Lorenzo Giossi è un giovane regista che ha iniziato a muovere i suoi primi passi fra le quinte dei teatri, ancora bambino, al seguito del padre baritono. Dopo alcune esperienze minori ha esordito a soli 23 anni, con una regia tutta propria su un palcoscenico importante, nel 2013 al Teatro Sociale di Bergamo; si trattava de L'elisir d'amore di Gaetano Donizetti. Da allora ha lavorato in altri contesti importanti, fra cui il Teatro Verdi di Trieste e il Teatro Carlo Felice di Genova. Si tratta di un artista serio, preparato e poliedrico che merita sicuramente l'attenzione della direzioni artistiche e del pubblico.
Sei un artista a tutto tondo: pittore, scenografo, attore ma è soprattutto nella regia d’opera che riesci ad esprimere tutto te stesso. Da dove sei partito e come è avvenuta la tua evoluzione artistica.
La prima scuola l'ho frequentata, senza quasi saperlo, seguendo mio padre nel suo lavoro e così, fin da piccolino, ho assistito a prove di regia, assiemi , sale trucco e montaggi. Poi, quando tornavo a casa, rubavo la scatola di cartone del pane biscottato a mia madre per farla diventare il mio teatrino in cui “allestire” le opere, correggendo spudoratamente quello che secondo me nelle prove paterne avevo visto di errato. Tutto questo poi si è evoluto negli studi artistici di pittura e scenografia. Un bel giorno Paolo Panizza, un regista a cui devo molto perché mi ha dato il mio primo lavoro pagato come assistente alla regia (il primo paio di scarpe acquistato coi miei soldi), mi ha chiesto se volevo dargli una mano in una Traviata e io incurante di tutto ho accettato pur di stare in palcoscenico! Grazie a quella esperienza ho conosciuto Federico Bertolani che mi ha preso con sé come suo assistente e tutto poi è andato di conseguenza.
Sei un vero appassionato d’opera?
Sono un vero fanatico d’opera, cresciuto con una video cassetta di Pavarotti, necessaria per farmi mangiare. Mentre i miei pranzavano in cucina io mangiavo in salotto e dirigevo la TV. La videocassetta si intitolava “Vincerò!”. Ora non funziona più tanto bene perchè ho consumato il nastro.
Che peso ha avuto per lo sviluppo delle tue attitudini artistiche l’essere figlio di un ottimo baritono qual è tuo padre?
Come dicevo è stata un grandissima scuola seguirlo! Ho imparato cosa è una controscena scrutandolo attraverso le quinte! Avere un padre artista ha inciso soprattutto nella conoscenza di tutte le opere di repertorio (grazie anche a mia madre soprano che me le spiegava) e nello sviluppo di un orecchio musicale. La mia mente si è poi aperta per comprendere i più svariati allestimenti di una stessa opera, dialogando fin da bambino con grandi registi, scenografi e direttori d’orchestra. Tutto questo ha contribuito a sviluppare precocemente una predisposizione allo studio e alla interpretazione. Un’altra grande lezione che poi ha influenzato il mio modo di fare teatro è non badare al palco più o meno importante: il palco è uno come uno è il pubblico. Inoltre stare accanto a mio padre mi ha permesso di capire cosa poter chiedere in scena a un cantante e quali sono le sue esigenze fisiche e mentali
Sei mai stato attirato dal canto?
Moltissimo! Cantavo e canto a squarciagola nel mio studio. Mio padre dice che se studiassi sarei un baritono lirico. Tanto per dirne una: la farmacista si ricorda di me perché quando mio padre entrava in negozio per acquistare in farmaco, io lo seguivo gobbo cantando Larà Larà del Rigoletto. Il mio povero genitore doveva spiegare tutta la sua vita per giustificarmi.
E l'idea di provarci seriamente col canto non ti è mai venuta?
Tantissime volte : mio padre dice che se studiassi avrei la sua voce degli inizi. Non male come complimento eh? Però amo talmente tanto la perizia che lui mette tutt’ora nello studio del canto che io, istintivo come sono, non credo di poter mettere. Meglio non creare doppioni di seconda mano e dedicarsi a quel primo impulso dettato dal teatrino di cartone.
Secondo te nel 2020 come dev’essere la regia di un’opera lirica?
Ritengo che oggi non si debba mirare a una pura descrizione di una situazione o di un ambiente, ma si debba mettere in risalto la sensazione psicologica dei personaggi che emergono dalla partitura. Per essere chiari se nel Rigoletto qualcuno volesse vedere la corte dei Gonzaga così com’è, dal punto di vista architettonico, consiglio di andare ad ammirarla direttamente a Mantova che risulterà sicuramente molto più suggestiva di tutto il polistirolo che potremmo mettere in scena per renderne l'idea. L’opera non è solo la sua ambientazione o un gesto più o meno riuscito. L’opera è eterna perché nella musica sono scritti anche i battiti cardiaci dei protagonisti; vi sono emozioni che proviamo anche noi ogni giorno. Ritengo che una regia d’opera debba oggi dare risalto alle atmosfere più che alla cornice, enfatizzando la drammaturgia psicologica che è quella a noi più vicina.
Pensi sia ancora possibile rappresentare un’opera mantenendosi fedeli alle indicazioni del libretto senza risultare vecchi, retrogradi, banali e obsoleti?
È una domanda che va a braccetto con la precedente. Ovviamente quello che ho espresso è il mio punto di vista che non esclude altri modi di vedere e di intendere l’opera. Una cosa contraddistingue ogni allestimento: l’intelligenza. Se un allestimento è intelligente, ben pensato e non si limita al puro decoro dello spazio può benissimo essere fedele al libretto. Ho visto spettacoli con le tele dipinte (testimoni di un artigianato sempre più raro) molto più freschi di spettacoli cosiddetti moderni. Lode anzi a quegli spettacoli di tradizione che fanno innamorare dell’opera e che possono stimolare lo spettatore a godere di altre chiavi di lettura. A mio avviso non è solo l’aspetto esteriore a determinare la fedeltà al compositore ma come i contenuti di quell’allestimento rispecchiano la partitura.
Hai qualche modello fra i registi del recente passato e del presente?
Giorgio Strehler! Il suo Macbeth scaligero così semplice eppure così di impatto! Poi tutti quei registi che usano la semplicità. Non dimentichiamo mai che uno straccio sul palco, se ben illuminato, può diventare velluto.
Hai un repertorio che preferisci ad altri?
Io prediligo il secondo Verdi! Diciamo da Rigoletto in poi, quando si descrivono i personaggi per come sono: uomini con i loro pregi e i loro difetti. Con Verdi non ci sono eroi, buoni o cattivi; ci sono uomini.
Qual è il tuo approccio nel pensare alla regia di un’opera?
Cerco di capire cosa oggi ci dice una partitura musicale, cosa è in grado di comunicarci e quali sono i problemi umani messi in evidenza dalla trama e dal compositore. Ribadisco sempre che si parte dallo spartito. Giungo poi a una estrema sintesi che è caratterizzata dall’identificazione dell’opera con una parola: intorno a quella gira tutto. Parlo sempre di umanità perché sul palco ci sono alla fine uomini che vivono delle storie, se capiamo questo tutto si delinea.
Spesso sei autore di scene e regia, forse anche dei costumi. È una cosa che ti sentiresti di fare anche se ti dovessero commissionare una nuova produzione in un importante teatro di tradizione o addirittura in una fondazione lirica?
Questo già mi è capitato col Teatro Carlo Felice di Genova firmando regia, scene e costumi di Traviata, addirittura al Verdi di Trieste firmai anche le luci. Purtroppo (anche in Accademia) sono sempre stato abituato a lavorare da solo per consegnare i lavori in tempo e impedire che un lavoro netto si sbiadisse nelle mani di tanti, quindi la mia mente quando pensa a una regia si butta automaticamente anche su tutto ciò che le ruota intorno. Ciò non toglie che la strada sia ancora lunga e misteriosa e magari che si possano incontrare collaboratori con cui essere in sintonia per poter andare sempre più verso la regia.
Ti faccio una domanda un po’ scomoda: mi spiegheresti per quale ragione oggi non è più possibile gustarsi l’ouverture di un’opera senza essere disturbati da una pletora di mimi che saltano avanti e indietro sul palcoscenico?
La domanda è molto intrigante! Posso azzardare una risposta in base alla mia esperienza. Spesso, noi registi, abbiamo la tendenza a voler spiegare visivamente ogni cosa nell’intento di far comprendere al pubblico una storia molto lontana da lui e esposta con un linguaggio molto diverso da quello comune. Credo che ciò ci faccia perdere di vista la funzione primaria dell’ouverture, ossia fornire all’ascoltatore tutti gli ingredienti di cui ha bisogno per decifrare la vicenda. Si tratta di ingredienti emozionali: quindi se chiudiamo gli occhi possiamo godere di emozioni allegre, tristi che ritroveremo in seguito con mille impulsi in più da decifrare tra movimenti, luci, cambi, parole ecc… Non sono contro a piccole parti di sinfonia mimate ma deve essere il minimo indispensabile. Credo sia anche più intrigante lasciare un po’ di spazio all’immaginazione. Possono capitare operazioni sperimentali come opere col pianoforte in cui sarebbe bello includere lo strumento nello spettacolo e non utilizzarlo solo come sostitutivo di un’orchestra. Credo serva sempre una giusta misura in tutto o si rischia l’abuso.
Sino ad oggi quali sono state le esperienze che ti hanno aiutato maggiormente a crescere?
Sicuramente il debutto importante alla regia avvenuto al Teatro Sociale di Bergamo nell’Elisir d’amore; debutto che forse tu ricorderai perchè eri presente. Poi Brundibar al Teatro Verdi di Trieste e poi il tris al Carlo Felice di Genova con La Serva Padrona, La Traviata e la ripresa della regia de La Boheme. Queste sono esperienze che anno crescere anche a livello umano perché si creano rapporti di amicizia e stima con tutta l’equipe teatrale. Tanto è vero che quando capito nelle vicinanze di qualche teatro dove ho lavorato è sempre una festa per me poter offrire una birra a chi mi aiuta nel dietro le quinte. Dico sempre che le produzioni finiscono, ma i rapporti umani continuano! Da non trascurare le esperienze come direttore di scena (Teatro Verdi di Pisa) che mi permettono poi da regista di comprendere e trattare adeguatamente tutto lo staff!
Tu sei sicuramente un giovane artista che ha tante idee e tanto da dare: quali sono le maggiori difficoltà che stai incontrando per farti largo nel mondo dei teatri d’opera
La maggiore difficoltà è trovare in sé stessi ogni giorno quell’entusiasmo che non sempre è facile trovare. I registi seguono varie strade: principalmente da solo chiamo, fisso appuntamenti, presento proposte e grazie a questo stacanovismo trovo anche direzioni disposte a investire su di me e di ciò le ringrazierò sempre. Certo non si può piacere a tutti e sappiamo che le soddisfazioni non cadono dal cielo. Bisogna essere in grado di interpretare una porta chiusa come un motivo per fare ancora di più, studiare ancora di più e proporsi sempre in modo educato e originale. Come dire… non è facile. Quello che mi piace credere è che a tutti sia sempre data la possibilità di presentarsi, poi si vedrà; i fattori in gioco sono tanti: il gusto personale o anche il semplice cambio di una direzione artistica che impone un recupero delle relazioni personali, cosa che spesso richiede molto tempo, soprattutto se ci si basa solamente sulle proprie forze.
In questi ultimi mesi, nonostante le limitazioni date dal covid-19, sei riuscito a fare qualcosa di interessante? Hai qualche impegno nell'immediato?
Si, sono riuscito a produrre qualche spettacolo. Il primo è stato “Prendo un caffè e torno all’opera” da me scritto e diretto a Porretta Terme dove da tanti anni porto l’opera: non volevo lasciare un anno vuoto! Poi due farse Rossiniane a Mantova e Bologna.
Parto a breve per Opera Studio Molise per tenere una masterclass e allestire Così fan tutte di Mozart. Poi chissà…
Quali sono i tuoi sogni nel cassetto?
Uno in particolare: allestire Macbeth di Verdi. Amo quell’opera a tal punto da averla usata come tesi di Laurea. Altra opera dei sogni? Edipo Re di Leoncavallo!
Quali sono i tuoi hobby?
Sono appassionato del cinema di una volta (anni ’20) da cui attingo molto! Faccio parte del club di Stanlio e Ollio e amo Buster Keaton. Sono un grande appassionato di paleontologia e di archeologia: da piccolino sognavo di trovare un T-Rex in giardino e sono impressionato nell’immaginarmelo con possibili piume date le recenti scoperte. Cosa dire poi della civiltà egiziana e dei suoi misteri con tutta la simbologia che ancora ci portiamo appresso nella contemporaneità? Ogni tanto mi diletto anche nella cucina sfornando dolci. E poi la chitarra: perché non imparare qualcosa di nuovo durante la quarantena? Due accordi da strimpellare aiutano.
Danilo Boaretto