma allora il pubblico che va all’opera o a teatro è un pubblico elitario?
Non userei il termine elitario. E’ un pubblico che sceglie. E’ una scelta venire a teatro, non è mica un obbligo!
E con questa frase laconica si conclude una conversazione certo impegnativa, ma ricca di contenuti. Incombono ora le prove di The Changeling di Thomas Middleton, drammaturgo inglese del primo Seicento. Ringrazio moltissimo Walter Le Moli della generosa disponibilità accordatami e soprattutto delle argomentazioni dotte e stimolanti, fulcro di una chiacchierata di quasi un'ora. Scendo così in teatro. Gli attori stanno provando, ma la cosa che mi incuriosisce maggiormente è la presenza di un vero clavicembalo sulla scena. E c’è anche un clavicembalista che inizia a suonare live. Sempre più intrigato decido di assistere alla prova. Ad un certo punto uno degli attori, con mia somma meraviglia, intona una bella melodia in falsetto, sembra quasi un contro-tenore…
…“dalla teoria alla pratica…”
Massimo Viazzo