Werther | Juan Diego Florez |
Charlotte | Anna Stéphany |
Sophie | Melissa Pétit |
Albert | Audun Iversen |
Le Bailli | Cheyne Davidson |
Schmidt | Martin Zysset |
Johann | Yuriy Triple |
Brühlmann | Stanislav Vorobyov |
Käthchen | Soyoung Lee |
I fratelli di Charlotte | Loïg Duméril |
Linda Heiligtag | |
Valeria Mosca | |
Mia Schweizer | |
Regia | Tatjana Gürbaca |
Scene e luci | Klaus Grünberg |
Costumi | Silke Willrett |
Direttore | Cornelius Meister |
Maestro del Coro | Ernst Raffelsberger |
Philarmonia Zürich | |
Kinderchor der Oper Zürich |
«Sono arrivato a una conclusione (scriveva il compositore e critico Reynaldo Hahn ai primi del Novecento) che ci sono diverse specie di persone che non amano Massenet : 1) quelli che non vogliono amarlo o almeno che fanno finta di non amarlo ; 2) quelli che non lo amano perché non amano il teatro ; 3) gli invidiosi: i falliti, gli incompresi, gli imbecilli ; 4) le persone fredde, stitiche e autoriferite. A parte questi, tutti - ovvero tutte le persone di buon gusto - amano Massenet, a parte gli abitanti di Marte… ». La battuta, una delle tante del delizioso musicista-cantante-critico che fu intimo amico di Proust, ci dice quanto, anche in Francia, la fama e la fortuna di Massenet fossero combattute dalla nuova generazioni di compositori (Debussy in primis) che non potevano sopportare di vedere il buon Massenet accumulare placidamente i successi (e i danari) uno dopo l’altro, coprendo di melodie capolavori letterarî (da Manon Lescaut a Don Chisciotte, da Cendrillon a Werther) fiabe, leggende, misteri con la stessa abilità e la stessa (o quasi) felicità di ispirazione. Il tesoro di Massenet, che a tanti parve (e forse ad alcuni pare ancora) fatto di pietre false, continua invece a incantare il pubblico e a riempire i teatri, se non per tutta, certo per gran parte della sua abbondante produzione operistica (valorizzata in questi ultimi anni anche nei titoli più rari da festival come quello di Saint-Etienne). Certo, l’incanto nostro non può essere lo stesso di quello del pubblico, non solo della prima viennese del 1892, ma nemmeno di quello che vedeva, fino a qualche decennio fa, Carreras o Kraus avanzare sotto i tigli di carton gesso stringendo un volume dell’amato Ossian.
La supremazia della regìa e della «direzione di attori» su tutte le altre componenti del teatro musicale (canto, orchestra, ma anche luci, scene, costumi) incide (non si giudica qui se sia bene o sia male, è così, è storia e magari un giorno qualcuno la scriverà) soprattutto su titoli, come quello di Massenet e di altri suoi contemporanei fin de siècle. Di opere costruite cioè non su una drammaturgia originale e complessa, ma su situazioni elementari, vecchie quanto il mondo, ma che, rivestite di quella musica, risvegliano profonde emozioni in chi è ancora capace di sentirle (e di confessarle: sicché la boutade di Reynaldo Hahn ha ancora la sua attualità). E il teatro musicale, da Monteverdi a Britten, è anzitutto veicolo di emozioni. Si capirà allora quanto sia stato proprio Werther (ancor più che Manon e Don Chisciotte) ad aver attirato l’ironia dei critici per il drastico ridimensionamento che il romanzo di Goethe subisce nelle mani del team di librettisti Blau, Milliet e Hartmann.
Alle prese con l’opera di Massenet, la regista tedesca Tatjana Gürbaca e lo scenografo Klaus Grünberg sembrano guardare soprattutto al Werther goethiano, al contrasto tra la figura del protagonista e l’ambiente piccolo borghese oppressivo e ipocrita (quale quello di Charlotte e famiglia) in cui egli si trova ad agire (o meglio a patire) e che non può accoglierlo. La Wetzlar di questo Werther zurighese è dunque una casetta di legno di cattivo gusto, senza finestre, costruita all’interno di una falsa prospettiva che riduce il palcoscenico a poco più di tre metri e in cui i personaggi si trovano costantemente a scontrarsi in un ambiente volutamente claustrofobico e soffocante. Se il primo atto è ancora animato dalla gioia del ballo e dalla speranza di un amore ancora agli inizi, il secondo, successivo alle nozze tra Charlotte e Albert, è invece calato in un’atmosfera cupa e opprimente. Ecco allora che la casa diventa una specie di tetro ospizio in cui alcune vecchiette depresse (una anche in carrozzella) assistono controvoglia alle nozze d’oro del pastore. Ovviamente non c’è posto per Dio in questa lettura (né per la Natura, pure evocata dal protagonista nella sua entrata) e le invocazioni dei due protagonisti all’Altissimo saranno quelle di "voces clamantes in deserto": più vicine alla furia iconoclasta che alla supplica. E’ naturale che in questa lettura tutto il côté tenero e affettuoso che fa da sfondo alla vicenda (dalla merenda dei fratelli di Charlotte - già parodiato in terra italiana da una divertentissima poesia dello scapigliato Ernesto Ragazzoni - ai canti natalizi che punteggiano tutta la partitura, al personaggio di Sophie) scompaia o meglio sia riletto per antifrasi come una parata assurda, ipocrita e perbenista di cui il giovane eroe e la sua amata sono le vittime. Coerentemente con questa visione, lo spazio scenico angusto e oppressivo qui descritto si aprirà solo alla fine su un paesaggio lunare e innevato che sembra alludere a un’utopia di salvezza arrecata a quel mondo spento dal sacrificio del protagonista.
Sul palcoscenico dell’Opernhaus Werther era (qui per la prima volta) Juan Diego Florez. Il tenore peruviano fornisce anche questa volta una prestazione vocale di grande sicurezza tecnica e, attraverso la sua voce chiara e leggera, conferisce un’ originale aura adolescenziale e quasi immacolata all’infelice protagonista. La dizione è ottima, l’accento e i colori abbastanza varî, più a suo agio nei momenti lirico-contemplativi che nelle accensioni drammatiche. Per questo risulta scenicamente poco convincente quando la regia lo spinge ad atteggiamenti di rivolta e di furia distruttiva, piuttosto estranei al suo temperamento (specie nel secondo atto, quando strappa il crocifisso alla vecchietta in carrozzella) e alla sua espressività, che si dispiega essenzialmente nel disegno della linea vocale e in questa soltanto tocca a volte il sublime (qui però meno che nei grandi ruoli belcantistici che l'hanno giustamente reso famoso).
Accanto a lui il mezzo soprano Anna Stéphany asseconda in modo più efficace le esigenze della regia, che le chiede di sbattere in continuazione porte (ahimè anche nei momenti musicalmente più intimi), calpestare e rompere una ad una le palle dell’albero di Natale, lavare i piatti, tagliare il pane, danzare ecc.; la voce ha una pasta timbrica senz’altro seducente (sebbene certe note gravi sembrino un po’ artefatte) e il fraseggio risulta abbastanza interessante ("Va, laisse couler mes larmes" è però guastato dalla regia che le chiede di tirare una ad una le lettere di Werther a Sophie). L’accento e la dizione francesi sono molto nebulosi per un personaggio, come questo, che dovrebbe commuovere anche quando il canto si limita a poche note ribattute (vedi il finale dell’aria del terzo atto).
Mélissa Petit è una Sophie vocalmente e scenicamente perfetta: cosa non da poco visto che le si chiede di agire in modo opposto a quanto suggerisce la musica ("Tout le monde est joyeux").
Il baritono norvegese Audun Iversen è un Albert convincente e di bella linea vocale; la sua figura, imponente scenicamente e vocalmente, incarna perfettamente la banalità della violenza coniugale di provincia secondo le intenzioni della regia.
Cheyne Davidson è un discreto Baglivo, sebbene un po’ in difficoltà nelle frasi che impegnano il settore acuto.
Ottimi sotto tutti gli aspetti Yuriy Tsiple e Martin Zysset nella coppia di bon vivants Johann e Schmidt, qui riletti in una luce sinistra e un po’ sadica.
Bravissimi i sei bambini impegnati nei cori natalizi (ma anche loro sembrano non credere né a Gesù né al Natale).
La direzione del giovane direttore tedesco Cornelius Meister, festeggiatissimo, si segnala per la precisione con cui gestisce il rapporto tra fossa e palcoscenico nonché per il vigore con cui realizza le diverse atmosfere e colori richiesti dalla partitura di Massenet. Talvolta però il volume sonoro eccede (soprattutto in un teatro piccolo come quello di Zurigo) e le voci, specialmente quelle dei due protagonisti, passano troppo in secondo piano.
La Philarmonia di Zürich suona benissimo in ognuna delle sue sezioni. Bisogna dire però che spesso, soprattutto nelle zone più cameristiche (e non sono poche) della partitura manca un po' di fondu, non c’è abbastanza amalgama e i diversi timbri suonano come giustapposti in un puntillismo un po’ crudo. Successo per tutti e in particolare per Florez.
La recensione si riferisce alla recita del 2 Aprile 2017.
Gabriele Bucchi