Il 27 aprile si alzerà il sipario su Il nome della rosa, la commissione più impegnativa – economicamente e produttivamente – affrontata in recenti anni dal Piermarini. Si tratta di un progetto davvero ambizioso che vede gli sforzi congiunti di Scala, Opéra de Paris, e Carlo Felice di Genova; Ricordi vigila su partitura e parti staccate e i fari sono tutti puntati su Francesco Filidei, in questo momento intento a raccogliere i successi di una stagione particolarmente favorevole. Il compositore ha accettato di incontrarci in uno dei pochi momenti di pausa dalle prove nella Sala Rossa della Scala per svelare (ma non troppo) qualche dettaglio della sua nuova opera.
Assieme alla Forza del 7 dicembre scorso, Il nome della rosa è senza dubbio il titolo più atteso della stagione 2024/2025; già due anni fa l’annuncio della commissione congiunta del Teatro alla Scala e dell’Opéra National de Paris con la coproduzione con il Carlo Felice di Genova (dove è compositore in residenza), la regia affidata a Damiano Michieletto e adesso l’annuncio del “tutto esaurito” registrato per tutte e cinque le recite. In tutto questo viene da domandarsi: perché proprio un adattamento del romanzo di Umberto Eco?
Ci sono molte motivazioni che mi hanno condotto alla scelta di questo soggetto. Innanzitutto era la buona scusa per far cantare i cantanti: uno va all’opera e si può domandare “perché cantano, perché non parlano?” e qui la buona scusa è la migliore che si possa avere: siamo in un’abbazia, quindi preghiera e quindi canto, se vogliamo possiamo anche dire canto gregoriano, ossia una base a-temporale su cui potevo adagiare stilemi propri della musica barocca, ottocentesca e contemporanea, quindi ogni personaggio poteva avere il suo “modo di fare” sopra a questo gregoriano. Un altro motivo è fornito dallo stesso Umberto Eco nelle postille al Nome della rosa, in cui scrive di aver pensato al romanzo come ad un ampio melodramma buffo con ampi recitativi e lunghe arie; certo, lui utilizza queste diciture per intendere qualcosa di più vicino alla narrazione, ma per quanto mi riguarda era una scusa perfetta per avere recitativi ed arie. Alla fine si tratta di un’opera che fa il verso anche al melodramma ottocentesco come il Don Carlos e Les Vepres Siciliennes (come Umberto Eco faceva il verso alla letteratura francese del periodo, da Dumas a Hugo) e, fra l’altro, quest’opera ha una versione in italiano e una in francese, riprendendo questa tradizione tipica dell’epoca. In sostanza abbiamo due frati che pigiano il bottone sul monaco di turno e questo canta la sua aria, è la scusa perfetta perché racconta quel che è successo con il suo modo e il suo stile di canto.
È interessante anche la struttura fornita dal romanzo: sette giornate nel romanzo, sette giornate nell’opera e ogni giornata è divisa secondo le ore liturgiche quindi potevo usare i canti gregoriani propri del giorno e della specifica ora di quel 1327. A proposito di struttura, la divisione in due atti è utile a sviluppare una concezione sia operistica sia sinfonica, e qui si torna a Eco che nei suoi libri (tranne in Numero zero) si è sempre comportato come Mahler, arricchendo le proprie pagine di citazioni che non è necessario riconoscere ma sono presenti, e in sostanza ho strutturato questi due atti come due sinfonie: ci sono tre movimenti separati nel primo e tre/quattro nel secondo con una doppia possibilità di lettura.
Questa è la terza fatica operistica, dopo Giordano Bruno e L’inondation. Parlando di quest’ultima, ha definito l’opera una «forma “morta”, senza più la forza di un tempo e il suo peso sociale è ormai solo un ricordo, ma nel suo essere strumento inevitabilmente passato trova la sua forza» aggiungendo di sentirsi «come se sollevassi il cadavere di un’opera dimenticata per farlo danzare ancora una volta». Come si inserisce questo nel suo rapporto con l’oggetto opera? Anche nella stesura del Nome della rosa ha conservato la stessa prospettiva?
È la forza che citava Pasolini, la forza del passato, la forza delle cose che non sono più. Trovo molto più interessante riferirmi a delle forme che tengono al loro interno tutta la malinconia di ciò che sono state rispetto agli strumenti di oggi che non hanno questa patina del passato e quindi quello che, secondo me, è il fascino delle nostre radici. Senza radici, senza ricerca del passato non si costruisce nulla. Data la struttura a forma di rosa, ho immaginato quest’opera – un po’ come il Giordano Bruno, ma questa in modo speciale – come un’istallazione di arte contemporanea all’interno di un museo, fatta di quadri ottocenteschi incastonati in una struttura metallica, perciò una cornice che ne dà un senso nuovo. Ogni quadro è abitato da un colore diverso, grazie all’orchestrazione e allo stesso colore tonale: un giallo, un verde spiaccicato, una patina proprio sopra al vissuto della storia, e volendo si può anche togliere il colore per osservare cosa c’è dietro in prospettiva storica.
Qualcuno ha etichettato Il nome della rosa come grand opéra, principalmente per la durata (tre ore, intervallo incluso) e il numero di personaggi. Restando sul tema del dialogo fra passato e presente, esiste una effettiva continuità fra un’opera del XIX secolo e una del 2025?
È senza dubbio quello che ho cercato di creare, un’opera che compenetrasse questo divario temporale e, se vogliamo, è un altro dei motivi che mi ha condotto al Nome della rosa. Umberto Eco ha iniziato nel Gruppo 63, un gruppo di sperimentatori di cui facevano parte Nanni Balestrini e Sanguineti, un gruppo che ha prodotto romanzi magnifici come Vogliamo tutto, Gli invisibili e Capriccio italiano che però sono rimasti per una nicchia di persone, invece Il nome della rosa è riuscito a passare al grande pubblico senza rinunciare al lato della ricerca e questo è interessante. Non capisco perché non si possa avere un primo strato di comprensibilità e di lettura ma senza rinunciare alla ricerca, questo è quello che ho cercato di fare. Per me la ricerca passa più dall’orchestrazione e dalla strutturazione della forma che dalle voci, anche se queste hanno il loro perché e, come detto, ognuna canta in modo differente: all’interno di queste si spazia da Perotinus fino a Stockhausen, dall’Ottocento con Richard Strauss, Flotow e Saint-Saëns a Sciarrino.
Parlando dei collegamenti con i grandi autori, dai classici fino a Berio e Stockhausen, la drammaturgia non è un elemento destinato a essere confinato solo nel perimetro di un palcoscenico ma può investire tutti i parametri della composizione. Qual è il suo rapporto con la drammaturgia? E nella sua poetica compositiva esiste una drammaturgia extra-teatrale?
In questo caso specifico, ho sentito l’esigenza di controllare a fondo il libretto e lo scheletro dell’opera, per il semplice fatto che una volta che il libretto funziona opera e personaggi vanno da sé. Io e i miei collaboratori abbiamo passato un anno e mezzo a cercare di fare una sintesi di tutta quella matassa di materiale che è il Nome della rosa ed è stata la cosa più difficile: finito questo, per l’appunto, i personaggi sono andati da soli. È stata un’esperienza simile (e questo mi è sembrato di buon auspicio) a quella di Eco che, prima di mettersi a scrivere, ha disegnato l’abbazia e i volti dei monaci e, iniziata la stesura, ha trovato che questi avevano già una loro essenza. Anche in questo risiede la forza del Nome della rosa e può essere analizzata attraverso diversi strumenti: il fumetto di Manara, il film di Jean-Jacques Annaud, la serie e via dicendo. Ogni strumento ha la capacità di restituire diversi layer di questo labirinto, quindi in un’opera la lettura come giallo esce meno, invece esce molto bene proprio il labirinto, anche grazie al contrappunto. Per rispondere alla domanda, la drammaturgia interna della musica è data dalle immagini, essendomi rapportato molto all’iconografia menzionata nel libro; ad esempio, quando canta Jorge da Burgos (e non a caso canta dodecafonico) presenta sempre un madrigalismo che trasforma la parola in immagine. Più in generale, senza entrare nel discorso della semiologia, quando si menziona il cavallo si sente il cavallo, quando si parla delle cicale si sentono le cicale, icona dopo icona.
Restiamo sul libretto. A differenza dei due titoli precedenti, in questo caso anche lei ha lavorato direttamente sul libretto, assieme al suo storico librettista Stefano Busellato con la collaborazione di Hannah Dübgen e Carlo Pernigotti. Coma ha affrontato la struttura del romanzo per piegarla alle esigenze dell’opera?
Carlo è stato straordinario e indispensabile per molte cose in questo progetto, come gli altri del resto. Diciamo che un compositore non può mai dispensarsi, a mio avviso, dal lavorare sul libretto con il librettista; lo si vede anche nello stesso Puccini: i libretti di Suor Angelica e Gianni Schicchi sono dei capolavori, ma se uno va a cercare i libretti che Forzano ha scritto per altri compositori non sono assolutamente dello stesso livello e questo significa che in quel caso il compositore ha giocato un ruolo importante. Oggi è molto più difficile perché il mestiere s’è perso e io avevo bisogno di persone fidate che potessero sopportarmi – l’hanno fatto in modo encomiabile – nel cercare di aiutarmi a tirare fuori quello di cui avevo bisogno per la musica. Il libretto può essere di una perfezione assoluta, ma se è già perfetto da sé non ha bisogno della musica, invece c’era bisogno di un testo che, assieme alla musica, generasse qualcosa di vivo e unico.
Già nel Giordano Bruno la struttura era una mia proposta, mentre Balestrini e Busellato hanno fornito i materiali; in quel caso il mio apporto era stato circoscritto, invece in questo ho tenuto in mano la situazione fin dall’inizio: o facevo così o non si sarebbe arrivati in fondo al progetto, alla fine sono quasi tre ore di spettacolo, 900 pagine di partitura, un vero mostro.
Si è accennato all’Umberto Eco semiologo e si è parlato molto della presenza di forme analoghe ad arie e recitativi in questo titolo, come si concilia l’idea del numero chiuso in un’opera del XXI secolo con il concetto di «opera aperta», indagato dallo stesso Eco nel famoso saggio del 1962?
Il concetto di opera aperta è rimasto lì perché Il nome della rosa è l’opera più chiusa che potessi immaginare, è una specie di tomo che riecheggia Sant’Agostino e io l’ho seguito pedissequamente a partire dalla sua struttura che è inequivocabilmente chiusa. Alla fine il discorso è semplice perché non si può aprire qualcosa che sia già aperto, quindi se l’idea è quella dell’apertura bisogna necessariamente partire da un materiale chiuso e credo se ne siano resi conto ben presto anche i musicisti ai quali faceva riferimento Berio con la sua opera aperta.
Più in generale, qual è il suo rapporto con la forma?
Il mio rapporto con la forma è quello di un occidentale, uno che ha avuto a che fare con il Cristianesimo e che è abituato a una passione, morte e resurrezione, in sostanza alla costruzione di una storia che passa da diverse tappe: la nascita, la vita e la morte. Il modo di analizzarle varia a seconda delle regioni, se uno è nato in Giappone o comunque in una situazione zen può vedere anche la musica come un qualcosa di aperto che è là e continua dall’infinito; questo tipo di esperienze si sono impiantate nell’esperienza americana dell’epoca di John Cage, ma alla fine io sono organista e la testa è strutturata in un certo modo: se devo cercare di capire una cosa la devo analizzare, devo tagliare il tempo da una parte e dall’altra, vedere il momento della nascita il più vicino possibile per cercare di vedere anche il momento della morte il più vicino possibile. Naturalmente ogni volta che vai lì e tagli ti accorgi del fatto che potrai cercare in continuazione e quello forse è il fine di tutto, ma l’unico modo per andare avanti – secondo il mio punto di vista – è costruire queste arcate temporali di respiro, perché noi respiriamo e le cose le percepiamo anche attraverso questa forma.
La sua musica è caratterizzata da un approccio fortemente materico, da un uso esteso dell’inarmonico (penso al battito dei denti e alle deglutizioni, alla Toccata per pianoforte o alla Danza macabra per pianoforte), ai found objects (il taser nel Requiem). Troveremo tecniche simili anche nel Nome della rosa?
Senza dubbio, è pieno zeppo di richiami di uccello e dell’armamentario tipico delle mie partiture, ma anche lì non è un caso che vengano utilizzati: quando si parla di lavori come Toccata contemplano solo rumori per riuscire a evidenziare più facilmente questa struttura ad arco come una specie di scheletro del tempo e quindi l’architettura si vede meglio; in seguito sono riuscito ad aggiungere il colore con il suono. Esiste anche un aspetto di ambiguità di queste cose, nel senso che utilizzando degli strumenti, degli objet trouvé del quotidiano si può evidenziare il momento in cui questi diventano rito e si cristallizzano in una struttura. A me piace una musica che si domanda perché è musica e partire dal quotidiano, strutturandolo e stigmatizzandolo, serve a creare quest’ambiguità. Del resto, Il nome della rosa è una ricerca di identità, infatti c’è sempre questo intervallo di quarta discendente “Chi sei? Chi sei?” che ritorna ed è la base dell’opera stessa: la ricerca del nome.
Luca Fialdini