Idomeneo | René Barbera |
Idamante | Aya Wakizono |
Ilia | Carmela Remigio |
Elettra | Eleonora Buratto |
Arbace | Giovanni Sala |
Gran sacerdote di Nettuno |
Carlos Natale |
La voce | Renzo Ran |
Due cretesi | Manuela Ciotto, Gabriella Barresi |
Due troiani | Cosimo Diano, Carlo Morgante |
Direttore | Daniel Cohen |
Regia , scene e costumi | Pier Luigi Pizzi |
Regista collaboratore e light designer | Massimo Gasparon |
Movimenti scenici | Deda Cristina Colonna |
Maestro del coro | Piero Monti |
Orchestra e Coro del Teatro Massimo | |
Allestimento del Teatro delle Muse di Ancona |
La stagione 2019 del Teatro Massimo prosegue in sostanziale equilibrio tra titoli volti più che altro a rimpinguare le casse della fondazione ed altri destinati a colmare lacune di programmazione nella storia dell'ente lirico. Per ritrovare Idomeneo possiamo solo volgere lo sguardo agli anni ottanta, periodo di triste chiusura del Massimo e di residenza della stagione lirica presso il Politeama Garibaldi, oggi sede dell’Orchestra Sinfonica Siciliana. Il 1983 marca infatti l’unica presenza sulle scene palermitane del dramma per musica di Mozart.
Prima opera compiuta, a suggello di una formazione in continuo divenire, Idomeneo segna il primo vero tentativo del compositore di affrancarsi dalla tradizione metastasiana e allo stesso tempo di ripartire dalla lezione gluckiana a favore di un’elaborazione musicale del tutto nuova, votata ad un lirismo senza ostacoli.
Per rimediare all’assenza del titolo a Palermo si è adottata la versione corrente di Monaco, commissionata a Mozart dal principe elettore di Wittelsbach per la sua scintillante orchestra, ma qui sforbiciata delle danze finali per l’incoronazione di Idamante. La produzione prescelta, è quella concepita da Pier Luigi Pizzi nel 2002 per la riapertura del Teatro Le Muse di Ancona. Si tratta di una scelta ponderata volta a presentare l’opera in modo rassicurante al pubblico conservatore degli abbonati, solitamente avvezzo alla sola trilogia dapontiana o al Flauto magico.
La cifra stilistica di Pizzi, regista oltre che scenografo e costumista, pone al centro dello spettacolo il mare visto come elemento primordiale in grado di togliere e restituire. Il dio Nettuno appare e scompare minaccioso fra i flutti gonfi di spuma che incombono in prospettiva dominante sulla scena, geometricamente divisa fra il livello inferiore profondamente umano e quello superiore di transizione tra acqua e terra. La sua presenza ci ricorda così la matrice tragica dal quale il soggetto discende.
Il riferimento alla tradizione teatrale classica è rimarcato dalla presenza compatta in un blocco unico del coro, vero e proprio personaggio dell’opera nonché elemento imprescindibile delle tragedie greche, sollecitato in Idomeneo a mostrare qualità di versatilità e intensità negli interventi più squisitamente drammatici del primo e del terzo atto alternati a momenti di distensione quali Godiam la pace e Scenda amor.
Pizzi fa della vicenda una dolorosa accettazione dei limiti umani all’interno di un contenitore nitido, quasi una scatola di un candore estremo illuminata dalle luci di Massimo Gasparon. Non c’è il mostro marino che promana dalla collera di Nettuno, ma una navicella che quella collera subisce e poi placidamente attesta l’equilibrio riconquistato nel finale. L’evoluzione degli avvenimenti, nonchè lo sviluppo psicologico ben individuato nella partitura, sono narrati attraverso la metamorfosi dei costumi, dal nero luttuoso al grigio, passando per il mantello rosso del re cretese ed infine in un’apoteosi di bianco. L’unico personaggio immutabile, chiuso nel suo amore infelice e rabbioso per Idamante, è Elettra, fasciata in un abito viola che sfida le consuetudini teatrali ma che si addice alla condizione della figlia di Agamennone fuggita a Creta dopo l’uccisione della madre. L’effetto visivo complessivo è di grande pulizia in un quadro generale che si concentra sull’aspetto neoclassico.
Ma Idomeneo è opera di passaggio che ha in nuce un che di protoromantico con influenze Sturm und Drang, qui esaltate dalla concertazione di Daniel Cohen che tornava al Massimo dopo il Midsummer night’s dream di Britten della passata stagione.
Il giovane direttore fa valere le sue doti di concertatore mettendo in rilievo la straordinaria modernità della costruzione mozartiana, caricandola inoltre di quel pathos mancante al levigato impianto scenico. Il dramma vissuto da ogni singolo protagonista ne esce sbalzato con un bulino che scava nell’intimo, sempre però in scrupolosa aderenza al dettame mozartiano. La pulsante tensione con la quale Cohen accompagna il canto non è mai soverchiante, in questo assecondata con pienezza dall’orchestra del teatro e dal coro che, al netto di qualche lieve imprecisione nel coro d’entrata, conferma la professionalità e la sapienza artistica grazie alle cure di Piero Monti. Quest’ultimo tra l’altro è alla sua ultima stagione al Massimo; la sua è un’ideale staffetta che lo vedrà a Santa Cecilia dal prossimo autunno mentre Ciro Visco lascerà Roma occupando a Palermo la posizione del partente collega.
René Barbera nel ruolo eponimo è un solido re cretese dall’emissione controllata e dal timbro luminoso. Esce a testa alta dalle agilità di Fuor dal mar, émusicalmente perfetto nel quartetto e sdegnato quanto basta nel finale del secondo atto, ma ciò che sfugge al suo canto è il rovello, il tormento dell’uomo di censo reale in balia dei capricci degli dei.
Al suo fianco brilla per chiarezza di dizione e precisione stilistica l’Arbace di Giovanni Sala che nelle due arie traccia un consigliere accorato di grande intensità, mancante invece nel protagonista. Il cast maschile è poi completato con pertinenza dal gran sacerdote di Carlos Natale e dalla voce dell’oracolo di Renzo Ran.
Il trio di protagoniste femminili riempie con calore e forte presa teatrale l’asettica costruzione registica, come se il contenitore di geometrica compattezza si riempisse di volta in volta di empiti di sfaccettata drammaticità. Dall’Ilia di Carmela Remigio, splendida principessa troiana vinta dall’amore per il nemico cretese ma pur sempre consapevole del suo censo, sgorgano agilità trasparenti ed accenti di squisita dolcezza nel dialogo con i fiati della celebre Zeffiretti lusinghieri. I recitativi sono poi vero punto di forza della sua prova in special modo nell’incontro con Idamante. La figura aggraziata e i lunghi capelli neri nella semplicità dei pepli che la avvolgono fanno della cantante un’interprete da tragedia classica saldandola con elegante sintonia al principe cretese di Aya Wakizono. Il mezzosoprano giapponese associa al timbro chiaro varietà d’accenti e fraseggio frastagliato che ben descrivono sgomento, baldanza, incredulità. Cosicché frasi come Non ho colpa e mi condanni oppure Mi sfugge sdegnato fremendo d’orror caricano di penosa teatralità l’atmosfera.
Dell’Elettra di Eleonora Buratto non si può non sottolineare la sontuosità del timbro e l’omogeneità dei registri coniugate ad un’interpretazione mai sopra le righe ma pur sempre fondata sulla veemenza del fraseggio che ben delinea le esplosioni di furore delle quali è infarcita la parte. Così le salite all’acuto nell’iniziale Tutte nel cor vi sento risuonano salde e prive di sforzo, e al contempo i passi più lirici, sia pure con i temibili vocalizzi contenuti in Idol mio, e l’elegiaca Soavi zeffiri mettono in mostra un ottimo legato.
Il pubblico palermitano apprezza con calorosa partecipazione la nuova proposta del cartellone corrente e si prepara ad accogliere con volo pindarico Pagliacci, ultima opera in scena nella sala del Basile prima della pausa estiva.
La recensione si riferisce alla recita del 26 Aprile 2019.
Caterina De Simone