Può la musica rappresentare il filo rosso in grado di unire vite tra loro radicalmente diverse, il punto di contatto tra storie apparentemente inconciliabili, il legame ineludibile tra i dì dolenti in cui viviamo e un passato del quale si cerca quotidianamente di obliterare il ricordo, nel disperato tentativo di riscrivere una storia che invece continua a essere impressa a fuoco nella carne viva del presente? Forse sì.
Basta abbandonarsi a quello che probabilmente è il più consueto tra i gesti di cui si alimenta la nostra quotidianità: accendere il computer, e aprire la pagina di youtube, nel caso specifico richiamando “Nemico della patria”. Una delle prime esecuzione che la mai abbastanza lodata piattaforma propone è quella di Titta Ruffo: e l’ascoltatore mediamente esperto può subito bearsi del colore fascinosamente brunito di una voce robusta ed estesa da autentico baritono vilain, della ricchezza di armonici, dei fiati infiniti di quello che Eugenio Montale descriveva come l’ultimo esponente del canto eroico. Ma a voler cedere per un attimo al peso delle emozioni, proprio come Gèrard che abbandona la penna per affrontare i demoni generati dal tradimento della Rivoluzione, il nostro ascoltatore percepisce come quell’esecuzione possa regalargli qualcos’altro: una sequenza di frammenti impazziti, di emozioni incontrollate, di sangue e di dolore, destinata a ricomporsi seguendo i pensieri del luogotenente di Robespierre.
“Sovvertitor di cuori e di costumi”. Le immagini proiettate dallo schermo del computer sfumano, per lasciare spazio a quella di un uomo che sfida un’aula squarciata dall’imperversare di una turba urlante, per denunciare, con voce chiara e ferma, le vessazioni, le minacce, le violenze praticate dagli hoplites di uno dei più feroci totalitarismi del secolo breve. L’uomo sfida quell’aula per portare avanti il suo discorso: non prudentemente, né imprudentemente, ma parlamentarmente; sfida quell’aula per portare avanti il suo discorso: nel disperato tentativo di difendere gli ultimi brandelli di dignità rimasti alle istituzioni democratiche dalle mire di un capobanda capace di combinare, tra pose erculee e dichiarazioni roboanti, lo sgangherato machismo del Sergente Belcore alla sadica ferocia del più perfido Scarpia.
Sfida quell’aula per portare avanti il suo discorso, consapevole del fatto che sarà l’ultimo.
Chi è quell’uomo?
“Puro, innocente e forte: gigante mi credea”. La sequenza di immagini prosegue. Una macchina lanciata in corsa sul Lungo Tevere, un tesserino da parlamentare che vola dal finestrino, l’uomo del discorso che lotta contro quattro assalitori, una pugnalata a tradimento, alla schiena, vigliacca e letale, un cadavere abbandonato nella campagna romana, silenzio di morte.
E ancora la domanda inevasa: chi è quell’uomo? Per ottenere la risposta, basta richiamare il nome di uno dei principali ponti che unisce le due sponde del biondo fiume, o di una delle più trafficate arterie del centro di Milano. Perché quell’uomo è Giacomo Matteotti.
“Or smarrita la fede, nel sognato destino…Come era irradiato di gloria il mio cammino”. Nuovo cambio di scena. Vediamo Titta Ruffo costretto al ritiro dalle scene, e disperso nel ricordo dei giorni in cui il suo “Nemico della patria” risuonava per i maggiori teatri del Mondo, prima di essere spezzato da quella stessa pugnalata a tradimento che aveva insanguinato il Lungo Tevere. Silenzio di morte. Come per Matteotti.
Inizia allora piano piano ad emergere il filo rosso che tiene insieme la storia di un grande del melodramma e quella del martire dell’antifascismo, il legame in essere tra il baritono e il deputato, la connessione stabilita tra un’aria e un discorso. Quel legame è il sangue: Titta Ruffo era il cognato di Matteotti, e si precipitò in Italia dall’America per portare sulla spalla il feretro del congiunto a cui era legatissimo. Quel legame è la fede: come Matteotti, Titta Ruffo era socialista. Quel legame è il coraggio: Titta Ruffo rifiutò di cantare ancora di fronte agli assassini di Giacomo, di assumere la dimensione, a lungo cavalcata da molti celebrati colleghi, di stella di un regime fondato su un colpo di pugnale. Quel legame è il silenzio: dichiarato sovversivo come Matteotti, Titta Ruffo pagò con la carriera la sua determinazione di non piegarsi al fascio.
Titta Ruffo come Matteotti: nemico della patria
“Fare del Mondo un pantheon…gli uomini in dii mutare…”. L’aria sta finendo, ritorna la luce artificiale del pc, ritorna youtube per traversare i dì dolenti in cui viviamo. Ma Carlo Gerard deve ancora regalare un ultimo scatto, avvolto dagli armonici di Titta Ruffo: la riflessione che diventa commozione, l’amarezza si risolve nell’antico fremito delle passioni tradite. No, non c’è solo il sangue, non c’è solo la passione politica, non c’è solo il coraggio a unire il destino del baritono e del deputato. C’è anche la speranza di destare la coscienza nei cuori delle genti, di raccogliere le lagrime de’ vinti e sofferenti, di fare del mondo un pantheon capace di prevalere sulle grida sgangherate degli hoplites del regime e sulle pose erculee del dittatore sospeso tra Scarpia e Belcore.
Ed ecco che, in una giornata come quella del 25 aprile, all’ascoltatore con il cuore terremotato dalle emozioni di Chenièr possono scappare una lacrima e un sorriso: generati dalla consapevolezza del fatto che quella speranza non è ancora venuta meno, e che a ripercorrere il filo rosso steso tra le vite di Matteotti e di Titta Ruffo non sarà mai capace di rinunciare.
Anche a costo di affrontare, proprio come Gerard, i demoni di un ricordo che non può essere obliterato. Anche a costo di essere bollato come Nemico della patria.
Carlo Dore jr.
Titta Ruffo in "Nemico della patria" dall'Andrea Chenier di Umberto Giordano- registrazione del 1920
Carlo Dore jr.