Hermann, Langravio di Turingia | Pavlo Balakin |
Tannhäuser | Stefan Vinke |
Wolfram von Eschenbach | Christoph Pohl |
Walter von der Vogelweide | Cameron Becker |
Biterolf | Alessio Cacciamani |
Heinrich der Schreiber | Paolo Antognetti |
Reinmar von Zweter | Mattia Denti |
Elisabetta, nipote del Langravio | Liene Kinča |
Venere | Ausrine Stundyte |
Pastorello | Chiara Cattelan |
Paggi | Emma Formenti, Veronica Mielli, Gianluca Nordio, Sebastiano Roson |
Direttore | Omer Meir Wellber |
Regia | Calixto Bieito |
Scene | Rebecca Ringst |
Costumi | Ingo Krügler |
Light designer | Michael Bauer |
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice | |
Maestro del Coro | Claudio Marino Moretti |
Non vi è nulla di romantico nel Tannhäuser, bellissimo, secondo Calixto Bieito; nessuna arpa, nessun bastone fiorito. La dicotomia Amor Sacro-Amor Profano è bandita con decisione, e con più di una ragione; questa volta il contrasto, che si tramuta in uno scontro senza vincitori, è fra Amore Libero ed Amore Violento.
Bieito sposta l’azione ai giorni nostri, forte anche della non eccessiva cogenza della vicenda ad un periodo storico necessariamente determinato e fa vestire tutti con abiti contemporanei, disegnati da Ingo Krügler, che rispecchiamo un ambiente medioborghese perfettamente funzionale all’atmosfera da dramma espressionista che ne è la cifra ultima.
Nel suo mondo parallelo ed antitetico, immaginato da Rebecca Rings, dove gli alberi crescono al contrario, Venere bracca incessantemente un Heinrich riottoso e vittima dei suoi pregiudizi per trarne un piacere intenso ed egoistico; di contro, nella sala bianchissima ed asettica della Wartburg, figlia del Funzionalismo, Elisabeth è svilita a mero oggetto sessuale, molestata dal consesso dei Minnesänger, qui mostrato come una masnada di bulli consacrati alla violenza attraverso rituali di sangue. Lo stesso Langravio fa più che manifestare le sue intenzioni nel ballo gelido e lascivo nel quale coinvolge la nipote, mentre Wolfram, ignavo e feticista, si mostra incapace ad agire.
La dimensione spirituale, ovvero i pellegrini, resta invisibile, lontana, volutamente irraggiungibile, sino alla fine, quando si mostra come un groviglio di anime più dannate che penitenti, imploranti una grazia divina impossibile da ottenere. In tutto ciò l’eroe eponimo mostra la sua completa inadeguatezza, il suo non appartenere a nessuno dei due mondi, incapace di scegliere, succube anche della vittima Elisabeth, che tenterà invano di strangolare nel corso del lungo racconto del viaggio verso Roma.
Ben risolto anche il disegno di luci, di Michael Bauer, fatto di lame orizzontali che illuminano ombre e nebbie per aprirsi poi in squarci abbaglianti.
Questo, secondo noi, è Teatro, con la T maiuscola, che può piacere o meno, ma che non lascia indifferenti ed induce a riflettere. Troppo facile derubricare il cunnilinctus che Venere impone a Tannhãuser di praticarle a mera volgarità, senza volersi interrogare sulla forza drammatica con la quale sottolinea la totale dipendenza dell’uno nei confronti dell’altra; così come la manciata di glitter lanciati dall’eroe eponimo all’asessuato Walter al termine del suo canto, o l’attaccamento di Wolfram alle scarpe di Elisabeth sono densi di significato. Teatro, ripetiamo, con la T maiuscola.
Omeir Meir Wellber, alla testa di un’orchestra in forma smagliante, offre, al suo debutto, un’interpretazione illuminante della partitura.
Spogliata da qualsiasi retorica, privata dalla melassa di un certo malinteso e languoroso romanticismo, Wellber cala Tannhãuser in una dimensione di assoluta tragicità, nella quali la melodia, pur nel suo fluire, sottostà a dinamiche taglienti e ad agogiche incalzanti. Non mancano gli slanci lirici, che sono tuttavia sempre mediati e meditati attraverso la lente di una razionale lucidità. Emblematica la risoluzione, geniale, della celeberrima aria alla Stella della Sera, che qui diviene qualcosa fra una ninna nanna ed una trenodia, con un effetto che ci ha sinceramente sconvolti.
A tanta bellezza Stefan Vinke non offre, purtroppo, un gran servizio. Il suo Tannhäuser soffre di troppo declamato e scarsa intonazione, il tutto a far principio da una voce che mostra la corda in più di un momento. Il personaggio c’è, il resto no.
Ausrine Stundyte si rende protagonista di una prova in crescendo. La sua Venere parte con qualche incertezza, ma trova rapidamente carattere, forte di una linea di canto di grande solidità alla quale si accompagna un fraseggio opportunamente ferino.
Nonostante una certa vetrosità in acuto convince anche l’Elisabeth di Liene Kinča, che si distingue per l’esemplare aderenza al personaggio, sia vocalmente che dal punto di vista attoriale.
Christoph Pohl è un Wolfram quasi ideale per morbidezza di colore e nobiltà di accenti, mentre risulta un po’ troppo leggero, seppur corretto, Pavlo Balakin come Hermann.
Nel gruppo dei Minnesänger svetta Cameron Becker, Walter musicalissimo, cui segue a ruota l’irruento Biterolf di Alessio Cacciamani, che canta molto bene.
Complessivamente molto buoni gli altri, ovvero Paolo Antognetti nei panni di Heinrich der Schreiber e Mattia Denti come Reinmar von Zweter.
Citiamo, per dovere di cronaca e senza nulla più aggiungere, il Pastorello di Chiara Cattelan e i quattro Paggi Emma Formenti, Veronica Mielli, Gianluca Nordio e Sebastiano Roson, tutti membri del Kolbe Childrens’ Choir.
Sugli scudi, ancora una volta il coro, perfetto, preparato da Claudio Marino Moretti.
Successo pieno per gli interpreti, ovazioni meritate per Wellber e qualche sparuto dissenso a Bieito e collaboratori.
(La recensione si riferisce alla Prima del 20 gennaio 2016)
Alessandro Cammarano