No, evidentemente nessuno pretende che si debba sapere che Spoletta, da bambino, nel quartiere di Roma dove era nato, giocasse a guardie e ladri con un antenato der Monnezza (Thomas Milian docet) finendo sempre per fare la guardia. O che la vecchia Madelon, in gioventù, quando era la giovane Madelon, elargisse le proprie grazie a molti giovani parigini nel famoso bordello “chez Madame Pompadour”. D’altra parte, nessuno degli autori ce ne parla: né Puccini, né Giordano, né i loro librettisti. Però si ha la tendenza, generalmente, a raggruppare gli artisti “minori” in un generico Bene gli altri o similia. Senza dar loro dignità, senza chiedersi alcun perché, senza nominarli.
Allora chiariamo subito: immaginate una Traviata senza Douphol oppure un Rigoletto senza Monterone. È evidente che tutto l’impianto narrativo verrebbe a cadere. E poi bisogna capire che un conto sono personaggi come il vecchio zingaro nel Trovatore o il solito Domestico in Traviata (quello di “La cena è pronta”, giusto per intenderci). Altra cosa sono, putacaso, il Dr. Cajus del Falstaff o Cassio in Otello. Questi sono caratteristi. Ed i loro ruoli hanno (o, meglio, dovrebbero avere) una connotazione psicologica maggiore, rispetto ai primi. Oggi parliamo di loro.
Visto che ho citato Cassio, basterebbe da sola la filatura sul Sol bemolle di “Da mano ignota” fatta da Piero de Palma nell’Otello scaligero diretto da Kleiber (dove subentrò a Ciannella) per assegnargli la palma d’oro (perdonate il gioco di parole) tra i caratteristi. Si dice che fosse persona estremamente parsimoniosa (leggi taccagna) e che da lui non ci si potesse aspettare neppure l’offerta di un caffè al bar. Accumulò un patrimonio ed a quell’epoca era presenza fissa alla Scala ed in tutti i teatri maggiori. Lo ascoltai nei panni del Dr. Cajus (straordinario), Schmidt nel Werther, il pastore nel Tristan und Isolde, Goro in una Butterfly mai abbastanza apprezzata con la regia del geniale Jorge Lavelli e con una Mauti Nunziata assolutamente sublime, Mastro Trabuco nella fantastica Forza del destino con la regia di Puggelli e le scene di Guttuso. E poi ancora come Edmondo in Manon Lescaut e come Aufide in uno sciagurato Mosè rossiniano. Sciagurato innanzitutto perché, agli albori della Rossini renaissance, allestire un Mosè (ovvero la versione italiana con tagli del Moise et Pharaon) era un controsenso. E poi perché i cantanti scelti (Nesterenko, Estes, la Parazzini, la Hamari) avevano poca o punta dimestichezza con la vocalità e lo stile richiesti. Del direttore Jesus Lopez-Cobos si taccia. Il pubblico rumoreggiò sin dagli inizi ed alla fine fu uno dei fiaschi più clamorosi cui abbia assistito. Nel quartetto, quando il tenore Vincenzo Bello che era Amenophis attaccò “Mi manca la voce, mi sento morir” uno spiritosone tra il pubblico gli gettò un pacchetto delle mitiche Golia, le caramelle anti tosse… Devo dire che, nel caso in oggetto, servirono a poco anche se non fu certamente il peggiore in campo, anzi.
Contemporanei a De Palma furono Walter Gullino, ottimo tenore, Giampaolo Corradi che, rispetto agli altri, aveva voce più corposa e di colore bronzeo e Florindo Andreolli, squisito artista ma di statura fisica non eccelsa, che ricordo come Missail nel Boris del 1979 diretto da Abbado, sulle spalle del possente Vaarlam di Ruggero Raimondi.
In tempi più recenti, Ernesto Gavazzi, voce gradevolissima e ben emessa e Sergio Bertocchi, voce decisamente più problematica, ma eccelso artista. Ed ancora come non ricordare Mario Bolognesi che ebbe anche un momento di gloria eseguendo prime parti ad inizio carriera od Oslavio di Credico, Tullio Pane e Franco Ricciardi.
A tener alto il vessillo dei tenori caratteristi da alcuni anni Carlo Bosi primeggia. Lui non se lo ricorderà, ma lo conobbi facendo una coda per il loggione circa quarant’anni fa.
Ed ancora Bruno Lazzaretti, persona colta, grande collezionista ed appassionato d’opera e letteralmente fanatico per Mario Del Monaco (d’altra parte, come dargli torto?).
Per qualche tempo ebbe il suo momento di gloria anche Giuseppe “Joe” Fallisi, il tenore anarchico, autore anche della celebre, all’epoca, “Ballata per Pinelli”.
Ma i tenori, ovviamente, non sono i soli.
Tra i baritoni spicca la carriera di Giuseppe Riva che, con la voce e la tecnica che aveva, avrebbe potuto tranquillamente eseguire prime parti in tutti i teatri del mondo. Lo ascoltai innumerevoli volte in ruoli da caratterista, ma anche come Haly ne L'italiana in Algeri al Filarmonico di Verona. Fu fantastico.
Così come eccellente ricordo Romano Franceschetto, anche lui barcamenatosi tra prime e seconde parti. Voce importante, giusta tecnica, uomo piacevole ed affabile. Cantai con lui una Bohème a La Spezia dove fu un ottimo Schaunard (una spanna sopra gli altri, senza far torto a nessuno), ma lo ricordo anche divorare un profumatissimo fritto misto nella celebre friggitoria del porto di quella città. Ora, pur continuando ad esibirsi saltuariamente, insegna canto con ottimi risultati.
Tra le voci gravi come non ricordare Luigi Roni, stroncato dal Covid il 26 marzo 2020. In una intervista a Topolino dei primi anni 70, disse di aver cominciato a pensare al canto allo stadio, incitato da uno spettatore appassionato d’opera che lo sentì urlare con enormi suoni “Forza Milan” durante una partita di calcio. Roni aveva voce gigantesca, ma limitata negli estremi. Riuscii a sentirlo, alla Scala, anche come Fiesco: a parte gli acuti ed i gravi che proprio non c’erano, fu eccellente. Insomma: per limiti naturali un ottimo primo basso... mancato. Con Roni faceva coppia fissa Giovanni Foiani, voce più limitata nelle sonorità, ma più lunga come estensione.
Anche il libanese Aldo Bramante (Ibrajm Moubayed), per alcuni anni, fu presenza importante sul palcoscenico del Piermarini. Voce un po’ ingolata e sbadigliata, ma estremamente efficace. Lo ascoltai anche come Mustafà in una Italiana in Algeri e fu più che decoroso. E come non citare Orazio Mori, veterano di molte opere e Giancarlo Tosi, con cui mi onoro di aver cantato e di essere amico e che, oltre ad essere un vero artista, è persona gentile ed affabile e coltiva, come me, l’amore per gli animali e l’avversione per qualsiasi tipo di demagogia.
Di Carlo Zardo si racconta che perseguitasse letteralmente Abbado per poter cantare Banco nel Macbeth. Risposta del divo Claudio: “ma se ti faccio fare Banco, chi metto al tuo posto a fare il medico? Nessuno puo’ farlo meglio di te.” Tacitato così il buon Zardo (personaggio pittoresco oltremodo) devo però aggiungere che lo sentii cantare un’ottimo Colline alla Scala diretto magnificamente da Kleiber.
E le donne? Innanzitutto, Laura Zannini e Margherita Guglielmi, veterane di mille spettacoli rossiniani. La Guglielmi faceva anche prime parti: la sentii come Musetta alla Scala e fu molto brava. La sua Lucia di Lammermoor in disco con Labò e Cappuccilli è eccellente.
E poi Gloria Banditelli, Alessandra Palomba (che ascoltai bambina fare il Pastorello in Scala con Pavarotti: fu il suo debutto), Nicoletta Curiel, Tiziana Tramonti e Raquel Pierotti, cantanti di livello che facevano anche (leggi soprattutto) primi ruoli.
Da citare poi Francesca Castelli, ottima Mamma Lucia e Laura Londi, che agli inizi carriera faceva ruoli da protagonista e di cui ricordo di aver ascoltato un Otello in cassetta con Pier Miranda Ferraro e Tito Gobbi in un clamoroso trasferimento a Pozzuoli per assistere all’opera Piedigrotta dei fratelli Ricci con l’amico Luca Gorla.
Ed infine Stefania Malagù, Nella Verri e Maria Grazia Allegri indispensabili in tutti i repertori ed Anna Zoroberto dalla voce leggermente cavallina ma sicura.
Ovviamente non sono certo di aver citato tutti, anzi: sono persuaso di non averlo fatto.
Me ne dispiace molto perché ognuno meriterebbe.
Purtroppo, la memoria non sempre mi assiste. Volevo, però, che fosse chiaro che, per montare uno spettacolo, non servono solo i protagonisti e che senza i ruoli di contorno, l’opera non si può fare.
Carlo Curami