Alfredo Kraus Trujillo (Las Palmas de Gran Canaria, 24 novembre 1927 – Madrid, 10 settembre 1999)
Nel 1995 ero fidanzato con Céline Tissier, una ragazza francese con ambizioni canore ed appassionata d’opera. Nella nostra (breve) vita comune a Milano, spesso siamo andati a teatro, girando l’Europa per vedere spettacoli lirici. Era una grande ammiratrice di Samuel Ramey ed immaginate la sorpresa quando lo vide arrivare a cena a casa nostra… Una volta le chiesi se volesse andare a vedere il Werther con Kraus al Regio di Parma. “Non, c’est un opéra ennuyeux”. “Ma l’hai mai visto un Werther con Kraus?” Insomma, per farla breve andammo. Io con grande entusiasmo, Céline controvoglia.
Dopo aver girovagato per Parma con obbligo di fermata al bar di fronte al teatro che faceva dei panini con pesto di puledro assolutamente unici, ci rechiamo a ritirare i nostri posti. Era una recita pomeridiana ma cominciò in clamoroso ritardo perché Charlotte, al secolo Doris Soffel, aveva fatto una pennichella e non era arrivata per tempo al trucco e parrucco. Si dice che avesse mangiato una quantità eccessiva di tortellini alla panna di cui era ghiotta e che questo la avesse indotta al coma profondo cui soggiaque. Transeat.
Già dopo il “Clair de lune” Céline era convinta: il Werther di Kraus era entusiasmante. Dopo il “Père, Père” che conclude il secondo atto, la povera ragazza aveva l’occhietto lucido. Ma fu nel terzo che si scatenò lo tsunami. A partire dal “Pourquoi me réveiller” fino alla scena del bacio fu un continuo lacrimare e singhiozzare rumorosamente. E così, sotto gli sguardi allibiti degli altri ospiti del palco centrale, continuò per l’intero quarto atto. No, non ero imbarazzato, nonostante intuissi chiaramente ciò che pensavano gli altri spettatori: “Ma tientela a casa, se non sa frenare le emozioni”. Ma il peggio doveva ancora arrivare. Usciti da teatro, faccio per avviarmi verso la macchina quando vengo arpionato da Céline: “Je veux le connaître”. E così ci rechiamo verso i camerini dove Kraus, in camicia di scena bianca con l’evidente macchia di sangue da recente suicidio, accoglie gli ospiti ed amici osannanti. Appena entrata, nel tentativo di stringere la mano ad Alfredo, Cèline nuovamente scoppia in lagrime a proffusione e singhiozzi disperati. Ho dovuto portarla fuori a prendere una boccata d’aria e poi ripartire verso “Guido lo sporcaccione” a Rivarolo dove ci attendevano, oltre agli amici melomani di sempre, il culatello, il parmigiano, la torta sbrisolona ed il solito lambruschino frizzante che tolse a tutti ogni malinconia.
Questo ricordo di Kraus è dedicato a chi non lo ha visto a teatro. Già, perché aveva una caratteristica unica che ho riscontrato solo in pochissimi cantanti, forse solo la Cossotto e Christoff: il carisma. Quando entrava lui in scena, gli altri sparivano. Il motivo lo ignoro: i movimenti scenici erano poetici ma limitati benché sempre legati all’essenza del personaggio che interpretava. La tecnica era perfetta ma la voce non era di quelle che ti incantano sin dal primo momento come per Di Stefano, Carreras o Bjoerling. Al contrario era leggermente nasale (anche se Kraus non cantava nel naso, come purtroppo facevano e fanno i suoi imitatori) ed a tratti ovattata in zona centrale. Il tutto, però, compensato da un registro acuto e sopracuto di rara sicurezza. Arrivò in tarda età alla gloria, benché cantasse nei maggiori teatri sin dagli albori della carriera. Il tenore ed amico Bruno Lazzaretti una volta mi disse: “Kraus si è avvantaggiato con l’età, perché la sua voce era senile anche quando era giovane e quindi è rimasta uguale”. Ovviamente non è vero, però che non fosse la voce d’oro che ci si immagina lo si può intuire anche dai dischi.
Lo ascoltai per la prima volta nel Faust in Scala nel 1977 con un cast stratosferico: Freni, Cappuccilli, Ghiaurov (e poi Ghiuselev e Soyer) ed Elena Zilio, cui vanno i miei più sinceri complimenti per le recenti prestazioni. Dirigeva Prêtre e la regia bellissima era di Jean Louis Barrault, l’interprete di uno dei miei film preferiti: “Les enfants du Paradis”. (Se non lo conoscete, cercatelo e guardatelo: vi entusiasmerà.)
In realtà, ammiravo Kraus già dai pochi dischi che aveva registrato fino ad allora: i due Rigoletto, i recital per la Carillon, il film sulla vita di Gayarre e poco più. Però, sentirlo e vederlo dal vivo fu una folgorazione.
Venne poi il Werther in Scala nel 1979 con la Denize e l’ottimo Albert di Lorenzo Saccomani. Spettacolo sublime innanzitutto per la regia fantastica di Chazalettes e la direzione forse un po’ ampollosa, ma di grande presa drammatica di Prêtre e poi, come ho detto, per il suo carisma straripante. Dopo “Pourquoi me réveiller” venne giù il teatro e fu così ogni sera per otto recite su sette. (No, non è un refuso, vidi anche la generale.)
Lo ascoltai nello stesso ruolo a Firenze, all’Opéra ed all’Opèra-Comique a Parigi, a Montecarlo a Parma e non so più in quali teatri. Anche quando la voce non era più completamente all’apice, compensava questo inevitabile ma leggerissimo logorio con un fraseggio ed una partecipazione emotiva ancora superiore.
Lo ascoltai anche in Lucia di Lammermoor a Firenze, dove la Gruberova fu fantastica permettendosi il lusso di una messa di voce sul Mi bemolle sopracuto della pazzia. Lei ebbe uno strameritato trionfo, lui ancora di più.
Ancora come Edgardo lo vidi alla Scala ed al Regio di Parma, dove il solito imbecille gridò con spregio “bravina” ad una eccellente Luciana Serra.
A Parma lo vidi anche in Favorita, Faust, Rigoletto, Roméo et Juliette e Les contes d’Hoffmann: il Regio era diventato una sorta di dépendence di Kraus che, in Italia, si esibiva praticamente solo lì. Ovviamente a Parma lo ascoltai anche ne La fille du régiment ma al Teatro Ducale accanto alla Anderson e Robertino Coviello. Certo, nell’aria dei nove Do ebbe un trionfo, ma in “Pour me rapprocher de Marie” fu fantastico: padronanza del fiato, leggerezza, ripresa a mezza voce. Non ho sentito più nessuno cantarla come lui.
Stavo per dimenticare due altre prove donizettiane: L’elisir d’amore a Firenze con la Serra, Corbelli e Taddei ed il Don Pasquale in Scala con l’immenso Bruscantini.
Infine lo ascoltai anche in un paio di concerti in Scala ed uno al Palazzo dei Congressi di Bologna dove, tra autori italiani, inserì anche alcune fantastiche Mélodies di Fauré e Duparc e gli immancabili spagnoli di cui fu, probabilmente, uno dei maggiori interpreti di sempre.
A Bologna, il pubblico (ed io con loro) trattenne il fiato per l’emozione durante l’esecuzione del Poema en forma de canciones di Joaquìn Turina.
La discografia di Kraus non è vastissima, anche perché, da persona intelligente qual era, si attenne sempre al proprio repertorio. Da segnalare, ovviamente, il Werther, sia quello live dalla Scala con la Obrastzova, sia quello ufficiale con la Troyanos, poi la Lucrezia Borgia ed i due Rigoletto diretti da Gavazzeni e da Solti (il terzo, quello con Milnes, è deludente), Les pêcheurs de perles con Bruscantini, I puritani, segnati, però, dalle infinite discussioni e liti con Muti, la Lucia di Lammermoor e La jolie fille de Perth, dove, per abbandono e leggerezza, è ineguagliato nella bella serenata di Henry Smith “À la voix de l’amant fidèle”, un brano a suo tempo celeberrimo e cavallo di battaglia di tutti i tenori d’oltralpe e non solo.
Numerosissime le registrazioni “live” tra le quali prediligo La sonnambula della Fenice con la Scotto e la Traviata di Lisbona del 1958 con la Callas. Da segnalare anche tutta la produzione della Carillon, casa discografica di sua proprietà, nella quale Kraus cantò un po’ di tutto, compresi brani da opere mai eseguite a teatro.
Non insegnava, ma teneva spesso delle Masterclass. Ebbe un imitatore, il tenore Josè Sempere, che fece una discreta carriera, ma non al livello dell’originale.
Voglio, però, ricordarlo in un video di un concerto a Santiago del Cile pochi mesi dopo la scomparsa della moglie. Cantando “El dia que me quieras” Alfredo scoppiò in singhiozzi al ricordo dell’ amata consorte Rosa e dovette interrompere il canto per qualche minuto. Il pubblico gli tributò un’ovazione da stadio e lo applaudì a lungo.
Mi unisco idealmente a quegli applausi.
Carlo Curami