Violetta Valery | Valentina Varriale |
Alfredo Germont | Giulio Pelligra |
Giorgio Germont | Marcello Rosiello |
Flora Bervoix | Irina Dragoti |
Annina | Rafaela Albuquerque |
Gastone di Letorières | Murat Can Guvem |
Il barone Douphol | Roberto Accurso |
Il marchese d'Obigny | Domenico Colaianni |
Il dottor Grenvil | Graziano Dallavalle |
Direttore d'orchestra | Yves Abel |
Regia | Lorenzo Mariani |
Scene | Alessandro Camera |
Costumi | Silvia Aymonino |
Luci | Roberto Venturi |
Video | Fabio Iaquone e Luca Attilii |
Movimenti coreografici | Luciano Cannito |
Maestro del coro | Roberto Gabbiani |
Orchestra e Coro del Teatro dell'Opera di Roma | |
Corpo di ballo del Teatro dell'Opera di Roma |
Il Teatro dell'Opera di Roma, per questa stagione estiva, si è orientato con più decisione verso la contemporaneità: un buon numero di concerti e spettacoli di danza lasciano meno spazio degli anni precedenti alle messe in scena operistiche. Il primo dei due titoli previsti alle Terme di Caracalla è La traviata e, nonostante l'onnipresenza del capolavoro di Giuseppe Verdi nella programmazione romana di questi anni, molti sono i posti occupati da turisti e appassionati.
L'allestimento è nuovo ed è firmato dal regista Lorenzo Mariani. L'idea di fondo è ambientare l'intera vicenda negli anni Cinquanta-Sessanta, nel mondo de La dolce vita: fin dalla scena d'apertura, ambientata “in via Veneto”, frizzante insensatezza e vespe imperversano sul palco. Violetta è una diva, costantemente inseguita da un gruppetto di paparazzi che non si fermano di fronte a nulla pur di ottenere qualche scatto, fotografando con voluttuosa avidità il decadimento fisico e spirituale legato alla malattia. Dopo l'affollatissima apertura, un altro colpo visivo si ha alla festa da Flora, nel secondo atto. Avanspettacolo: le zingarelle diventano splendide e provocanti ballerine burlesque, coi culi statuari del Corpo di Ballo ben in vista ad attirare prepotentemente l'attenzione del pubblico; le musiche di Verdi accompagnano scatenati balli swing e twist; i toreri manzi indossano giacchette dei Chicago Bulls (ma la squadra è stata fondata nel 1966...) e si atteggiano a Fonzie del Quarticciolo, mentre sui tavolini signori ben vestiti sorseggiano coppe di champagne, ordinando ai camerieri in livrea, e al centro della scena si gioca a carte su dei gradini. I costumi sono firmati da Silvia Aymonino e le scene sono curate da Alessandro Camera: l'elemento a fare da fil rouge è una sorta di palco/cornice al neon che si presta a vari usi e che, nel finale, apparirà distrutto al centro del palco, a significare il disfacimento non solo interiore della protagonista.
Oltre alla cornice sfolgorante, corroborata da proiezioni psichedelico-simboliche sulle rovine dietro il palco, purtroppo, poca sostanza drammatica. Gli interpreti sciorinano l'intero repertorio filodrammatico, riesumando davvero, in questo, gli anni Cinquanta: lacrimucce, espressioni corrucciate caricaturali, mani perennemente aperte (persino su battute non certo epiche, come “Annina donde vieni?”). Nel finale secondo, tutti rimangono fermi a cantare tranne Alfredo e Violetta che si avvicinano pian piano e che concludono l'atto abbracciandosi. Qualche turista se ne sarà andato pensando a una storia a lieto fine. Sì, perché non tutti hanno retto agli infiniti intervalli: 30 minuti tra il primo e il secondo atto, altrettanti tra il secondo e il terzo e un'altra decina tra le due scene del secondo. Iniziato alle nove di sera, lo spettacolo si è concluso a mezzanotte e mezza.
Nemmeno la parte musicale è memorabile. Il primo atto, in particolare, mette in difficoltà i due protagonisti. Il coro diretto da Roberto Gabbiani, poi, non pare particolarmente in serata, forse a causa dell'alta frequentazione con il titolo e della conseguente routine professionale che è tra i problemi principali di quasi ogni lavoro: si ascoltano attacchi non proprio all'unisono e piccoli problemi di sincronia.
Nonostante il timbro interessante, in grado di piegarsi ad accenti queruli ma abbellito da sfumature più scure e sensuali, la Violetta di Valentina Varriale parte maluccio,sacrificando un po' di libretto alle agilità, fraseggiando con rigidità e scegliendo di piazzare un brutto mi bemolle alla fine dell'aria. Si riprende nel secondo atto, con un buon duetto con papà Germont, giustamente applaudito dal pubblico, con una buona scena d'addio ad Alfredo e con un fraseggio che va scaldandosi e facendosi più interessante. L'ultimo atto, almeno dal punto di vista canoro, è per lei il migliore: un canto più trattenuto, sentito, convincente nell'intimità della solitudine, e un amaro sfogo canoro e recitativo al ritorno dell'amato. L'Addio del passato cantato quasi tutto in pianissimo e amplificato risulta davvero d'effetto. Peccato per la morte voluta dal regista, con capitombolo insensato all'indietro dall'effetto vagamente ridicolo.
L'Alfredo di Giulio Pelligra non convince. Nel primo atto, già a Un dì felice, eterea mostra problemi nella tenuta dei fiati e nell'ottava superiore. All'inizio del secondo atto la sua scena trascorre senza particolari emozioni, anche a causa di un fraseggio non ficcante. Buona prestazione alla festa di Flora, con una verve molto mascolina e convincente nell'offesa a Violetta e nell'immediato pentimento seguente. La conclusione è discretamente buona, ma non tanto da far dimenticare le pecche messe in luce negli atti precedenti.
Marcello Rosiello è un buon papà Germont. La dizione è perfetta; la recitazione e il fraseggio, meno roboanti di quelli dei colleghi, mostrano bene il paternalismo borghese al centro del secondo atto. Il canto sorvegliato si adatta molto bene al contesto, soprattutto alla presenza di un'amplificazione che favorisce la ricerca di accenti coinvolgenti, più che di acuti al fulmicotone.
Le voci femminili comprimarie, la Flora di Irina Dragoti e l'Annina di Rafaela Albuquerque, entrambe provenienti dal progetto Fabbrica – Young Artist, mostrano ancora limiti da valicare; lo stesso vale per il Gastone di Murat Can Güvem. Un po' meglio il Duphol di Roberto Accurso e il marchese d'Obigny di Domenico Colaianni. Meglio il dottor Grenvil di Graziano Dellavalle.
La cosa più convincente della serata è la direzione di Yves Abel. Nonostante le difficoltà extra dovute alla presenza dell'amplificazione e al palco molto grande e affollato, il maestro riesce a non perdere mai il contatto tra buca e palco. Palco, del resto, ormai ben conosciuto da Abel: nelle scorse stagioni ha diretto la splendida Madama Buttrfly con la regia di Alex Ollé e un Barbiere di Siviglia sempre con Lorenzo Mariani. Le sonorità create e i tempi scelti oscillano tra il giusto e il suggestivo: quando l'Orchestra del Teatro dell'Opera di Roma si fa notare, è sempre in positivo. La gestione delle dinamiche è da manuale. Per fare un paio di esempi: la tensione alla festa di Flora, nel momento in cui Alfredo richiama a sé tutti i convitati, diventa palpabile con poche accortezze, come l'acceso contrasto scaturito dal volume più marcato dei violini; oppure la sofferenza in apertura di terzo atto, sottolineata dal volume bassissimo di orchestra e poi della voce, udibili però da tutti grazie all'amplificazione. I tempi scelti, abbastanza serrati e in contrasto con la lentezza nei cambi scena, non consentono agli interpreti di adagiarsi troppo su acuti o braccia allargate e spingono costantemente il dramma avanti, per dare la giusta importanza ai momenti chiave.
La recensione si riferisce alla recita di venerdì 6 luglio 2018.
Michelangelo Pecoraro