Quello della creazione, ricezione, valorizzazione e fruizione di molti dei generi cosiddetti contemporanei della musica colta è un aspetto essenziale: da un lato per il futuro e la sopravvivenza del teatro musicale e del suo pubblico, dall’altro per il recupero della attualità e della sua valenza culturale e sociale e per la sua indiscutibile forza di resistenza simbolica attiva nel desolato scenario di impoverimento antropologico.
Nell’intervistare Marco Taralli, uno dei compositori più rappresentativi e prolifici degli ultimi anni, abbiamo modo di entrare subito “in media res”, traghettando il discorso da una sterile teoresi a quello dell’esperienza diretta con il mondo e le istanze concrete dell’artista. Taralli, con la sua lunga ed articolata carriera internazionale di compositore e docente, ė testimone e riferimento concreto per una folta schiera di giovani aspiranti compositori, molti dei quali già introdotti da lui nel mondo artistico professionale.
Caro Marco non possiamo esimerci dal porgerti la prima domanda sul tuo periodo formativo e la tua esperienza concreta con i tuoi due Maestri Sergio Rendine e Gianluigi Gelmetti; potresti dirci qualche cosa in merito alla loro incidenza fattiva sulle tue scelte e di come tutto si sia armonizzato con la tua soggettiva ispirazione?
Ho conosciuto Sergio Rendine quando studiavo pianoforte al Conservatorio de L’Aquila e senza indugio presi la decisione di iniziare con lui lo studio della composizione. Sergio è stato quello che mi ha letteralmente “messo la matita in mano” e quando dico matita dico rigorosamente 4B!
Mi ha fatto capire cosa significhi la parola compositore, ma non solo, mi ha fatto capire cosa significhi “voler fare il compositore”. Sono stato al suo seguito per quasi dieci anni e le lezioni “ordinarie” erano soltanto una parte dell’attività in cui ero coinvolto. Sergio scriveva in continuazione, era commissionato ed eseguito, mi faceva studiare le sue partiture, me le spiegava, mi faceva assistere a quello che era il processo creativo di un suo lavoro fino ad arrivare al massimo onore possibile in due o tre occasioni, quando ero più avanti negli studi, di completare e realizzare “in bella” alcune sue pagine di appunti.
È stato un vero e proprio Maestro di bottega. Sicuramente un grandissimo artista che ha saputo darmi quello che so perché il suo punto di partenza è sempre stato l’artigianato di qualità:
“… Marco non preoccuparti dell’arte, non né una cosa che riguarda chi vive la contemporaneità, se sarai mai riconosciuto come un artista, se sarai ancora su questa Terra probabilmente sarai già avanti negli anni … tu preoccupati di realizzare bene quello che ti viene chiesto …”.
Per Rendine realizzare bene equivaleva lavorare con la massima onestà intellettuale e con la massima cura possibile. Purtroppo poi le scelte di vita di ognuno hanno fatto divergere le nostre strade.
Non lo sentivo da almeno 20 anni quando, poche ore fa, ho appreso della sua improvvisa e prematura scomparsa, e non posso che restarne colpito e addolorato. Lo ricorderò per sempre come il mio primo vero "Maestro" punto di partenza della mia lunga strada fatta di ascolto, osservazione e ricerca costante.
Gianluigi Gelmetti è stato un Maestro analogo per energia ed esattamente opposto e complementare a Sergio Rendine (tra l’altro i due erano anche grandi amici).
Quando ho conosciuto il Maestro Gelmetti ho compiuto il gradino successivo ovvero ho compreso cosa significhi scrivere una partitura, metterla in scena e realizzarla; e qui entra in scena la figura dell’interprete, con cui un autore dovrà sempre rapportarsi, perché il vero interprete non si stancherà mai di chiedere all’autore le motivazioni, le ragioni, il perché abbia scritto quella particolare frase e cosa stesse pensando mentre la scriveva. L’interprete vero proporrà sempre all’autore con cui sta lavorando nuove idee, magari cambiamenti che a volte potrebbero rivelarsi più interessanti dell'idea che l’autore stesso aveva pensato in origine. Iniziare a seguire il Maestro Gelmetti fu una cosa assolutamente naturale; per un periodo mi venne anche l’idea di fare il direttore d’orchestra. Ebbi la fortuna di essere ammesso all’Accademia Ferenc Liszt di Budapest dove conobbi e seguii le lezioni (purtroppo per troppo poco tempo) di Erwin Lukacs e fu proprio grazie a lui che riuscii a capire che ci sono molti modi diversi di fare musica e non necessariamente uno migliore di un altro purché alla base ci sia l’onestà intellettuale.
Dopo poco più di un anno mi resi conto che la direzione d’orchestra non era la mia strada né il mio strumento espressivo; avevo bisogno di uno strumento che mi permettesse di esprimere la mia anima e non che mi facesse esprimere ciò che altre anime avevano provato, io volevo scrivere, avevo bisogno di scrivere e ho capito una cosa della quale sono ancora oggi assolutamente convinto: l’opera di un autore salvo rari casi viene veicolata al meglio quando è affidata ad un interprete diverso dall’autore stesso. Ho interrotto gli studi di direzione d’orchestra prima ancora di apprendere quei rudimenti di base che mi permettessero di farlo; ad oggi non ho la tecnica necessaria per dirigere un’orchestra in mondo professionale ma sono certo di una cosa, se fossi in grado di farlo certamente non dirigerei mai una cosa scritta da me, preferirei sempre affidarla ad un interprete che sappia “mettere” la propria anima per trasmettere la mia. La scomparsa del Maestro Gelmetti, quasi due anni fa, mi ha segnato in maniera profonda, ancora oggi ne sento la mancanza, lui era sempre pronto a darti un consiglio e a starti vicino ogni volta che tu potevi avere necessità di un confronto, ricordo benissimo l'ultima volta che l'ho incontrato, ero andato a trovarlo a casa sua e passammo insieme una bellissima giornata, proprio pochi giorni prima della sua improvvisa e prematura scomparsa.
La storia della musica del Novecento è stata contraddistinta da alcune singolari interpretazioni della funzione sociale e culturale del compositore; spesso il compositore è stato investito da una eccessiva responsabilità rivendicativa e contestataria di natura politica, concretizzatasi in una ricerca di sintassi sempre più complesse che rinunciavano a volte al principio della chiarezza e della comunicabilità complessiva. Cosa significa per te essere un compositore oggi? Quale è secondo te il suo ruolo e la sua specifica funzione?
Credo che a volte questa incomunicabilità sia un pretesto dietro al quale nascondere l’incapacità di dire qualcosa, di comunicare, sia emozionare che infastidire o anche far inorridire, comunque di smuovere le coscienze. A volte invece l’incomunicabilità diventa una consapevole scelta stilistica, ma più che parlare di incomunicabilità sarebbe più corretto parlare di scelta di un linguaggio ostico aspro e non di immediata comprensione; in questo caso è più facile che al compositore venga attribuita una funzione che magari lui non ha pensato di interpretare, e parlo di quella politica e/o civile. Ritengo che il problema sia ancora una volta l’onestà e la competenza sia da parte dell’autore che del pubblico e della critica. Quando questi due elementi convivono nella composizione e nel pubblico, allora il ruolo del compositore diviene quello di raccontare, di trasferire, di tradurre emozioni, visioni, pensieri attraverso lo strumento che più gli si addice e verso il quale dimostra particolare talento: la musica. Se competenza e onestà intellettuale sono in presenza coincidente anche in chi ascolta, allora avviene il miracolo e la musica riesce a parlare a chiunque e la figura del “compositore di oggi” diventa quasi per incanto assolutamente coincidente con la figura del compositore di ieri.
È notoria la versatilità della tua ispirazione creativa, sembra però che tale peculiarità non abbia mai rappresentato motivo di dispersione. Qual è il nucleo centrale e unificante del tuo itinerario compositivo?
Il nucleo centrale del mio pensiero compositivo ed il fondamento di ogni nuovo approccio alla composizione di una nuova partitura è l’intento di raccontare una storia. Per me comporre significa raccontare storie utilizzando un meta linguaggio che nel mio caso è fatto di suoni che vibrano tra un silenzio e l’altro in un gioco di scambi di posizioni dove nessuno è mai più importante dell’altro ma all’altro dà significato. La storia che racconto di volta in volta si svolge all’interno di un arco temporale che solitamente mi viene indicato dal committente (ma non necessariamente), ovviamente “raccontare una storia” non vuol dire che ogni volta mi metta a comporre un pezzo di musica “a programma”, operazione questa che non rinnego affatto, come nel caso del mio ultimo lavoro per l’Orchestra Metropolitana di Bari dove ho voluto parafrasare la leggenda di San Nicola, ma sono casi davvero rari! La maggior parte delle volte l’obiettivo è quello di raccontare una storia fatta di sensazioni, di energie e forze in movimento, di emozioni dove l’elemento portante è il divenire, l’evoluzione di colori, linee sonore e armonie che cambiano e si trasformano creando e guidando una sorta di drammaturgia animica, filo conduttore di tutto il processo. E l’utilizzo di una forma precostituita da riempire con i miei pensieri è sempre stato per me un ulteriore strumento di racconto e mai limite o imbrigliamento.
All’interno del corpus dei tuoi lavori spicca con forza una tua costante attenzione al genere operistico (possiamo ricordare titoli come “La Rivale”, “Il Castello incantato”, “Divorato cuore” e in ultimo “Delitto all’isola delle capre”). Cosa rappresenta per te il Teatro d’Opera?
In due parole per me il Teatro d’Opera rappresenta la mia grande passione, mai sopita sempre presente e che mi accompagna fin dai primi passi nel mondo della composizione. Poter raccontare storie e creare personaggi con la musica è un qualcosa che mi ha sempre catturato e affascinato, in sintesi un mondo nel quale mi sono sempre sentito comodo e a mio agio.
Dico che mi ha sempre affascinato anche se in realtà mi sono avvicinato tardi al Teatro d’opera, sicuramente per caratteristiche del contesto culturale nel quale sono nato; L’Aquila seppure sia una città ricca di storia e musica non ha mai annoverato tra le sue molteplici vocazioni quella verso il genere operistico. Da studente di Conservatorio ovviamente conoscevo bene e approfonditamente le opere di Verdi o Rossini ma non avevo mai assistito alla rappresentazione di un’opera; non ne avevo mai vista una perché l’Opera va vista in Teatro, dal vivo, respirando il dramma che si dipana insieme agli interpreti che te lo stanno raccontando. Quando ho assistito per la prima volta ad un ‘Opera – era Don Giovanni all’Opera di Roma – ne sono rimasto letteralmente folgorato! Ero già grandicello, avevo circa ventidue anni, avevo l’ambizione di imparare a scrivere musica per esprimere quello che pensavo…e di colpo mi sono sentito a casa! Ecco, il Teatro d’opera rappresenta casa mia, il luogo che mi sono costruito e nel quale mi sento totalmente a mio agio.
Negli anni mi sono anche reso conto che la grande forma mi stava particolarmente comoda e che avevo facilità e propensione ad evocare immagini con la musica. Tratteggiare un personaggio o raccontare una situazione con le note all’interno di una struttura architettonica complessa come l’opera lirica, è probabilmente come per un architetto progettare e costruire una cattedrale e definirne tutte le sue modanature; la cosa fondamentale è l’equilibrio e più complessa è la struttura più importante è il controllo della forma all’interno della quale sviluppare il pensiero musicale e quindi il racconto. Se per talento si intende quella cosa che a te riesce più facilmente rispetto ad altre, allora il mio talento me lo gioco nell’opera lirica!
Non pensi che sia questo il momento storico per una rivitalizzazione del melodramma che non parta sempre dalle ormai obsolete provocazioni registiche ma dalle nuove composizioni, quindi dalla musica?
Credo che il melodramma non abbia la necessità di essere rivitalizzato credo invece che si debba uscire dall’idea che esista solo il melodramma del cosiddetto repertorio, che sempre più inevitabilmente e irreparabilmente assume i connotati di un prodotto da museo. I Melomani storceranno il naso, qualcuno griderà allo scandalo, ma penso proprio che sia così.
Il melodramma è solo uno strumento, una forma attraverso la quale raccontare storie, e le storie per essere vive e vicine all’uomo del nostro tempo devono essere raccontate in modo idoneo e naturale al nostro presente, ma questo non significa che debbano per forza essere raccontate in modo diverso a come lo erano in passato; e allora ben vengano anche le provocazioni, ma purchè abbiano un senso coerente con la Musica scritta in partitura, che non è un mero sottofondo o ornamento sonoro. Penso che attingere ad un titolo di repertorio e al contempo stravolgerlo nel suo più chiaro significato, che è quello indicato dalla Musica, dandogli una veste che spesso soddisfa solo la volontà registica, con il direttore d'orchestra ridotto ad un puro accompagnatore, sia un'operazione inutile e soprattutto faticosa. La cosa più naturale da fare per raccontare una storia di oggi, è quella di chiamare degli autori e farsela scrivere. Non sto dicendo nulla di nuovo, basta guardare la storia, basta guardare i cartelloni dei teatri di un centinaio di anni fa, per rendersi conto che i titoli allora rappresentati erano più o meno gli stessi titoli che vengono rappresentati oggi. Ma purtroppo in pochi pensano al fatto che nel 1913 l'Aida era praticamente un'opera contemporanea, essendo stata scritta una quarantina d'anni prima, ed essendo il suo autore scomparso da una decina d'anni. Il Teatro Comunale di Bologna fu inaugurato 260 anni fa, prassi assolutamente comune all'epoca, con la prima assoluta di un'opera di Gluck che all'epoca era vivente. A duecentocinquanta anni dall'evento, nel 2013, il Teatro Comunale di Bologna per commemorare l'evento ha riproposto lo stesso titolo, che nel frattempo è diventato “vecchio” , riproponendolo, come di prassi, con un'ambientazione contemporanea, tra l'altro anche ben fatta. E oggi è questa la prassi, quasi non ci si rendesse conto che una scelta del genere va a tradire interamente il significato dell'evento. Che senso ha fare operazioni di questo tipo, tranne andare a sancire il fatto che il melodramma sia ormai diventato un prodotto museale? A questo punto chiunque presumerebbe che i Direttori Artistici o i Sovrintendenti pensino che la contemporaneità non sia più in grado di esprimersi oggi attraverso il melodramma o che si possa esprimere solo con regie “moderne” che, inutile nascondercelo, spesso e volentieri sono ai limiti della bizzarria quando non del ridicolo.
Mi viene quasi da pensare che prima di parlare di “rivitalizzazione del melodramma” sarebbe più opportuno parlare di rivitalizzazione della coscienza culturale di ognuno, affinchè sia sempre presente e attiva e mai passiva osservatrice. Ritengo che questo sia proprio il compito più arduo dei nostri committenti, che hanno il dovere di preparare il terreno affinché sia fertile e pronto ad accogliere nuovi stimoli e nuovi linguaggi in linea con il nostro tempo e con un melodramma che in questo senso sia completamente rivitalizzato o meglio rinnovato.
Un altro tratto peculiare della tua carriera è quello di esserti dedicato moltissimo alla Musica Sacra come una sorta di costante che ha costellato il tuo percorso; penso allo “Stabat Mater”, al “Piccolo Stabat Mater” alla Cantata sacra “Psalmus pro Humana regeneratione” e tanto altro e in particolare alla tua recente “Missa Sancti Vigilii” commissionata per la riapertura del Duomo di Trento fino ad arrivare alla “Missa Sancti Petronii” eseguita e incorporata nel servizio liturgico in San Petronio a Bologna. Perchè questa meritevole attenzione al genere sacro che risalta ancora di più a fronte di una eclissi generale della sua presenza nell'ambito della musica contemporanea?
Il Sacro è per me sempre stato una fonte di facile ispirazione, e sto parlando di sacro non di religioso, e mi sembra giusto sottolineare questo concetto che molte volte viene erroneamente quanto superficialmente fuso in un unico contesto. Quando mi trovo a musicare un testo sacro sento fortemente il contatto con una sorta di energia che parte dalla notte dei tempi, e nello scorrere di questo tempo infinto, si è caricata di ulteriori significati. Il sacro come lo intendo io è parte integrante della vita del vivere civile. Ogni uomo credo abbia una sua componente di sacralità, e questo ovviamente a prescindere dall’ambito religioso, credo che perfino un ateo convinto possa trovare ed avere la sua sacralità. Il testo nella composizione di musica sacra ha una parte fondamentale ed il fatto che per la maggior parte delle volte sia in lingua latina, per me rende il tutto molto più facile e più vicino alle mie corde; ho sempre sentito che il latino contiene un suono interno che per me è sempre stato un’immediata fonte di ispirazione. Quando ho scritto la Cantata sacra Psalmus pro Humana regeneratione ho dovuto lavorare su un testo in inglese arcaico, così come quando più di vent’anni fa scrissi la Piccola Cantata Laude de la Croce, su testo in italiano volgare. Testi sicuramente avvincenti e appassionanti ma ricordo di aver faticato non poco per trovare il giusto suono, la giusta sintonia, cosa che non mi è mai capitata quando mi sono rapportato con il latino. Per la Missa Sancti Petronii l’esperienza è stata molto più intensa poiché il mio lavoro è stato commissionato e pensato per essere inserito nella liturgia solenne del Santo Protettore di Bologna e ho dovuto lavorare non solo per cercare la convivenza con un rituale sacro di tale potenza, ma mi sono posto nell’ottica di cercare di esaltarne la suggestione.
Come si inserisce la tua poetica musicale all’interno dell’annosa questione del rapporto tra tradizione e modernità?
Credo sia necessario intendersi circa il significato di tradizione e modernità. A volte sono due termini che vengono associati ad un’estetica comunicativa ed in questo caso io non appartengo completamente né all’uno né all’altra.
Se invece per tradizione si vuole identificare un insieme di strutture formali utilizzate da varie generazioni di grandi compositori del “passato” allora mi ci sento completante nel mezzo e se per modernità si vuole identificare l’utilizzo di stilemi vicini al nostro tempo che sono la risultanza di un processo, ancora in atto e mai finito, che tende a farci uscire dalla nostra “comfort zone” andando oltre quelli che sono schemi armonici o melodici “noti” alla ricerca di sfumature di una lingua più vicino a noi allora sono un compositore moderno. Mi definirei un convinto moderno tradizionalista.
Al tuo lavoro di compositore militante affianchi anche quello di docente presso il Conservatorio Cantelli di Novara e in altre celebri istituzioni. Cosa pensi del rapporto delle nuove generazioni con il teatro musicale?
Io amo insegnare, amo trasferire a dei giovani musicisti la mia esperienza e quello che io so fare, vedo il trasmettere la propria esperienza come un dovere civile di ogni cittadino; credo anche che l’insegnamento sia un ulteriore fonte di apprendimento, ti costringe ogni volta a rimettere in discussione i concetti che stai esponendo e verificarne ogni volta l’essenza, l'insegnare ti obbliga inoltre a tenere viva la curiosità e la voglia di scoprire cose nuove, caratteristica peculiare di ogni musicista. Del resto qualcuno disse che non può esistere lo studente di musica poiché il musicista vero è per sua stessa natura un “eterno studioso” fin dal momento in cui impara a tracciare la chiave di violino. È anche vero che amo trasmettere a chi me lo chiede e a chi lo desidera davvero, poiché questa sorta di “trasferimento” è un impegno gravoso ed una grande responsabilità ed è questa la ragione per cui va insegnato e “dato” soltanto a chi realmente lo chiede e lo chiede con forza e determinazione. Essere allievo, discepolo è un atto attivo e implica una presa di posizione attiva, la stessa determinata quasi disperata voglia di sapere e di conoscere che mi apparteneva quando rubavo avidamente ogni parola ai miei maestri.
La mia attività di docente si è espletata in due direzioni: l’una presso il Conservatorio Guido Cantelli di Novara dove insegno teoria della musica e varie materie afferenti che ormai pratico da ben più di un ventennio. Ho vissuto la trasformazione organizzativa del mondo dei Conservatori, ho insegnato nei Conservatori di varie città italiane assorbendone ogni volta “usi e costumi” locali che ne marcavano le caratteristiche. E quando parlo di marcarne le caratteristiche intendo che ho cenato con i colleghi di Campobasso e ho parlato con i miei allievi di Bologna, mi sono interfacciato con la segreteria del Conservatorio di Verona e di Cesena e ho collaborato con il direttore del Conservatorio di Novara. Con ciò intendo che ogni luogo, ogni Conservatorio ha delle caratteristiche umane e relazionali diverse ma c’è sempre stato un comune denominatore: la luce che emanano quegli allievi che scelgono di imparare, quella luce è uguale e ben riconoscibile, non ha tempo, né luogo, né età.
La seconda direzione nella quale si esplica la mia attività è presso L’Accademia dei Mestieri dell’Opera della Teatro Coccia (AMO) sempre a Novara dove insegno composizione del teatro musicale. In Accademia si entra un mondo assolutamente unico perché un insegnamento del genere può avvenire solo in una struttura come quella della AMO che offre una reale possibilità ai giovani compositori di salire sul palcoscenico e mettere “le mani in pasta”, vedere i loro lavori realizzati, opportunità questa che ritengo essere unica in Italia.
Mi sono confrontato in questa mia esperienza didattica con giovani compositori davvero eccezionali, tutti desiderosi di entrare dentro la “macchina teatro” per comprenderne gli infiniti meccanismi ed ingranaggi spesso presentandomi idee personali che tradotte in codici comunicativi (la cosa più difficile per un compositore) hanno prodotto ottimi risultati. Seguire i loro lavori, ascoltare le loro idee e all’occorrenza guidare il loro percorso è ancora una volta per me fonte di apprendimento. Mi piace pensare che il vero maestro sia colui che è in grado di apprendere sempre, ovunque e da chiunque anche dai propri allievi (oltre che dai propri errori …).
Potresti dirci quali saranno i tuoi prossimi impegni e qualcosa sulle tue nuove creazioni?
Certamente! Ho appena terminato il brano di cui ho parlato poco fa, Donatus Aurum commissionato dall’Orchestra Metropolitana Città di Bari in onore a San Nicola e mi accingo a lavorare alla partitura di un nuovo melologo per voce recitante e grande orchestra commissionatomi dalla Fondazione Arturo Toscanini e che vedrà la luce il prossino primo agosto. In autunno andrò in scena con la FORM l’Orchestra Marchigiana che mi ha commissionato un nuovo melologo su testo di Stefano Valanzuolo e sempre in autunno la mia ultima opera Delitto all’isola delle capre sarà replicata al Teatro dell’Opera Giocosa di Savona. Nel 2024 andrà in scena al Teatro di Liegi la nuova versione dell’Opera Il Castello incantato tradotta in francese cui darò una nuova veste orchestrale e per la quale scriverò una nuova ouverture. Tutte cose molto belle che mi riempiono di grande soddisfazione ma la cosa che mi darà più soddisfazione, sempre nel prossimo autunno, sarà quella di lavorare a una variegata e “bizzarra” opera da comporre a più mani e le altre mani saranno quelle dei miei allievi della AMO, avrò l’onore artistico, ma anche l’onere e la responsabilità di portare i miei allievi sul palcoscenico e condividere il lavoro con loro.
Quale reputi tra le tue opere quella a te più cara e significativa?
È difficile trovare un posto particolare ad un’opera piuttosto che ad un’altra, ma posso dire che ci sono stati dei lavori che per me hanno segnato dei punti fermi e me ne sono sempre reso conto a posteriori, una volta che questi lavori erano stati eseguiti ed era passato il giusto tempo di decantazione. Al primo posto sicuramente ci metto Fog, un piccolo pezzo da camera di dieci minuti per sette esecutori, ma è stato il mio primo pezzo, per la prima volta ho sentito il mio pensiero diventare concreto attraverso il lavoro di interpreti professionisti. Ricordo l’Ultima Baccante la mia prima vera importante commissione che mi fece sentire il peso e la responsabilità di scrivere una partitura che sul palcoscenico del Festival Monteverdi di Cremona raccontasse la modernità attraverso il Mito.
Sicuramente La Maschera di Punkittititi la mia prima opera lirica, commissionatami dal Teatro dell’Opera di Roma, della quale ricordo con tenerezza tutti i dubbi ed i timori che mi assillavano sulla tenuta della forma; sicuramente l’Opera NUR commissionatami dal Festival della Valle d’Itria che per espressa volontà della committenza venne ambientata la notte del sisma che ha distrutto la mia città, ricordo di questa opera la difficoltà di tenere fuori il dolore mentre riportavo sulla carta da musica il suono di quell’orrore; sicuramente l’opera la Rivale, in cui ho avuto la possibilità di misurarmi con il genere buffo. Altre due pietre miliari per la mia crescita artistica sono due lavori entrambi commissionatimi dall’Orchestra Filarmonica di Montecarlo una è la colonna sonora del capolavoro di Erich von Stroheim Foolish Wives che a tutti gli effetti diventò una vera e propria opera ed il Concerto per violino e orchestra che mi permise di lavorare fianco a fianco con il solista al quale ho dedicato il Concerto, David Lefévre, arrivando ad un punto di tale profonda complicità e fusione da fare convergere le mie esigenze comunicative con la sua tecnica funambolica e la sua sensibilità, ed infine la Missa Sancti Petronii attraverso la quale mi sono misurato per la prima volta con un sacro “operativo” quasi una sacra rappresentazione che ha toccato in maniera profonda la mia concezione del divino.
Cosa auspichi per le nuove generazioni di compositori? Quale messaggio vorresti lasciare?
Uno solo e molto semplice. Non smettete mai di perseguire la ricerca, cercate sempre di essere sinceri e onesti in quello che raccontate, perseverate nel vostro lavoro. Lo studio e la preparazione tecnica sono i due più grandi strumenti per raggiungere la libertà comunicativa.
In altre parole “siate leali e vi spunteranno le ali !” Questo simpatico gioco di parole non è mio, la frase mi venne detta tantissimi anni fa dal mio maestro. Non so se sia sua, mi piace pensare che a lui sia stata passata dal suo maestro.
Il sogno nel cassetto?
Non tanti, fortunatamente in molti anni di attività ho avuto modo di spaziare fra i generi più diversi. Sicuramente mi piacerebbe lavorare alle musiche di scena per una piece in prosa, come sarei molto incuriosito se dovessi realizzare la colonna sonora per un film moderno, esperienza che non ho mai fatto, poiché la colonna sonora che ho composto per il filma di Stroheim Foolish Wives, è più un’opera che una colonna sonora.
Mi sono più volte cimentato con il genere sinfonico, quella che io chiamo musica “Pura”, ma la sfida con una grande sinfonia ancora non l’ho mai affrontata e in effetti è uno dei miei sogni. Ma detto questo, i miei sogni più grandi sono due, e te li confesso: non ho mai scritto un balletto, e se me lo proponessero accetterei senza riserve, ma ancora di più, e ti prego di non metterti a ridere, accetterei senza riserve e senza condizioni la commissione di un’Operetta. È un genere che adoro, spesso, troppo spesso bistrattato e sicuramente sottovalutato, una forma che oggi più che mai potrebbe esprimere e raccontare con grandissima efficacia.
Ecco, arrivato a questo punto, ti manca solo di sapere il mio colore preferito … e non ho più segreti!
Giovanni Botta