La scomparsa di Maurizio Pollini, lo scorso 23 marzo, reca con sé dolore e costernazione, ma anche nostalgia e una ridda di ricordi per chi come il sottoscritto (e siamo in tantissimi) ha amato la sua musica ed è cresciuto con essa. Le righe che seguono non avranno quindi il rigore di una short bio, e rifuggiranno anche da ogni intento agiografico. Si citeranno eventi e notizie senza alcuna pretesa di esaustività, anche perché si tratta di fatti sin troppo noti; l’intento è principalmente quello di ricordarlo con affetto.
La vita di Pollini è stata come un lungo recital, la cui bellezza e importanza si possono comprendere a pieno solo quando si è consumata l’ultima nota in sala. Una lunga parabola segnata dalla curiosità intellettuale, da un’etica benedettina del lavoro, dai giusti incontri formativi e professionali e soprattutto dal coraggio di essere sempre se stesso.
Nato in un ambiente culturale stimolante ed all’avanguardia, ne ha respirato sin da giovanissimo le istanze di rinnovamento tra architettura, musica e arti plastiche, con insaziabile avidità di imparare. La sua precocità, raccontano gli annali, non è stata solo puramente musicale e strumentale, ma anche culturale. Pollini è stato un preadolescente che sapeva discettare senza difficoltà del Wozzeck e tormentava con continue domande i suoi interlocutori, molto più sorpresi che infastiditi da quella curiosità.
Il diciottenne dalla voce già profonda e misurata che stravince nel 1960 il concorso “Chopin” quasi in uno stato di trance, ha già una tremenda consapevolezza dei propri mezzi. È un ragazzo già fatto uomo che ringrazia i giurati, compreso uno stupefatto Artur Rubinstein, come fossero suoi pari.
Il giovane Pollini, già carico di gloria dopo Varsavia, sceglie da subito la strada dell’approfondimento, della meditazione sulle proprie capacità e scelte di repertorio, con atteggiamento non comune in un ventenne. Il retroterra culturale e intellettuale da cui proviene gli impedisce di “commercializzare” il suo già enorme talento, a favore di uno scavo più profondo, premessa per la raccolta di frutti ben più importanti.
E questi non tarderanno ad arrivare nel decennio successivo, innanzitutto con la folgorante incisione per Deutsche Grammophon delle ultime cinque sonate di Beethoven, un’interpretazione che ha fatto storia e scuola insieme. A questa si aggiungono le memorabili incisioni chopiniane (Studi,Preludi, Polacche), i primi saggi di Schubert (Wanderer Fantasie) e Schumann (Fantasia op. 17). Questi i tre compositori-cardine che lo seguiranno per tutta la vita, ed in particolare Schumann e Chopin costituiranno l’ossatura della maggior parte dei sui recital negli ultimi vent’anni di carriera. Di Schubert si ricorderanno invece le ultime tre Sonate, incise nel culmine della sua maturità di interprete.
Meno battuto invece Liszt, di cui si ricorda tuttavia una Sonata in si minore di coerenza adamantina, mentre completamente assenti sono Rachmaninov, che certo non godeva di buona fortuna negli anni della formazione di Pollini, e Scriabin, poco affine alla natura del pianista milanese. Compositori sostituiti dalla seconda scuola di Vienna, nonché da Stravinskij e Prokofiev (il disco con Petruška, la Sonata op. 83, Variazioni op. 27 di Webern e la Seconda Sonata di Boulez è una pietra miliare di quel repertorio).
Il suo interesse per le avanguardie è stato come una battaglia politica. Non egoistico interesse culturale, ma missione per far conoscere quella musica suonandola in ogni dove, proponendo la logica del “baratto”; pochi minuti di musica contemporanea in cambio della Polacca Eroica di Chopin o altro pezzo celebre. Entrata nel mito è poi la sua interpretazione proprio della Seconda Sonata di Boulez, prodigiosa non solo perché eseguita a memoria (davvero un’impresa straordinaria) ma soprattutto perché accostata senza paura ai capolavori di Beethoven o del romanticismo, a costo di far storcere musi in sala. Un’equiparazione che è stata la migliore testimonianza di un impegno intellettuale autenticamente militante.
E anche di militanza politica si colorò la sua attività di concertista, cercando di affermare ideali politici e civili attraverso gesti coraggiosi e plateali, finanche suonando nelle fabbriche e in nome di cause quali la pace in Vietnam, insieme agli amici Nono e Abbado.
Il sodalizio con quest’ultimo fu uno dei più fecondi della storia dell’interpretazione musicale, ma fu meno razionale e impostato di quanto si possa pensare, mentre in buona parte fu basato su un’intesa spontanea e un misterioso comune sentire, sempre rinnovato al momento del concerto.
Lo stile pianistico di Pollini è stato quanto di più realmente originale si potesse ottenere dall’intento programmatico di non voler essere originale a tutti i costi. Un mirabile equilibrio di piani sonori, giustapposti con architettonico scrupolo, un’agogica tanto bilanciata quanto naturale: il tutto rinsaldato dal filo d’acciaio di una tecnica abbagliante. Quanto a quest’ultima, mai troveremo nella carriera di Pollini un compiacimento da giocoliere: perfino le ottave spettacolari sono state sempre piene di senso e spessore.
Gli ultimissimi anni di carriera hanno svelato – a tratti drammaticamente, come nel concerto di Londra dello scorso anno – la ferrea volontà del pianista di non rinunciare alla propria ragione di vita, ovvero offrire generosamente la musica e condividerne la bellezza con gioia sempre rinnovata. Laddove altri, sensibili alle ragioni di un certo decoro professionale, hanno ponderato l’abbandono con prudenza, Pollini ha veramente gettato il cuore oltre l’ostacolo, cercando di suonare anche un repertorio precluso alle sue ormai offuscate capacità.
Oggi Milano lo omaggia, riconoscendolo come uno dei suoi figli più illustri; nel foyer della Scala, eccezionalmente trasformato in camera ardente per l’artista, aleggiava un clima di profondo, autentico cordoglio. E Pollini a sua volta ha saputo ben incarnare lo spirito della sua città, l’operosità, l’apertura intellettuale e l’anelito al progresso.
Concludendo, mi piace ricordare anche il Pollini che, cedendo con riluttanza ad alcune logiche commerciali, arrivò a comparire in trasmissioni generaliste come Che tempo che fa, in occasione dell’uscita del suo ultimo cd dedicato ai Notturni di Chopin. Durante quell’intervista il pianista cominciò ad infervorarsi parlando nientemeno che del puntillismo musicale e in quel frangente si potè vedere il suo interlocutore sudare freddo: per quanto fosse (e sia ancora) un conduttore illuminato e attento ai casi della cultura, Fazio probabilmente stava pensando al calo dell’audience dovuto all’argomento trattato, devastante per lo spettatore medio italiano. Pollini, chiaramente indifferente ai dati Auditel, continuò invece allegramente a descrivere i processi compositivi di quella corrente musicale, affermando più volte con la sua voce roca e profonda: “tutto ciò è estremamente interessante!”.
Ecco, questo era Maurizio Pollini. Un uomo in cui si fondevano mirabilmente talento, intelletto, entusiasmo e coerenza. Ascoltando o leggendo le sue interviste si può apprezzare sempre un modo di parlare misurato, soppesato, strutturato ma intimamente musicale, e in cui intercettiamo con sorprendente frequenza le parole “interessante” e “straordinario”, riferite all’oggetto della conversazione. In qualche modo egli parlava come suonava: con il rispetto e la cura della parola così come del suono. E lo faceva sempre con riferimento ad argomenti e musiche che lo entusiasmavano.
E quando, sempre in quella famosa intervista, Fazio gli chiese il motivo per cui si dovesse puntare sempre sulla qualità, il Maestro rispose con un frase che involontariamente riassume il credo di tutta la sua vita: “perché la qualità fa bene”.
Lorenzo Cannistrà