Filippo II | Alex Esposito |
Don Carlo | Piero Pretti |
Rodrigo | Julian Kim |
Il grande inquisitore | Marco Spotti |
Un frate | Leonard Bernad |
Elisabetta di Valois | Maria Agresta |
La principessa Eboli | Veronica Simeoni |
Tebaldo | Barbara Massaro |
Il conte di Lerma | Luca Casalin |
Un araldo reale | Matteo Roma |
Una voce dal cielo | Gilda Fiume |
Deputati fiamminghi | Szymon Chojnacki William Corrò Matteo Ferrara Armando Gabba Claudio Levantino Andrea Patucelli |
Direttore | Myung-Whun Chung |
Regia | Robert Carsen |
Scene | Radu Boruzescu |
Costumi | Petra Reinhardt |
Light designer | Robert Carsen Peter Van Praet |
Movimenti coreografici | Marco Berriel |
Maestro del coro | Claudio Marino Moretti |
Orchestra del Teatro La Fenice | |
Coro del Teatro La Fenice |
Proprio dalla Fenice partì, nel novembre di quarantasei anni fa con Georges Prêtre sul podio, il ricupero in teatro delle musiche espunte da Verdi dopo la prova generale di Don Carlos nel febbraio del 1867 a Parigi: un primato di cui l’istituzione veneziana giustamente si vantò quando dopo l’edizione critica e il bicentenario scaligero, quel ricupero, più o meno ampio ma non mai totale, divenne una pratica diffusa. Nella ripresa successiva a Venezia durante la stagione 1991-92 si preferì ritornare, come quest’anno, alla versione “di Milano” in quattro atti, che comunque comporta, se eseguita senza tagli (e senza discutibili aggiunte, evitate in questo caso), appena un briciolo meno di tre ore di musica.
L’inaugurazione di questa stagione della Fenice nella data e nella sede prevista è stata il risultato d’uno sforzo organizzativo che, dopo l’altissima marea del 12-13 novembre scorso, ha coinvolto tutte le componenti del teatro e le forze impegnate a ripristinarne in brevissimo tempo la funzionalità (le desolanti immagini con la buca dell’orchestra e il guardaroba invasi dall’acqua hanno fatto il giro del mondo). Forse inevitabile, quindi, che prima dello spettacolo il sindaco di Venezia e presidente del Consiglio d’indirizzo della Fondazione Teatro La Fenice abbia ricordato e ringraziato, a partire dai vertici della Repubblica, chi nelle ultime due settimane s’è prodigato, in funzione delle proprie diverse competenze, a soccorso della città e del suo maggiore luogo di spettacolo, non ultimi (e applauditissimi in nomine) gli addetti della società Vesta che nella città lagunare gestisce la difficile raccolta dei rifiuti, esplosa dopo il disastro per quantità e ostacoli vari, (ma anche, aggiungiamo noi, per gli abusi di qualche immancabile “furbo”). Dopo il quarto d’ora abbondante dedicato al discorso del sindaco e alla successiva esecuzione dell’Inno di Mameli, a chi scrive s’è però affacciato il ricordo (ovviamente indiretto) del rigore anticelebrativo di Toscanini quando fu riaperta la Scala nel maggio del 1946.
Per la terza volta consecutiva la Fenice ha aperto la stagione con un titolo verdiano d’indiscusso valore (la versione milanese di Don Carlo segue al Ballo in maschera del 2017 e al Macbeth dell’anno scorso), affidandosi per la parte musicale a un Maestro concertatore e direttore di grandissimo prestigio, prediletto dalle masse artistiche locali, e utilizzando per lo spettacolo un “prodotto” (proveniente da Strasburgo) dovuto per la regia a uno degli indiscussi maestri di questa difficile arte e a suoi collaboratori abituali. Più audace, invece, la scelta di designare per i tre ruoli maschili principali tre cantanti che li affrontavano per la prima volta.
La regia di Robert Carsen è condotta con mano abilissima nei movimenti di massa, con attento e capace studio della gestualità dei cantanti-attori e con un’attenzione a tratti quasi estetizzante alla composizione dei quadri. La tinta dominante dell’impianto scenico di Radu Boruzescu è il grigio scuro, sul quale si staglia il nero dei costumi firmati da Petra Reinhardt, di gusto moderno anche se non riconducili a un’epoca ben definita tranne quelli, onnipresenti, dei preti, rigorosamente anni Novecentocinquanta. Ci si trova, insomma, di fronte a un’eleganza stilizzata, con qualche accenno di maniera, senza dubbio efficace anche se, a nostro parere, ben distante dalla forza dirompente di un altro spettacolo “nero” di Carsen, la celeberrima Elektra fiorentina di undici anni fa. Ottime le taglienti luci, firmate dallo stesso Carsen e da Peter Van Praet, efficaci nel dare risalto alle figure senza annacquare il nero che invade il palcoscenico (sin dal sipario che sostituisce quello solito).
Carsen è stato accolto, alla fine, da un applauso intensissimo; crediamo che gli sparuti contrasti fossero indirizzati non tanto alla regia in sé, quanto alla drammaturgia dello spettacolo. Il maestro capovolge infatti il ruolo della figura di Posa, facendone un complice e strumento dell’Inquisizione. La scelta non s’accorda alla lettera con il libretto (ma che cosa non potrebbe significare il tremendo “A te chiedo il signor di Posa!” sparato in faccia a Filippo?), però non contrasta con la realtà politica degli anni in cui fu composta l’opera, per tacere dei nostri: che cosa di più ovvio (oggi, ma anche nel passaggio dalla Seconda repubblica francese al Secondo impero) della strumentalizzazione di un’ideologia liberale o progressiva a fini conservatori o reazionari? Tra gli spettacoli d’opera si può anzi trovare un antecedente nella conclusione del Fidelio che Chris Kraus allestì per tre teatri emiliani nel 2008, con il capovolgimento della funzione del Ministro (anch’egli in vesti, guarda caso, ecclesiastiche). Né sarebbe questa l’unica citazione nel presente lavoro di Carsen: i gigli bianchi nella scena della Canzone del Velo (unico elemento chiaro di tutto lo spettacolo) ci hanno richiamato quelli profusi da Ronconi per Marguérite nell’indimenticabile Faust bolognese degli anni Settanta; la presenza silenziosa ma esplicita della Eboli all’inizio della grande scena di Filippo era una delle caratteristiche della messinscena berlinese di Philipp Himmelmann risalente a una quindicina d’anni fa.
Scenicamente, il capovolgimento del ruolo di Posa si concreta in pochi tocchi sobri quanto evidenti ed efficaci: all’inizio della scena del carcere, Posa “passa” all’Inquisitore le carte compromettenti ricevute da Carlo; al termine di essa, quando il palcoscenico resta vuoto del coro, di Filippo e di Carlo, l’Inquisitore si avvicina al presunto cadavere di Posa, lo aiuta a rialzarsi, gli stringe soddisfatto la mano e s’allontana con lui. Alla fine dell’opera, dopo che un prete ha sparato prima a Carlo, e poi allo stesso Filippo con gesto per un attimo inspiegabile, il volto di Posa si riconosce, in fondo al palcoscenico, sotto le bardature che avevano avvolto Filippo nella scena dell’Incoronazione: nuovo fantoccio del potere ecclesiastico. Dobbiamo dire che, così giocata sullo smascheramento d’un significato altrimenti incomprensibile, questa soluzione scenica ci è parsa la più convincente che mai abbiamo visto per il finale del Don Carlo italiano, e non lascia nulla d’irrisolto. Per contro, non ci si può sottrarre a un lieve sorriso constatando che, in questo modo, la “scenica movenza” sfoggiata da Posa in tutta la seconda parte del duetto con Carlo surclassa di gran lunga quella raccomandata a Cavaradossi. I gesti che abbiamo brevemente descritto spiegano anche un altro tratto insolito e apparentemente contradditorio nel primo quadro dell'opera: uno stuolo di eccelsiastici conduce Rodrigo al suo primo colloquio con Carlo.
Della regia propriamente detta, ci ha colpito molto favorevolmente la conduzione del breve ma capitale colloquio tra Elisabetta ed Eboli dopo il quartetto, e non favorevolmente la caratterizzazione del personaggio di Filippo II, sempre chiuso in una giacca, ovviamente nera, di foggia paramilitare, quando i preti non lo coprono di numerosi strati di vesti come un fantoccio. Ne esce una figura molto meno regale che piccolo-borghese, proiettata con indifferenza in un ruolo di dittatore e ci pare molto significativo che a questi estremi corrispondano anche estremi di pregnanza musicale, specie per quel che riguarda la direzione d’orchestra.
Questa era affidata, come abbiamo anticipato, a Myung-Whun Chung, l’artista più celebre della locandina e concertatore prediletto dall’Orchestra del Teatro La Fenice, che sotto la sua guida estremamente attenta ha confermato in questa recita inaugurale la propria splendida condizione: ci è parsa impeccabile in ogni reparto, con pienezza e calore di suono. Dei diversi possibili approcci a questo titolo verdiano, il maestro coreano sembra propendere per quello che vi privilegia le sopravvivenze (se non addirittura i ricuperi), nelle rielaborazioni seguite alla prima stesura, d’uno stile verdiano intermedio, non scevro da quegli elementi spesso detti per comodità “quarantottardi” divenuti via via meno significativi a partire dalla Luisa Miller. Se appare indubbia perlomeno una nostalgia di essi nella parte di Rodrigo, la scelta può sembrare (e sembra a chi scrive) meno atta a valorizzare le parti più nuove e inquietanti dell’opera, che hanno persino portato a supporre una “fase decadentistica nella coscienza di Verdi”. Dal punto di vista della resa timbrica, essa ha anche portato a privilegiare la nettezza e i contrasti delle campiture rispetto alla complessità di quegl’impasti strumentali, che, siano essi chiaroscurati alla Fricsay, estenuati alla Karajan o “prosciugati” alla Abbado, costituiscono ormai un punto di riferimento nella “lettura” strumentale di questo capolavoro. Il pubblico ha comunque mostrato di gradire moltissimo la direzione di Chung, a cui alla fine dell’opera ha tributato un’esplosiva ovazione facendone il (prevedibile) trionfatore della serata.
Dei tre “esordienti nel ruolo”, il tenore protagonista Piero Pretti ci è sembrato, alle prese con la sua difficile e ingrata parte, quello che l’ha affrontata con maggiore e più sofferta originalità, trovandosi altrettanto a proprio agio nei tratti più meditativi e, ad esempio, nello sfrenato Allegro marziale che Verdi aggiunse all’ultimo duetto con il soprano. Dotato di voce generosa e “bella”, e anche quasi costantemente ben controllata, il baritono coreano Julian Kim, presenza costante negli ultimi cartelloni della Fenice. Un discorso particolare merita il basso-baritono Alex Esposito, che ha dimostrato il pieno possesso di tutti i requisiti vocali per interpretare Filippo II: la corona (di tradizione) sul fa grave che chiude lo scontro con l’Inquisitore è stata di rara bellezza. D’altra parte, il ricordo della sottile perentorietà con la quale il cantante bergamasco aveva risolto, nel concerto che un anno fa concluse le celebrazioni del centenario boitiano, il Mefistofele del Prologo, ci porta a desiderare di risentirlo presto come Filippo in uno spettacolo d’impostazione musicale e registica diversa.
Infelice diremmo la scelta del rumeno Leonard Bernad per la determinante parte del Frate, mentre Marco Spotti, che già ricordavamo come buon Inquisitore qualche anno fa a Genova, ha dimostrato un approfondimento del personaggio che gli ha consentito di sfruttare al meglio i suggerimenti di violenza che gli giungevano dal podio.
Dopo avere superato il temibile scoglio di “Compi l’opra, a svenar corri il padre”, il soprano Maria Agresta ha chiuso la dolente aria di congedo per la Contessa d’Aremberg con un filato che resta nell’orecchio e nel cuore, mantenendo poi sino alla fine della serata un ottimo controllo dell’emissione. L’interpretazione del mezzosoprano Veronica Simeoni ha avuto il suo culmine nel Molto meno mosso “O mia regina, io t’immolai”, ma ripetiamo che la breve scena tra le due donne che precede l’uscita della Regina sdegnata ha costituito, a nostro gusto, il vertice della serata.
Non ripetiamo qui i nomi, elencati in locandina, della nutrita schiera degl’interpreti “minori”, che Verdi impegna spesso in modo “scoperto”. Diremo solo che tutti si sono dimostrati anche superiori ai loro ruoli.
Ottimo il Coro del Teatro la Fenice, preparato e diretto come sempre da Claudio Marino Moretti: a nostro personalissimo parere l’autentico punto d’eccellenza dell’esecuzione.
Il ritmo incalzante imposto da regia e direzione ha fatto sì che ben pochi siano stati gli applausi “a scena aperta”: il più caloroso quello ottenuto dalla Simeoni dopo la sua seconda aria. Alla fine i consensi si sono sensibilmente rafforzati al comparire del baritono, del soprano e del tenore, culminando nell’accoglienza a Chung.
Teatro stipato (e crediamo anche formalmente “esaurito”), nel quale si notava una presenza forse maggioritaria di tenute da sera maschili; più rare, anzi quasi assenti, le grandes tenues delle signore. Va anche detto che la noia deve avere serpeggiato a un certo punto tra la folta parte presenzialista del pubblico: ne è indice e misura l’alto numero di telefonini ripetutamente e maleducatamente accesi per leggere e scrivere chissà quali indifferibili messaggi.
La recensione si riferisce alla prémière del 24 novembre 2019.
Vittorio Mascherpa