Dopo trentasette anni, la sera del 10 Aprile del 1973, Torino ritrovava il proprio teatro e la nuova produzione dei Vespri siciliani, con la regia della coppia Callas – Di Stefano, chiudeva la ferita che si era aperta nel 1936 a seguito dell’incendio che aveva distrutto l’antico Regio progettato da Benedetto Alfieri e inaugurato nel 1740 con l’Arsace di Francesco Feo. Per celebrare la fausta ricorrenza, la Fondazione ha presentato nelle settimane scorse un fitto calendario di appuntamenti che si concluderanno nel prossimo autunno. Il 10 Aprile la Mole Antonelliana si è illuminata di indaco (il colore dominante all’interno della sala del Regio) e Baratti & Milano ha creato un originale uovo di cioccolato e una torta dedicata all’edificio molliniano. Raina Kabaivanska, allora impegnata nel ruolo di Elena dello spettacolo di inaugurazione, ha ricordato in un incontro pubblico l’emozione di quella serata di cinquant’anni fa mentre dagli archivi del teatro sono usciti cimeli e memorie che raccontano l’emozione e l’attesa per la riapertura. Iniziative e omaggi che testimoniano in modo toccante il radicamento e l’affezione della città per il proprio teatro.
Ricordare i primi cinquant’anni della “consacrazione della casa” (riprendiamo un titolo beethoveniano) significa anche ripercorrere un tratto della storia cittadina lungo i quasi quattro decenni che portarono all’inaugurazione dell’edificio realizzato da Carlo Mollino e Carlo Graffi. Furono anni che, come per il resto del nostro Paese, coincisero con la tragedia del secondo conflitto mondiale e le complesse trasformazioni sociali e culturali della ricostruzione, del boom economico fino alle incertezze attuali. Nel periodo tra il 1936 e il 1973, le attività del Regio non si erano interrotte ma erano proseguite in sedi diverse (al teatro Vittorio Emanuele II, al Carignano, all’Alfieri, al Nuovo) mentre il dibattito politico – immediatamente all’indomani della devastazione – si concentrava sul problema della riedificazione di un uno spazio teatrale.
Un concorso pubblico, indetto alla vigilia dello scoppio del secondo conflitto mondiale, selezionò il progetto predisposto dagli architetti Aldo Morbelli e Robaldo Morozzo della Rocca che prevedeva la realizzazione di un teatro ricostruito secondo i canoni della “tradizione italiana” (questa la definizione della relazione tecnica di presentazione) e dalle dimensioni faraoniche. La guerra e i gli ingenti costi di realizzazione bloccarono la realizzazione dell’opera ma quel progetto – al termine delle ostilità – fu ripreso e più volte aggiornato secondo le indicazioni delle diverse amministrazioni che si succedettero al governo della città. Tra le proposte per un centro culturale polivalente (portata avanti dall’area comunista di governo della città) e la curiosa idea di un imprenditore svizzero di innalzare un grattacielo che, oltre ad attività commerciali e alberghiere, ospitasse anche una sala di spettacolo, il progetto di Morbelli e Morozzo della Rocca, non unicamente compromesso da un passato ingombrante ma invecchiato nell’impostazione di fondo, fu finalmente messo da parte e si arrivò – sotto la giunta guidata dal Sindaco Giuseppe Grosso – ad un incarico diretto a Carlo Mollino.
Insieme al collega ed allievo Carlo Graffi e agli ingegneri Marcello e Adolfo Zavelani Rossi, Mollino formulò una proposta che, salvaguardando l’antico fronte su Piazza Castello, prevedeva una struttura a se stante, nuova sotto il profilo stilistico ma allo stesso tempo anche architettonicamente legata – per citazioni stilistiche – all’aulico contesto barocco del centro storico torinese. Così è per gli ondulati affacci laterali e le decorazioni in laterizio (un dichiarato omaggio a Guarino Guarini), per la controfacciata, per la sinuosità degli interni e l’impostazione a uovo del corpo centrale, la volta a conchiglia della vasta sala, il ricordo dei palchi all’italiana con l’inserimento di un ordine solo con tanto di palco non più reale ma presidenziale. Il passato si coniuga con l’oggi e con un’idea democratica di spettacolo nel quale tutti gli spettatori sono su uno stesso livello.
Ecco quindi la vasta platea dispiegata a ventaglio su più piani come il teatro classico. Al di là degli aspetti che balzano immediatamente all’occhio, la reinterpretazione del senso barocco si traduce in modo più compiuto nella riproposizione di quell’estetica degli affetti – e in particolare della meraviglia – che caratterizzano tutti gli spazi dell’edificio. D’altronde come spiegava lo stesso Mollino: “Quando si dice teatro lirico, immediatamente la mia mente va al teatro tradizionale, concepiti per un mondo che none site più. Però bisogna che io dia questo senso, questo mondo del teatro, che lo renda con mezzi attuali. Il pubblico va a teatro e vuole vedervi l’immagine che si è fatto del teatro”. L’dea di un “dov’era com’era” era ormai stata definitivamente accantonata vuoi perché inapplicabile al caso concreto (nel corso dei secoli l’originale edificio alfieriano era stato pesantemente modificato dagli interventi di metà Ottocento e di inizio Novecento) vuoi perché Mollino – non nuovo ad esperienze architettoniche in ambito teatrale – voleva cimentarsi in un modello di teatro aggiornato alle esigenze coeve. L’idea di fondo di teatro come luogo ideale di rappresentazione spiega le numerose pareti specchiate che rivestono gli ambienti interni, le trasparenze delle vetrate che costituiscono la vera facciata - seppur nascosta – dell’edificio.
Il concetto di spettacolo nello spettacolo è spiegata da Mollino anche per gli interni del teatro: “Visione degli arrivi all’ingresso, circolazione visibile esternamente in modo da vedere tutta la coreografia del pubblico durante gli intervalli; è appunto con i mezzi tecnici attuali che si è potuto realizzare questo concerto di nastri aerei che servono alla circolazione del teatro in uno con l’abolizione di ogni corridoio”. Oltre a ciò, Mollino era consapevole dell’evoluzione tecnologica. “La scenografia attuale – così scriveva – per motivi imprescindibili, che derivano particolarmente dal concorso imponente e determinante delle luci quale fattore pittorico e psicologico dello spettacolo, si basa principalmente su elementi volumetrici e costruiti (…) questo indirizzo del moderno allestimento scenico impone la disponibilità di vaste superfici libere in collegamento diretto con la scena principale e di ampi depositi; richiede l’installazione di mezzi meccanici di traslazione e di sollevamento. Nella progettazione del nuovo teatro Regio ci siamo proposti di trarre il massimo vantaggio dalle dimensioni planimetriche disponibili, per conferire al palcoscenico quegli spazi che ne permettono una agibilità ordinata, agile ed economica”. Alcuni elementi come il boccascena a video – purtroppo oggi nascosto da una struttura posticcia reticolare adibita all’impianto luci e speriamo prima o poi, grazie ad accorgimenti tecnologici, reso nuovamente visibile – mostravano il tratto distintivo del progetto molliniano.
Oltre ai meriti di un’attività artistica che ha portato in alcuni casi il teatro a livelli internazionali, in questi cinquant’anni il nuovo Regio ha formulato un nuovo modello di architettura teatrale, capace di aggiornarsi superando i canoni classici e tradizionali dei luoghi deputati allo spettacolo. Un modello che sarà ripreso, secondo le sensibilità dei singoli architetti, per la ricostruzione di altri teatri nel nostro Paese.
Lodovico Buscatti