Che lo stato di salute del melodramma e di molte delle nostre quattordici fondazioni lirico sinfoniche del nostro Paese non sia particolarmente buono non è certo una novità. L’attesa riforma della fine degli anni Novanta del secolo scorso, con la trasformazione degli enti autonomi in fondazioni di diritto privato, non ha sortito pienamente gli effetti sperati in merito alla partecipazione dei privati lasciando irrisolti i problemi economici che da decenni affliggono le nostre maggiori istituzioni musicali.
È a tutti noto come l’opera sia la forma di spettacolo maggiormente dispendiosa e quindi insostenibile - salvo rare eccezioni - con i soli incassi da botteghino. Poco o nulla ha giovato la Legge Bray che una decina di anni fa, oltre all’obbligo di una programmazione triennale, ha previsto la ripartizione del sempre più smagrito Fondo Unico dello Spettacolo (unica sovvenzione pubblica per le fondazioni) sulla base di un complesso algoritmo nel quale rientrano ferrei parametri (numero di produzioni, pubblico pagante, giornate di lavoro delle maestranze artistiche e tecniche, etc…) che non contemplano la qualità e la varietà della programmazione.
Altro dato significativo, la diminuzione - già in anni ante Covid - del numero degli abbonamenti rispetto ad un’utenza che pare preferire selezionare gli spettacoli ai quali assistere. Situazione tra l’altro oggi incentivata da azioni promozionali messe in campo da numerose fondazioni. Il risultato di tutto ciò: cartelloni che ci paiono troppo spesso privi di un senso organico e incentrati su ogni singola produzione. Un’offerta in molti casi poco appetibile per l’abbonato tipo il quale preferirebbe un prodotto che, nella sua varietà, rispondesse ad una logica di fondo. Seppur in misura diversa, la considerazione vale anche per la Scala, per altri versi caso a parte e oasi felice nel panorama delle nostre fondazioni.
Collegato a ciò il dolente tasto dei titoli dei cartelloni. Fino a quindici, venti anni fa il repertorio dei nostri teatri si basava su quindici - venti titoli con l’ovvia preminenza dell’Ottocento ma con curiose aperture su autori o lavori inconsueti e inaspettate incursioni nel Novecento e nel contemporaneo. Ciascuno di noi può oggi constatare come purtroppo la programmazione – eccezione per la Scala e, in misura minore, per l’Opera di Roma. la Fenice e il Maggio Musicale Fiorentino - verta su cinque/sei opere: Barbiere di Siviglia, Traviata, Carmen, Bohéme, Tosca e Madama Butterfly. Autori certamente non marginali nella storia della musica come Wagner e Strauss (fino a poco tempo fa piuttosto abituali anche in Italia) appaiono ormai come fugaci meteore nei nostri cartelloni. Diversamente da altri contesti europei, inesplorata terra di nessuno il barocco. Programmazione dunque monotona che non contribuisce certamente non unicamente a stimolare ma anche a fidelizzare un pubblico che ci pare sempre più lontano e insensibile alle ragioni del melodramma.
Se per i teatri di tradizione (ovvero quelli non ricompresi tra le quattordici fondazioni liriche sinfoniche), le opere del grande repertorio sono quasi una via obbligata per sopravvivere, per gli altri è imperdonabile l’idea di uno spettacolo il cui fine ultimo sia unicamente l’intrattenimento e non la crescita culturale di una comunità. Come osserva Alberto Mattioli (“Pazzo per l’opera”) è vero che oggigiorno la tecnologia e il mercato consentono facilmente a quanti lo desiderino di assistere a spettacoli in giro per il mondo o sedendo comodamente al computer secondo i propri gusti e curiosità personali ma penso sia altrettanto incontrovertibile l’aspirazione a che ogni teatro sia realmente luogo di cultura, aperto sul panorama operistico nella molteplicità delsuo intero arco temporale e contesto storico - sociale.
Se la necessità del contenimento dei costi ha favorito da una parte la sinergia e la coproduzione, dall’altra stiamo assistendo, parallelamente alla diminuzione delle recite, alla progressiva scomparsa delle seconde compagnie di canto. Si tratta di un grave rischio; specialmente per i giovani artisti per i quali sarà sempre più difficile trovare occasioni per la propria crescita professionale e per farsi conoscere senza dover per forza entrare nel perverso meccanismo delle agenzie teatrali.
Soluzioni ad una situazione così desolante? Come sappiamo i problemi complessi non hanno mai un’unica risposta e anche in questo caso dobbiamo convenire che il cambio di rotta è forse possibile unicamente con la concomitanza di più fattori. In primo luogo una maggiore incisività dello Stato nella promozione e sensibilizzazione dell’opera come patrimonio artistico e culturale del nostro Paese. Parallelamente a ciò, il riconoscimento di una premialità per quelle fondazioni capaci di attuare effettivamente interventi di diffusione nei confronti dei giovani e rigorose in una programmazione variegata e di qualità. In secondo luogo l’azione educativa dei nostri istituti scolastici superiori i quali, ad eccezione dei licei musicali, ancora ignorano totalmente l’insegnamento della storia della musica nei propri programmi.
Lodovico Buscatti