Le notizie sull’attività didattica e creativa del musicista Azio Corghi, scomparso la mattina di giovedì 17 novembre a ottantacinque anni, sono di facile reperibilità e non starò a ripeterle. Buon piemontese molto riservato nella sua vita privata, si limitò a raccontarne, in occasione dei festeggiamenti al Conservatorio di Parma per il suo ottantesimo compleanno, che la nipotina lo chiamava “nonnaccio” e si meravigliava che si parlasse e scrivesse di lui…
Formatosi tra Torino e Milano, allievo negli anni Sessanta di Bruno Bettinelli e Antonino Votto, restio a identificarsi con scuole ed esclusività stilistiche, fu a sua volta maestro d’alcuni compositori che si sono conquistati grande fama, da Ludovico Einaudi a Silvia Colasanti: diversissimi tra loro, già questi due nomi dimostrano il carattere non impositivo, ma liberamente formativo del Corghi didatta.
Elencare titoli di sue musiche non sarebbe soltanto, come ho detto, inutile, ma non direbbe nulla di quel che spontaneamente prova chiunque abbia fatto proprio l’insegnamento di John Donne: “non chiederti mai per chi suona la campana”. Il modo più naturale d’onorare un recente scomparso mi pare quello di raccogliere e raccontare i propri ricordi su di lui, e questo cercherò di fare.
Cinquanta e più anni fa, il vecchio “Terzo programma” radiofonico della RAI dedicava non poco tempo ai compositori viventi, senza preclusioni di scuola e senza eccedere nella lettura delle “presentazioni” oggi così invadenti. Non era neppure insolito risentire lo stesso pezzo “nuovo” a distanza di pochi mesi e per questa via feci la conoscenza del nome e della sobria espressività di Azio Corghi: Radiotré trasmise le sue Intavolature per orchestra in diretta dalla Biennale Musica del 1966 e le ritrasmise l’anno seguente, quando avevano ottenuto il primo premio al concorso RAI-Ricordi. Entrato e poi sempre rimasto tra gli autori della Casa milanese, che in quegli anni aveva avviato, grazie ad Alberto Zedda, l’ampia operazione editoriale legata alla seconda Rossini-renaissance, il nostro trentenne musicista fu incaricato dell’edizione critica dell’Italiana in Algeri, titolo conclusivo della trilogia che Claudio Abbado e Jean-Marie Ponnelle dedicarono al compositore pesarese. Fu questo, nella locandina scaligera del 7 dicembre 1973, il mio terzo incontro con il nome di Corghi.
A partire dal Gargantua presentato a Torino verso la metà del decennio successivo, il teatro divenne il suo interesse centrale, con un catalogo di nove titoli operistici e due balletti. Dopo Rabelais, vennero i tre atti di Blimunda, rappresentati al Lirico di Milano nel 1990 e derivati dal Memoriale del convento di José Saramago, con il quale Corghi strinse profonda e duratura amicizia. Persi quello spettacolo, ma pochi anni dopo mi premurai di conoscere la registrazione di Divara, altro lavoro di ampie dimensioni ricavato dalla tragedia che l’autore portoghese aveva dedicato agli Anabattisti di Münster. A quest’opera riconosco senza riserve una piena vitalità musicale, e lo stesso mi sento di poter dire dell’atto unico Tat’jana, commissionato dalla Scala e realizzato con intelligente fasto nell’ottobre del 2000. Ne furono artefici Peter Stein, allora nel momento più pieno del suo prestigio, e lo stesso direttore Will Humburg che aveva portato Divara al successo (vidi tre volte quello spettacolo, con interesse crescente). La fase cecoviana di Corghi proseguì con Sen’ja, scritta ancora per Münster che la rappresentò nel 2002.
La collaborazione con Saramago riprese per il Dissoluto assolto: originariamente previsto per essere “creato” alla Scala nel 2005, vi fu rappresentato solo l’anno seguente, dopo una prima produzione a Lisbona. Come si notò sùbito, il contributo di Corghi fu quello d’accompagnare il magistrale testo letterario, vera alternativa a Da Ponte, senza minimamente volersi porre l’obiettivo di un’alternativa a Mozart. Le rappresentazioni milanesi furono occasione, in questo sito, d’una magistrale recensione e d’un successivo vivace dibattito.
L’ultima fatica del compositore per il teatro musicale fu una nuova “contaminazione” dopo quelle degli anni Novanta su musiche di Rossini (Isabella) e Händel (Rinaldo & C.): nel 2008 cadeva il quinto centenario della nascita di Palladio, il cui Teatro Olimpico in Vicenza era stato inaugurato nel 1585 da una rappresentazione dell’Edipo re con le musiche di scena di Andrea Gabrieli. La “contaminazione” riguardò, in questo caso, più che la musica il testo letterario, che somma passi da Euripide e Seneca al nucleo tratto dei due Édipi sofoclei. Il risultato, di grandissima suggestione, fu un complesso lavoro che affianca le azioni puramente mimiche dei personaggi diversi da Giocasta a una voce femminile recitante, al canto del mezzosoprano e del “coro madrigalistico” a otto voci (ancora gli straordinari Swingle Singers, con i quali Corghi collaborava da più di trent’anni) e a una viola solista.
Concludo lasciando la parola al compositore scomparso, che nel 1979, contribuendo a un volume intitolato Autobiografia della musica contemporanea, raccontò la propria poetica: “ho sempre nutrito il desiderio di essere compreso dal maggior numero possibile di persone senza dover rinunciare ad essere onestamente soltanto me stesso (con i limiti e le contraddizioni che ben mi riconosco). […] Tutto ciò non significa scrivere musica in funzione del destinatario, conoscendo il livellamento culturale consumistico operato dai mass-media, bensì porsi problemi di “comunicazione” cercando innanzitutto di rendersi conto dei fenomeni di percezione sensoriale. […] Nel mondo occidentale abbiamo assistito invece ad un cambiamento repentino dei codici di comunicazione, spesso in nome del “nuovo per il nuovo”, sulla spinta di un principio estetico fondato sull’originalità, sull’individualità, sull’unicità del prodotto artistico al fine “economico” dell’appropriazione dell’oggetto in senso speculativo. Non è forse questo uno dei motivi dell’alienazione del compositore e del disorientamento del pubblico di fronte a tanta musica d’oggi? Ritengo quindi necessario, oggi più che mai, da parte del compositore, un atteggiamento di estrema disponibilità: occorre chiarezza nelle intenzioni (è finito il tempo dell’ambiguità), è necessario disciplinare i propri comportamenti e vagliare le proprie scelte di fronte ai materiali usati e di fronte alla società”.
Sono concetti che, dopo più di quarant’anni, mi sembrano ancora pienamente attuali.
Vittorio Mascherpa