Seiji Ozawa, scomparso il 6 febbraio nella riservatezza della sua casa di Tokyo, era nato il 1° settembre 1935 a Mukden, la capitale della Manciuria allora occupata dai Giapponesi, dove il padre svolgeva attività di dentista (la città è oggi nota con il nome cinese di Shenyang). Già prima del ritorno in patria con la famiglia nel 1944, aveva cominciato a studiare pianoforte, ma nel 1950 un incidente mentre giocava a rugby gli causò la frattura deformante di due dita, ponendo fine alle sue speranze di strumentista. Un insegnante sensibile e intelligente lo convinse a studiare a fondo composizione per dedicarsi alla direzione d’orchestra. Nel 1958 Seiji si diplomò sotto la guida del maestro Heito Saitō, che ricorderà sempre con grande ammirazione. A cavallo degli anni Venti e Trenta Saitō aveva studiato molti anni in Germania e ovviamente prediligeva il repertorio tedesco, insegnando ai suoi allievi che “la musica è in primo luogo espressione”.
Durante questi anni di studio, il giovane s’era “fatto le ossa” dirigendo spesso le orchestre amatoriali in cui sonavano i suoi compagni di scuola. Fresco di diploma, consapevole dalla propria forza di volontà e, sembra, contro il consiglio dello stesso Saitō, Ozawa decise di perfezionarsi in Europa, che raggiunse con un viaggio di tre settimane a bordo d’una nave da carico che faceva rotta da Kobe a Marsiglia: era riuscito a superare le pesantissime limitazioni ai viaggi all’estero ancora in vigore nel suo Paese tredici anni dopo la catastrofe del 1945 solo grazie all’aiuto del padre d’un compagno di studi, che sperava di trovare investitori in Francia per la sua attività di fabbricante di scooter. Dopo un anno, evidentemente molto proficuo, vinse il Concours international de jeunes chefs d’orchestre de Besançon. A questo punto comincia, perlomeno nell’edizione italiana intitolata Assolutamente musica, il racconto della propria vita artistica (ma non solo) che Ozawa fece nel 2011 allo scrittore Haruki Murakami (le notizie sulla giovinezza provengono dalla recensione dell’edizione inglese delle stesse conversazioni, Absolutely on music, pubblicata nel 2016 da W. David Marx nel sito “The New Republic”).
Il vincitore di Besançon fu notato da Charles Munch, che nel 1949 era succeduto a Serge Koussevitzky (Sergei Aleksandrovič Kusevickij) alla testa della Boston Symphony Orchestra e gli propose di seguire il corso estivo al Berkshire Music Center, filiazione della Boston Symphony oggi nota come Tanglewood. L’anno seguente gli fu attribuito il premio (non periodico, ma di carattere straordinario) intitolato allo stesso Koussevitzky, che comportava anche una borsa di studio per uno stage con Karajan. Mentre studiava a Berlino, Ozawa mostrò doti cosí straordinarie che Leonard Bernstein, allora alla testa della New York Philharmonic Orchestra, lo invitò a far parte della sua terna d’assistenti per la stagione 1961-62. E straordinarie dovevano essere anche le sue capacità di relazione, perché terminato l’anno con Bernstein non ebbe difficoltà a tornare da Karajan, restando cosí l’unico direttore emergente che abbia studiato con entrambi i “mostri sacri” dell’epoca, contrapposti a quei tempi come apollineo e dionisiaco.
A New York, Bernstein lo presentò al pubblico in un modo insolito, annunciando che un suo giovane assistente avrebbe diretto il bis d’un concerto in vece sua. La motivazione era semplicissima e non ammetteva replica: “desidero farvelo conoscere”. “Non credo che il pubblico fosse contento”, commenta ironicamente Ozawa, “ma alla fine applaudí con calore”. Tornato in Germania diresse per la prima volta il Berliner Philharmonisches Orchester nel 1962. Racconta Ozawa che dopo il concerto Karajan gli disse: “con la mia orchestra non è necessario che lei dia l’attacco a ogni strumento”; ma aggiunge che il giorno dopo, alla replica, fece allo stesso modo contando sull’assenza del Maestro.
Interpretare correttamente conversazioni tradotte è sempre un po’ aleatorio e anche personale, ma dalla lettura in italiano di Assolutamente musica ho tratto l’impressione che, sotto sotto, Ozawa reputasse d’essere stato maggiormente influenzato da Karajan che da Bernstein. Comunque sia, parla del primo con molta deferenza, premettendo sempre il titolo di Maestro o indicandolo come tale per antonomasia. Con Bernstein è piú sbrigativo, ma gli attribuisce un’influenza determinante: a quei tempi, a suo dire, era l’unico direttore che avesse in repertorio Mahler. A dire il vero, erano ancora attivi sia Scherchen, sia Klemperer, ma non ne avevano registrato tutte le sinfonie e certamente Ozawa intendeva contrapporlo in questo a Karajan.
Come si sa, nemo propheta in patria: nello stesso anno 1962, a Tokyo, alcuni strumentisti della prestigiosa Orchestra NHK (la Radio-televisione giapponese) si rifiutarono d’essere diretti ancora da lui, non apprezzandone né le idee né i metodi. Il non ancora trentenne non si perse d’animo e riuscí a fare in modo che nella stessa capitale fosse fondata un’altra orchestra sinfonica. Ma una volta, tra i suoi ascoltatori era capitato il compositore francese Olivier Messiaen, che ne rimase molto colpito.
“Il resto è storia.” Terminato il secondo periodo a Berlino cominciò a dirigere come ospite l’orchestra di San Francisco e nel ’64 la Chicago Symphony gli affidò la direzione del Festival estivo di Ravinia, che terrà per cinque anni. Dopo il secondo assistentato a Bernstein nel 1964-65, ebbe il primo incarico stabile come direttore della Toronto Symphony, dal 1965 al ’69. In questo periodo fece le prime comparse a Salisburgo e alla Scala, dove per due anni di séguito (’66 e ’67) diresse il primo concerto dell’allora nutrita stagione sinfonica d’estate e autunno e nel '70 sarà il primo a riprendere l’Ottava sinfonia di Mahler dopo la pionieristica prima esecuzione locale di Scherchen.
A Toronto cominciò una regolare attività di registrazione, in cui Murakami trova maggior fuoco che in alcune “rivisitazioni” successive: si stava infatti stabilendo in quegli anni la prassi di mercato far registrare piú volte allo stesso interprete gli stessi pezzi. Ozawa non nega il fuoco, ma sottolinea la maggiore precisione e la particolare qualità del suono raggiunte successivamente. Legato da crescente amicizia con Messiaen, tentò di programmare l’esecuzione integrale delle sue composizioni, ma fu frenato dall’amministrazione dell’orchestra che temeva una flessione delle vendite dei biglietti. Una decina d’anni dopo avrà la soddisfazione di convincere Rolf Liebermann a commissionare a Messiaen la monumentale opera Saint-François d’Assise, che dirigerà in prima assoluta al Palais Garnier nel 1983. Ricorda anche d’essere stato inflessibile nel rinnovamento dei ranghi dell’orchestra, che aveva trovato “piuttosto mediocre” all’inizio del suo mandato.
Dal ’70 ebbe per sei anni la direzione della San Francisco Symphony: una collaborazione non priva di dissapori anche se Ozawa aveva riportato l’orchestra nel mercato del disco dopo dodici anni d'assenza: nel '74 non fu avallata la sua scelta di due nuovi strumentisti. Ma nel ’73 aveva raggiunto uno dei suoi incarichi piú prestigiosi, la direzione della Boston Symphony Orchestra, che portò progressivamente a un prestigio tale da rivaleggiare con la mitica Chicago Symphony di Solti. Lascerà Boston dopo ventinove anni (una durata senza precedenti nella storia della BSO) e in perfetta armonia, solo per assumere la direzione musicale della Wiener Staatsoper, coronamento d’una carriera prestigiosissima. Nel 2010 la diagnosi d’un tumore all’esofago lo indusse alle dimissioni. Dopo le cure riprese un’attività molto ridotta e diresse per l’ultima volta verso la fine del 2022, da una sedia a rotelle: l’ouverture dell’Egmont.
Ozawa s’era confrontato con l’opera per la prima volta nel 1969 a Salisburgo, quando Karajan gli affidò Cosí fan tutte. A Milano diresse dalla buca in cinque occasioni, sei recite ogni volta: Tosca nel 1980, con la Marton e poi la Kabaivanska, e il baritono Wixell, Scarpia troppo signore per certi gusti, e Pavarotti che consolò amabilmente il direttore dei fischi ricevuti per avere segnalato dal podio a… Pavarotti di non tenere i suoi acuti tanto a lungo quanto il loggione avrebbe gradito. Fu per me un’esecuzione rivelatrice della potenza strutturale di Puccini. Seguirono nel 1986 e nel ’90 le due opere piú note di Čajkovskij, starring entrambe le volte la Freni assurta a mito del pubblico, un eccelso Shicoff come Lenskij e poi un atletico Atlantov come Ghermann. Un anno prima della Donna di picche era stata la volta dell’Oberon, con un Langridge non meno bravo di quel che era stato come Šujskij nel ’79 con Abbado e sarà nel 2000 come Peter Grimes con Tate. Nel ‘95 Ozawa ritornò per la realizzazione scenica della Damnation de Faust secondo Luca Ronconi, ripresentando la partitura che dodici anni prima aveva realizzato con non minore efficacia nell’originaria forma oratoriale: si trattava in effetti d’uno di cavalli di battaglia del direttore e della sua orchestra bostoniana, consacrato dalle esecuzioni a Salisburgo nel 1979.
Esaurita la stagione milanese, la sede dove ascoltare in Italia il direttore divenne Firenze. Al Comunale aveva debuttato nel 1995 portando a uno strepitoso successo la Seconda sinfonia di Mahler e non meno applauditi saranno i suoi ritorni. Vidi nel 2002 il Peter Grimes, nel 2008 la famosa Elektra con la regia di Carsen che tre anni prima aveva inaugurato l’attività della Tokyo Opera Nomori, e nel 2009 la bellissima Volpe astuta. Persi invece l’altro celebrato spettacolo che nel novembre del 2006 Ozawa aveva portato dal Giappone, la realizzazione scenica dell’Elias di Mendelssohn nata per il “suo” Saitō Kinen Festival di Matsumoto. Nell’anno che l’aveva visto cancellare completamente l’attività a Vienna per il susseguirsi di polmonite ed herpes zoster, fu questo uno di pochi impegni mantenuti dal maestro giapponese: segno evidente nella fiducia che riponeva nella qualità delle masse artistiche fiorentine che avrebbero avuto una grande parte nella realizzazione locale.
Il Festival di Matsumoto, fondato nel 1992, porta il nome del maestro che ho ricordato all’inizio, al quale Ozawa era molto grato. L’attività di questa manifestazione si basa sulla Saitō Kinen Orchestra, costituita ogni anno a partire dal 1984 con strumentisti giapponesi impegnati professionalmente in altre parti del mondo e disponibili solo per un breve periodo. Il criterio di formazione temporanea, ma ripetuta, mi sembra essere stato il modello seguíto da András Schiff per la sua Cappella Andrea Barca a partire dal 1996 e Claudio Abbado per la Lucerne Festival Orchestra dal 2003 in poi.
Seiji Ozawa non è quindi stato solo un direttore amatissimo per i suoi risultati artistici. È stato anche un prodigioso organizzatore e un grande protagonista del mercato musicale come s’è configurato a partire dall’era Karajan. Osservare questo non significa, sia ben chiaro, condividere le spiritose cattiverie che si leggono, anche a suo carico, perlomeno nella prima edizione del noto libro La direzione d’orchestra – Grandi direttori di ieri e di oggi, uscita nell’ormai lontano 1985. Con Ozawa sul podio, invece, si poteva essere sempre sicuri che si sarebbe ascoltata una presentazione attendibile, brillante e coinvolgente della musica eseguita.
(In questo ricordo si è preferito seguire l’uso europeo, che antepone il nome di persona a quello di famiglia. L’uso giapponese è l’opposto.)
Vittorio Mascherpa