In una lunga intervista rilasciata al Corriere della Sera, Ludovic Tézier ha osservato come gli spettacoli di impostazione più tradizionale (vedi la Traviata con la regia di Zeffirelli, che ne ha segnato il debutto all’Arena di Verona) risultino in genere i più adatti a catturare l’attenzione del pubblico meno esperto, spesso costretto ad uscire dal teatro «un po' confuso perché quello che si canta sembra avere poco a che vedere con quello che accade in scena». Una realtà di fatto forse non adeguatamente considerata dai direttori artistici, dato che «i teatri inseguono i giovani senza rendersi conto che chi ascolta un’opera per la prima volta ha bisogno di chiarezza. L’avanguardia va bene per i vecchi che, sapendo la storia, possono accettare le stravaganze».
Dichiarazioni a prima vista innocue, e invece divenute oggetto di serrate critiche da parte di alcuni autorevoli commentatori: critiche talvolta ispirate dalla (comprensibile) necessità di non costringere i registi ad appiattirsi sulla routine e di lasciare agli stessi registi la possibilità di “dire qualcosa di nuovo”; talvolta destinate a scadere ora nell’intemerata nei confronti del baritono francese – al quale viene contestata la scarsa propensione a ripercorrere quella introspezione psicologica richiesta da Verdi per i suoi personaggi –, ora nella chiosa dal sapore vagamente snob, secondo cui: “i cantanti è meglio che cantino”.
Al netto delle reiterate invettive contro il conservatorismo dei “melomani medi” (formula invero poco felice, per due ordini di motivi: in primo luogo, perché impiegata allo scopo di alimentare una sorta di “presunzione di incompetenza” a carico di quella fetta di pubblico che semplicemente declina una visione del teatro diversa da quella proposta da alcune élite dell’avanguardia musicale; in secondo luogo, perché tale visione risulta talvolta fondata su argomenti assai più convincenti e articolati di quelli che ispirano le posizioni avanguardiste), le parole di Tézier e le reazioni ad esse conseguenti costituiscono lo spunto per alcune riflessioni libere dagli schemi del politically correct. Muovendo dalla radicata contrapposizione tra “spettacoli tradizionali” e “regìe moderne”, la formula “regìa moderna” viene tralatiziamente impiegata per descrivere gli spettacoli caratterizzati dalla proiezione nella contemporaneità della vicenda descritta dal libretto (ed alla quale si ispirano le scelte del compositore), proiezione diretta a evidenziare la capacità dell’opera di mantenersi viva e vitale, abbattendo le barriere del tempo.
In alcuni casi, l’operazione riesce appieno, come nella celebre Bohéme firmata da Graham Vick. In altri, fallisce miseramente: vuoi perché l’idea del regista non trova riscontro nella musica e nelle parole (è il caso dell’ambientazione giapponese scelta per il Macbeth di van Hoecke, nel quale si faticava a individuare i punti di contatto tra la katana del protagonista e i continui riferimenti alla Scozia presenti nel testo, senza tenere conto del suono della cornamusa evocato dalle prime note dell’overture); vuoi perché la vicenda perde la sua carica drammatica, una volta disancorata dal proprio contesto spazio-temporale (ragionando di Traviata, se oggi un austero borghese provasse a allontanare il figlio ingenuo da una donna di mondo con gli argomenti messi in campo da Germont padre finirebbe probabilmente seppellito dalle risate del figlio e dell’amante sgradita); vuoi perché le scelte del regista finiscono col travisare in toto il significato dell’opera. La maledizione da cui Rigoletto è schiantato evapora come acqua al sole se il Duca finisce trucidato dalle sue cortigiane; la disperazione con cui Don José si autoaccusa dell’omicidio di Carmen perde la propria ragion d’essere se lo si immagina pugnalato dalla zingara.
Sono queste, le stravaganze oggetto dei rilievi di Tézier: non un apodittico rifiuto della modernità, non un granitico omaggio agli oleografici allestimenti degli anni ’50, ma una serena critica a quelle superfetazioni che da un lato inducono lo spettatore meno esperto a percepire il melodramma come una realtà decadente da ricoprire con un artificioso strato di cerone, e d’altro generano nell’osservatore più esperto la fastidiosa sensazione di essere dirette a “far parlare del regista” prima che dell’opera. E infatti, puntuale si delinea lo scontro tra fazioni: da una parte i fiumi di inchiostro spesi dai critici d’avanguardia, per rimbrottare la scarsa apertura mentale dei “melomani medi”; dall’altra, il dissenso dei loggionisti, ai cui fischi i più pacati frequentatori delle platee spesso non si uniscono solo perché non sanno fischiare.
E i cantanti? Meglio che cantino e basta: osservano i critici di cui sopra. E Tézier? Un bravo baritono, ma poco incline a piegare la sua splendida voce alla complessità dei personaggi verdiani. Parole in libertà, semplicemente spazzate via dall’ascolto del “Pietà, rispetto amore” eseguito dal marsigliese a Parma nell’estate del 2020: quanta disperata solitudine gronda dalle parole “roi solitaire”; quanta schiantata disperazione nella frase: “Je meurs, ô douleur amère, je meurs! Ah! Je dois quitter cette terre, hélas!, sans larmes, sans regrets!”. Ambizione, terrore, disillusione: eccola l’evoluzione psicologica chiesta da Verdi al Tiranno di Scozia; ecco un artista capace di riempire la scena in una esecuzione in forma di concerto, e di distillare solo con il sapiente uso del suo pregiato strumento quelle emozioni che il Teatro d’opera dovrebbe evocare.
E ascoltando quel “Pietà, rispetto, amore” non possiamo non chiedere: davvero i cantanti devono limitarsi a cantare? Davvero le voci possono essere relegate, nella ricostruzione di uno spettacolo, in una posizione tanto marginale rispetto alle trovate dei registi?
Proprio l’esempio del Macbeth di Tézier ci suggerisce un punto di vista diverso (semplice ma al contempo originale) per valutare la vitalità del teatro d’opera: quello costituito dalle voci, dalla loro attitudine a mettersi al servizio della storia, al servizio della musica, al servizio del pubblico. Superando l’esaltazione o il dispetto derivante dalle stravaganze di cui sopra, forse varrebbe la pena di focalizzare l’attenzione sul cantante, sul suo modo di far rivivere il personaggio, sulla sua capacità di coinvolgere, attraverso l’uso della voce, lo spettatore meno esperto e quello più rodato nel circuito di emozioni proposto sul palco. Di considerare, in altri termini, non il canto al servizio della regia, ma la regia come strumento per esaltare le caratteristiche dei cantanti: nella consapevolezza del fatto che le voci possono costituire un moltiplicatore di emozioni assai più potente delle trovate a sensazione che condizionano certi allestimenti, ed al contempo offrire un punto di caduta per l’eterno scontro tra critici d’avanguardia e “melomani medi”.
Carlo Dore jr.