Singolare, ma significativo è l’incipit dell’articolo pubblicato sul più importante quotidiano italiano in memoria di Roberto De Simone all’indomani della sua scomparsa, avvenuta a Napoli il 6 aprile scorso. Lo scritto inaspettatamente comincia col dare conto delle difficoltà dentarie del Maestro: “…il suo eloquio usciva da una bocca senza denti: gliene era rimasto uno solo, poi era caduto anche quello.” Citazione in memoriam quanto meno scortese per un signore di 91 anni appena defunto e del tutto sconsiderata se la regola d’ingaggio d’un "coccodrillo", come in gergo giornalistico è chiamato un tal tipo di contributo, è l’elogio funebre di un musicista, Accademico di Santa Cecilia, compositore e pianista, musicologo ed etnomusicologo, scrittore e saggista, autore teatrale, drammaturgo, regista e molto altro ancora, ma con un unico comune denominatore: il recupero e l’affermazione dell’attualità della cultura e dell’arte sia dotta che popolare della civiltà meridionale nel secolo dei Lumi ed oltre, in particolare di quella stagione che fu patrimonio europeo della Scuola Musicale Napoletana.
Missione vincente, sia in Italia che all’estero: il Festival di Salisburgo ha dedicato per cinque anni di seguito la sua sezione di Pentecoste alla Scuola Napoletana e alcune produzioni dirette da Riccardo Muti hanno poi girato il mondo in tournée e persino il Teatro di Mannheim, storicamente legato al culto mozartiano, ha riesumato e messo in scena un’opera seria napoletana, l’Alessandro, del dimenticato Ciccio De Maio. La verità è che sopravvive la tendenza – probabilmente inconscia nella circostanza – di scorgere forme di macchiettismo in qualsiasi figura si affacci da Napoli alla notorietà nazionale. Vero è che De Simone era nato in uno dei quartieri più popolari di Napoli, la Pignasecca un agglomerato di vicoli intorno all’antico ospedale dei Pellegrini, in una famiglia di teatranti – il padre faceva il suggeritore nelle compagnie di comici che giravano per i teatri minori della città – e per mantenersi agli studi in Conservatorio Roberto suonava il pianoforte nelle scuole di ballo private che danzatrici a riposo gestivano in economia.
Ma gli studi furono proficui, si diplomò suonando Mozart e partecipò a qualche concorso, ma non gli giovò provenire dalla Scuola di Titta Parise, soccombente rivale di quella dominante di Vincenzo Vitale. Fece però un primo salto di qualità sedendo al cembalo come “aggiunto” nell’Orchestra Scarlatti della Rai e lì incontrò per la prima volta sul podio un quasi debuttante Riccardo Muti, che ha ricordato l’episodio in un articolo commemorativo per la prima pagina del Mattino. In Rai trovò spazio anche come compositore, scrivendo tra l’altro le musiche che accompagnano le trasposizioni televisive delle commedie di Eduardo, ed ebbe tempo per coltivare altrove le sue passioni: il Teatro in un palcoscenico rabberciato nello scantinato di un palazzo chiamato "Teatro Esse" (“A Napoli – diceva – non c’è avanguardia musicale, ma avanguardia teatrale”) e nelle campagne del napoletano munito di un arcaico “Geloso” per registrare dal vivo i canti laici e religiosi di tradizione orale.
Fu dalla aggregazione di queste due componenti che nacque la Compagnia di Canto Popolare, operazione di rodaggio sfociata in quella Gatta Cenerentola , sintesi perfetta di teatro e musica che nel 1977 partì dal Festival di Spoleto verso il successo internazionale esplicitando in maniera luminosa i valori di in un linguaggio nuovo, vivo e moderno, ma poggiato sui canoni della tradizione antica. Creatività mai abbandonata – molteplici i titoli susseguitesi nel tempo, senza che la perfezione del capolavoro di esordio venisse raggiunta, tranne che in forma sinfonica con il Requiem per Pasolini del 1986 – ma trasferita a piene mani nel mondo della regia operistica. La prima opportunità gli venne offerta da Massimo Bogianckino nel 1979 per il Maggio Fiorentino, De Simone propose e mise in scena Le Zite ‘ngalera di Leonardo Vinci – titolo e autore pressoché sconosciuti – che fece da apriporta alla lunga serie avviata dal San Carlo nel quadro di un progetto pluristagionale concordato tra lui e me, che di quel Teatro ero diventato il sovrintendente e lui il direttore artistico:13 titoli per 147 rappresentazioni anche in tournée , con recuperi di autori al tempo desueti, da Pergolesi (La serva padrona, Stabat Mater, Flaminio), Jommelli (La schiava liberata), Paisiello (L’idolo cinese, Il divertimento dei Numi), Tritto (Il convitato di pietra), Cimarosa (Il Maestro di cappella, Il marito disperato, Il matrimonio segreto), Fioravanti (Le cantatrici villane). Cui si aggiunsero la Festa teatrale per i 250 anni del Teatro, su musiche scelte e assemblate da De Simone e Donna Leonora, protagonista Vanessa Redgrave, su musiche originali del Maestro.
Non ancora arrivata, per fortuna, la moda oggi dominante del cosiddetto "teatro di regia" lo stile di De Simone, volutamente barocco, ma fedelissimo al testo musicale e drammaturgico, di pulizia formale, eppure di spiccata comunicativa teatrale, lo condusse a firmare titoli anche fuori dal catalogo di partenza e in teatri di prestigio, primo fra tutti La Scala (Nabucco, per l’inaugurazione della stagione 1986-87, poi Orfeo ed Euridice, Idomeneo, Flauto magico, ma anche il napoletanissimo Lu Frate ‘nnamurato, sempre con Riccardo Muti sul podio); a Monaco di Baviera (Macbeth) e Vienna (Così fan tutte, Don Giovanni). Il valore puramente musicale del signore senza dentiera ebbe riconoscimento con la nomina per chiara fama a direttore del Conservatorio San Pietro a Majella, che ha governato per cinque anni e quello letterario con 11 opere di saggistica pubblicate da Einaudi tra il 1977 e il 2019.
Negli ultimi anni ha vissuto in disparte, anche per la politica spocchiosa verso la cultura nostrana attuata per il San Carlo dal sovrintendente francese Lissner, che ha sbattuto la porta in faccia oltre che a lui anche a Riccardo Muti, già impegnato per un’opera e tre concerti, ed al direttore del Ballo in carica Picone, tutti napoletani. Ma la città ha onorato a dovere – contrariamente al lamento dei tanti cultori del nemo propheta in patria prontamente intervenuti nella circostanza – la sua memoria, con la camera ardente nel San Carlo, i funerali in Duomo celebrati dal Cardinale Arcivescovo e il lutto cittadino proclamato dal Sindaco.
Francesco Canessa
Sovrintendente Emerito del Teatro di San Carlo