Avere la possibilità di confrontare le proprie opinioni con quelle di un interprete direttamente coinvolto nella realizzazione di un prodotto musicale è da sempre un’occasione imperdibile per qualunque appassionato. Sviscerare faccia a faccia ciò che unisce i fronti contrapposti del pubblico e della realizzazione, significa in fin dei conti lasciarsi animare da un sentimento comunitario di amore per la musica che non conosce distinzioni di ruolo. Il giovane direttore d’orchestra Giampaolo Maria Bisanti ci accoglie con grande cordialità nel proprio camerino al Teatro Dante Alighieri di Ravenna, pochi minuti prima della prova generale del Trittico di Puccini, prestandosi con vivo interesse ad un rapido confronto di idee su di uno degli eventi lirici più discussi del momento: l’Orphée et Eurydice di Gluck da lui recentemente diretto al Teatro Comunale di Bologna. La conversazione comincia con una leggera provocazione…
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Maestro Bisanti, sarà arrabbiatissimo con me per quello che ho scritto nella recensione dell’Orphée pubblicata su Operaclick… Indipendentemente dal polverone di discussioni che lo spettacolo ha sollevato, si ritiene soddisfatto del prodotto finale?
Si, sono molto soddisfatto. Vede, sono un direttore ancora giovane ed è una grande fortuna per me avere la possibilità di mettere il naso nei grandi teatri italiani... Partiamo dal presupposto che il mio debutto al Comunale di Bologna, come pure presso altri grandi Enti Lirici nazionali quali il Maggio Musicale Fiorentino, il Teatro Massimo di Palermo ed il Teatro Verdi di Trieste, rappresenta un passo molto importante nella mia carriera. A Bologna ho diretto l’anno scorso il concerto d’apertura della rassegna “L’estate del Bibbiena 2007” ed in quella circostanza mi fu proposto un contratto per la stagione d’opera 2007-2008 che, a dire il vero, non prevedeva l’Orphée et Eurydice di Gluck, bensì La Lupa di Marco Tutino. Il progetto fu presto abbandonato, ma il fatto di aver saputo anzi tempo che avrei lavorato con un personaggio del calibro di Roberto Alagna è stato sicuramente uno stimolo molto forte, un’occasione significativa che ho voluto cogliere con grande entusiasmo. Da qui è iniziato il processo di decodificazione di ciò che questo Orfeo rappresentava. Conoscevo molto bene la versione italiana dell’opera, ma poco quella di Parigi del 1774. Certo sapevo quale tipo di trasformazione la partitura aveva subito nel corso dei secoli: la musica era stata rimaneggiata in diverse forme, da Vidal e Berlioz, ma ancor prima dallo stesso Gluck, che dovette affrontare gli umori di un pubblico parigino avverso alla presenza di castrati in scena. Una voce da tenore lirico spinto era quindi già stata applicata al ruolo, mentre nuova era l’idea di affidare la parte di Amore ad un baritono. Chiaramente ero consapevole che sarei stato oggetto di contestazioni più o meno aspre da parte della critica e che il progetto avrebbe suscitato un certo clamore, ma ho comunque scelto di affrontare il mio compito con la massima onestà intellettuale, la massima professionalità e soprattutto con una grande voglia di debuttare in un teatro così importante.
E’ innegabile che nel corso delle varie recite parte del pubblico abbia espresso un certo dissenso nei confronti di questo spettacolo. Secondo lei cosa non è piaciuto?
Intanto vorrei premettere che a parer mio la dialettica è un elemento di fondamentale importanza nel mondo della lirica. A volte assistiamo ad allestimenti che passano inosservati, senza trasmettere alcun input di critica o di entusiasmo. Io credo che l’opera sia prima di tutto spettacolo, pertanto ritengo opportuno che il pubblico assuma nei suoi confronti un atteggiamento di partecipazione. Nel corso delle recite ci sono state reazioni molto diverse e discordanti fra loro: alla prima il dissenso è stato indirizzato prevalentemente alla regia, non tanto agli interpreti, ma gli applausi sono stati comunque numerosi, e di sera in sera la situazione è andata migliorando. Caso strano all’ultima recita sono volati addirittura i fiori. Ma tornando alla sua domanda, credo che ciò che abbia dato maggiormente fastidio agli spettatori sia stato, sul versante critico, storiografico e musicologico, il rimaneggiamento della partitura originale a fini registici. Il sacrilegio è stato l’intervento diretto su ciò che Gluck ha scritto. Il progetto in sé mi è piaciuto sin da subito, manteneva il sapore antico dei tanti riadattamenti compiuti nel corso dell’iter evolutivo della prassi esecutiva dell’opera. Forse la modifica più radicale operata da David Alagna, che peraltro conosce benissimo la partitura, dalla prima all’ultima battuta, è stata quella di anticipare il “Tendre Amour” del finale con l’intenzione di costituirne un prologo rielaborato per coro. Tutto il resto è rimasto più o meno fedele all’originale gluckiano, certo con cambi di tonalità, ma questo era già stato fatto in passato. Cosa non è piaciuto quindi?... Lo spettacolo aveva un fondamento inattaccabile, ma probabilmente è stato recepito come truce perché privo di lieto fine, o magari non è stata tollerata l’assenza di una figuratività tradizionale dei personaggi protagonisti, un Orfeo dipinto con la lira ed un’Euridice angelicata. Ciò non toglie che la rivisitazione in chiave contemporanea avesse una sua logica.
Al di là del gusto estetico personale, è indubbio che l’allestimento si sia caratterizzato per una coerenza di fondo tra regia e scelte musicali. Ma fin dove può spingersi un’idea registica nell’influenzare il contesto musicale?
In questo allestimento la musica è stata concepita al completo servizio della scena. Si sarà reso conto che la scelta di determinate dinamiche ritmiche è stata dettata dagli episodi drammaturgici, alcuni più rilassati, altri più sostenuti. Ad esempio, all’ingresso del corteo funebre “Ah! Dans ce bois lugubre” era necessario poter disporre di più tempo affinché il coro potesse avvicinarsi e cantare, viceversa nel finale del primo atto, quando Orfeo varca la soglia del regno della anime beate sorretto dalle braccia delle Furie, si richiedeva un ritmo più incalzante che accompagnasse l’uscita di scena. Ogni collimazione tra musica e scelte visive è derivata da precise indicazioni registiche. L’operazione principale di David Alagna è stata proprio questa. Nel rimaneggiare la partitura ha relativizzato la musica nei confronti della regia. Certo è un caso limite, molto particolare. Solitamente quando si fa Aida, o Traviata, si adottano tempi più o meno codificati ed il prodotto finale è un effettivo connubio tra esecuzione musicale e regia. In questo caso no, la musica era volutamente messa al servizio dell’idea registica. I dissensi mossi da una certa parte della critica infatti non hanno riguardato l’aspetto squisitamente musicale. I più si sono chiesti perché mai un giovane direttore come me avesse accettato di sottoscrivere quest’operazione. L’ho sottoscritta e la sottoscriverei ancora, perché ho ritenuto che l’idea di David Alagna fosse uno spunto intellettuale interessante. A me è stato consegnato il prodotto finito, la mia scelta ultima era quella di accettare o rifiutare. Ed ho accettato.
Secondo lei il pubblico “contemporaneo” ha davvero bisogno di vedere in scena la “contemporaneità”?
Lei sa meglio di me che oggi in tutto il mondo la direzione principale è questa. Io vado forse un po’ controcorrente… Ad esempio ho appena diretto a Salerno un Rigoletto caratterizzato da uno straordinario attaccamento alla tradizione. Avvicinarmi ad una regia “contemporanea” non mi riesce sempre agevole. Tuttavia esistono regie e regie… Ne ho viste alcune terribili all’estero, insensate, prive di solide basi. Ma nel caso dell’Orfeo di Bologna, nonostante la trasposizione della vicenda ai giorni nostri, le provocazioni e gli intenti scandalistici, il regista ha perseguito e difeso una sua logica fino in fondo. Se avessi giudicato squallide le sue idee, avrei certo avuto qualche remora ad accettarne la direzione. Ho cominciato a studiare insieme a lui i bozzetti già da diversi mesi prima che la produzione venisse effettivamente realizzata, ed ho potuto maturare una mia opinione positiva sull’operazione, riconoscendole una significativa coerenza intrinseca.
Qual è la sua interpretazione del messaggio innovativo della riforma gluckiana nella storia della musica?
Gluck è un compositore che si colloca in un periodo storico di transizione, tra antiche atmosfere barocche e nuove intuizioni romantiche. Quando un maestro concertatore si avvicina a Gluck deve saper ponderare bene ciò che sta facendo. Può scegliere di eseguirlo con strumenti originali, con i colpi d’arco, le dinamiche e le messe di voce proprie del periodo barocco, oppure può cercare di sottolinearne i significati protoromantici. La partitura che mi è stata consegnata conteneva già in sé un’idea ben precisa dell’approccio stilistico con il quale eseguirla. Non si trattava certo di un Gluck barocco, ma forse nemmeno protoromantico. In questo caso specifico guardare all’opera con un approccio interpretativo prettamente filologico sarebbe stato un gravissimo errore. Dal primo giorno che ho cominciato a studiare la partitura mi sono concentrato sul fraseggio strumentale, cercando di conservare levità e rigori propri dell’espressività settecentesca, soprattutto nei recitativi, senza però mai dimenticare ciò che avevo davanti, ovvero l’Orphée et Eurydice di Roberto Alagna, Serena Gamberoni e Marc Barrard. Tutta la partitura è stata adattata a questo tipo di voci. Se in futuro dovesse capitarmi nuovamente di dirigere l’opera dovrei sicuramente ripensarne lo stile esecutivo. Il sapore, l’humus delle note sarebbe assolutamente diverso da quello che mi è stato richiesto qui.
Finora si è dimostrato un direttore quanto mai eclettico: ieri Gluck, oggi Puccini… E’ innamorato della musica in senso lato o sente una particolare attrazione verso un repertorio specifico? Pensa di tornare a frequentare l’opera barocca?
Io mi sento prevalentemente verdiano. Amo le opere di Verdi, ne ho dirette tantissime: Otello, Oberto, Traviata, Nabucco ed altre. Ma sin da quando ho intrapreso le prime esperienze direttoriali con l’As.Li.Co. nel 2000, ho cercato di avvicinarmi anche a Puccini con lo stesso entusiasmo e la stessa partecipazione emotiva. Ho diretto il Trittico a Milano con l’Orchestra Giuseppe Verdi, La Boheme con l’Orchestra Filarmonica d’Israele su invito di Zubin Metha, un’occasione straordinaria che mi ha aperto tantissime porte, ritornerò con La Boheme al Maggio Musicale Fiorentino... Ho diretto anche Rossini, ma mi sento prevalentemente un direttore “patetico”. Di Mozart, per esempio, ho affrontato Don Giovanni… Ma preferisco un altro tipo di sonorità, sono forse troppo “materico” per Mozart e Rossini. Occorre prestare molta attenzione nell’avvicinarsi a questi compositori. E’ necessario farlo con la dovuta esperienza e con grande devozione. Per ora ho seguito molto il mio istinto. Riguardo al barocco mi è stato consigliato da molti, ed ora come ora non escludo nulla. Sono giovane, la vita è lunga e chissà cos’ha in serbo per me.
Cosa significa essere già un affermato direttore d’orchestra a soli trentacinque anni?
Prima di tutto significa aver fatto una lunghissima gavetta fin da molto giovane. Ho alle spalle tantissimi anni di studio e tre concorsi internazionale importanti, ma soprattutto ho studiato con maestri che non solo hanno saputo insegnarmi a dirigere, ma che soprattutto mi hanno introdotto al mondo della filosofia della musica a livello emozionale. Tra questi voglio ricordare Yuri Ahronovich. Trentacinque anni… sì, al giorno d’oggi la società tende a dare dei giudizi… Io guardo alla mia carriera con grande entusiasmo. So che le difficoltà sono tante, perchè quando si mette la testa fuori dal sacco la gente comincia a guardarti. Alcuni mi apprezzeranno, altri meno, ma credo che in ogni caso occorra procedere diritti per la propria strada, altrimenti l’entusiasmo rischia di assopirsi. Ogni nuovo impegno che affronto lo vivo come una grande occasione per migliorare. Un direttore d’orchestra non deve mai sentirsi arrivato: l’esperienza è un elemento fondamentale in questa professione.
La nostra chiacchierata volge al termine e, ringraziandola per la cortesia che ci ha dimostrato, le porgo i miei più sinceri auguri per l’avvenire. Vuole rivolgere un saluto ai nostri lettori?
Ammetto di essere un fanatico di OperaClick e, posso dirlo tranquillamente… meno male che esiste uno spazio come il vostro! E’ l’unico punto di riferimento on-line in cui sia possibile scambiare opinioni in tempo reale. Visito il forum ogni giorno perché mi piace leggere a caldo le impressioni della gente… Quello che il mondo dell’opera dovrebbe evitare è proprio la noia e l’assenza di dibattito.
Filippo Tadolini