Ricordo molto bene l’impressione di smarrimento che provai nel gennaio 1988 quando si seppe della scomparsa di Evgenij Mravinskij, da pressoché mezzo secolo direttore della Filarmonica di Leningrado (nome ufficiale: “Orchestra Sinfonica della Filarmonia di Leningrado”). Il maestro petroburghese par excellence aveva trasformato un buon complesso, sorto nel 1882 come ornamento di corte, in una delle migliori compagini strumentali del mondo, con timbro inconfondibile, infallibilità strumentale, sonorità inimitabile nei pianissimo.
Quella perfezione e una tradizione interpretativa ancorata nel classicismo apparivano quasi aproblematiche, e taluni non mancavano di storcere un po’ il naso: questo era avvenuto, ad esempio, dopo una Quarta di Brahms eseguita nel novembre del 1972 alla Scala durante la terza tournée dell’orchestra nel nostro Paese, e poi, con toni piú sostenuti, nel 1978, quando Mravinskij ripresentò paro paro il programma di diciott’anni prima, con quelle che, irriverente quattordicenne, m’ero permesso d’etichettare come le due “Quinte nazionali” russe: di Šostakovič e Čajkovskij… Fu paragonato, il già molto anziano (perlomeno con i criteri d’allora) Mravinskij, a un «ammiraglio in pensione»; e la critica gli contrappose il suo “secondo,” il trentacinquenne Mariss Jansons che aveva diretto con piglio travolgente un programma senza dubbio meno “scontato”. Ma l’anno seguente il direttore lèttone comincerà da Oslo la sua meritatissima carriera in “Occidente”. Chi sarebbe stato il successore del “grande vecchio”? si sarebbe mantenuta quell’unicità estranea allo star system di stampo anglosassone?
Pressoché ignoto al di fuori della cerchia degli “addetti ai lavori” era a quel tempo in Italia il nome di Jurij Hatùevic Temirkànov, scelto nel 1967 come assistente da Mravinskij, che ne aveva fatto il proprio delfino. Nel 1976 ebbe la direzione dell’Opera Kirov di Leningrado, l’attuale Teatro Mariinskij di Pietroburgo, con il titolo di “direttore artistico e direttore d’orchestra” e da allora cominciò a brillare di luce propria; ovvia, quindi, la sua assenza dalla tournée italiana della Filarmonica nel 1978. Il suo debutto alla Scala ebbe luogo nel giugno del 1982 con l’orchestra locale, nell’ambito della stagione sinfonica in abbonamento: il programma comprendeva il Concerto per violino di Brahms (solista Shlomo Mintz) e la Sesta di Šostakovič, due pezzi prediletti dal suo mentore Mravinskij.
Temirkanov era nato nel dicembre 1938 in una delle repubbliche “autonome” della RSFSR (oggi Russia): la Cabardino-Balcaria, sulle pendici settentrionali del Caucaso. Aveva cominciato lo studio della musica a nove anni e a quattrodici fu ammesso alla “Scuola secondaria speciale” del Conservatorio di Leningrado, che preparava i giovani particolarmente dotati. Come allievo e "aspirante" dello stesso Conservatorio, si diplomò in viola nel 1962 e poi in “direzione operistica e sinfonica” con il celebre didatta Il’ja Musin, debuttando in buca nel 1965 con la Traviata al “Piccolo teatro d’opera e balletto” di Leningrado (oggi Teatro Aleksandrinskij) e vincendo l’anno seguente il “Concorso nazionale pansovietico di direzione d’orchestra”; questo gli valse la prima tournée in Europa e negli Stati Uniti, al séguito di Kirill Kondrašin. Nel 1988, dopo la scomparsa di Mravinskij, ne raccolse il testimone alla testa della Filarmonica di Leningrado, che nei primi anni Novanta riprese il nome della capitale petrina e che Temirkanov diresse fino alle dimissioni nel 2022 per motivi di salute (gli è succeduto Nikolaj Alekséjev, nato nel 1956). Il ruolo divenuto vacante all’Opera Kirov fu affidato a un altro brillantissimo allievo di Musin, Valerij Gergiev, che lo ricopre tuttora.
Nei trent’anni più recenti l’orchestra “di” Temirkanov divenne una presenza molto frequente anche fuori della Russia (prima, le tournée della "Leningrado" si potevano considerare un evento non solo artistico ma anche politico). Ricordo molto bene la prima volta che la ascoltai con il nuovo titolare, alla Sala Verdi in un programma che culminava nella Quarta di Čajkovskij. Nulla era andato perso della formidabile tecnica dei tempi di Mravinskij; fu incredibile la precisione del pizzicato degli archi e gli ottoni furono come sempre impeccabili (restano gli unici che non ho assolutamente mai sentito sbagliare qualcosa). Ma quel che mi colpì maggiormente fu il senso di composta espressività dell’insieme. Nessuna concessone al bagno di sentimentalismo che finiva spesso, e talvolta finisce anche oggi, per deturpare le esecuzioni ciaicovschiane, ma anche nessun monumentalismo: l’emotività fortissima della musica nasceva dalla chiarezza della resa strutturale.
Ben la di là della lunga simbiosi con la Filarmonica di Pietroburgo, Temirkanov, scomparso il 2 novembre, resta nella mia memoria, e soprattutto nel mio cuore, per le sue direzioni come “ospite”. In buca firmò a Milano due spettacoli, all’inizio e alla fine del periodo Arcimboldi: la rara (da noi) e febbrile Iolanta e la Donna di Picche, che mi sembrò resa con la capacità, tipica di Puškin, di comunicare il tragico in una veste d’assoluta eleganza: molto diversa, ma non meno tesa ed efficace della lettura conturbante che ascoltai qualche anno dopo al Mariinskij diretta dall’ormai rivale Gergiev.
Anche piú memorabili, per me, le comparse di Temirkanov sul palcoscenico della Fenice alla guida dell’orchestra del teatro, dove la perfetta capacità di portare gli strumentisti a una dedizione completa mi lasciò talvolta l’impressione che non fosse ospite, ma “direttore stabile”. Ricorderò le ultime due a cui ho assistito, nel 2016 e 2017. Più del grande pezzo russo conclusivo, di Prokof’ev in entrambi i casi, mi lasciò sbalordito l’approccio alla parte occidentale del programma. Nella Sinfonia del Barbiere di Siviglia, qualche brevissimo allargando e qualche corona di pausa più lunga dell’usuale richiamarono senza cedimenti di gusto (ancora Puškin!) la lunga e articolata vicenda interpretativa dell’opera.
Nella Pendola di Haydn, fu perfetto l’equilibrio tra i «due secoli l’un contro l’altro armato», senza nulla sacrificare della tradizione esecutiva anglosassone di stampo post-romantico, ma ottenendo al tempo stesso tutta la raffinata trasparenza di suono e la mobilità di fraseggio richieste dalla costruzione paradigmatica dei singoli movimenti. E infine Schubert, uno dei compositori che a mio parere hanno più permeato la cultura musicale russa: nella Sinfonia in si minore-mi maggiore, tradizionalmente etichettata come Incompiuta, senso della forma e senso del dramma, cura amorosa e calda d’ogni particolare, sottili slittamenti ritmici, timbrici, dinamici nei da capo, preparazioni magistrali delle svolte di clima emotivo così frequenti in questa sinfonia. Indimenticabile.
Jurij Temirkanov raggiungeva il podio uscendo quasi insensibilmente dall’orchestra; il suo incedere era esemplarmente discreto, un capolavoro di understatement. Non ricordo d’averlo mai visto dirigere con la bacchetta. Aveva un’insolita indipendenza delle braccia: l’espressione individuata dalla sinistra con le sue dita mobilissime poggiava con estrema naturalezza sul ritmo che sembrava uscire dal polso della destra. E si creava il miracolo.
Vittorio Mascherpa